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Indice
- I bambini hanno diritto alla neve
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La povertà simbolica e i suoi rischi
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Desiderio, invidia e altre “epidemie"
S&F_n. 02_2009
1. I bambini hanno diritto alla neve
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Vorrei partire da due fatti di cronaca tra loro connessi. Il consigliere comunale di Torino Agostino Ghiglia (An) ha recentemente lanciato la straordinaria proposta di spargere sulle nuvole una particolare miscela che impedisce ilformarsi della neve. L'idea non è nuova e pare messa in pratica – non so con quale successo – in Cina per controllare le precipitazioni a favore dell'agricoltura. La motivazione di Ghiglia è essenzialmente economica, legata ai costi elevati dello sgombero della neve, ma è anche ispirata al concetto di rischio, perché impedire le nevicate significa anche prevenire un certo numero di fratture, magari negli anziani, e di incidenti stradali. A un esame strettamente utilitaristico la proposta non fa una grinza. Ma a me pare che essa sia invece delirante. Una prima argomentazione per contrastarla è che già siamo in balia di potenziali eventi catastrofici legati a cambiamenti climatici indotti dall'uomo, per cui sembra abbastanza irresponsabile pensare di mutare ulteriormente e in modo artificiale le precipitazioni atmosferiche. Ma la seconda argomentazione è più sostanziale. Credo che molti lettori – ma evidentemente non Ghiglia – converranno con me che tra i migliori ricordi della nostra infanzia ci sono le grandi nevicate che ci impedivano di andare a scuola. Si poteva poltrire per parte della mattina, in un'atmosfera un po’ magica (il bianco della neve che si rifletteva nella stanza, i rumori attutiti). E poi si poteva fare a palle di neve, o andare in slitta. E i nostri genitori avevano improvvisamente molto più tempo da dedicarci. La neve era la vera “vacanza della vita”, per usare un’espressione di Hegel (ripresa da un romanzo di Queneau, non a caso ... si veda oltre). La neve introduceva una cesura nella routine quotidiana della produzione e della performatività (e mi perdoni Brunetta se qui faccio l’elogio del “fannullone”, che peraltro trae origine dal grande personaggio del “flaneur” baudelairiano). La neve della mia infanzia era democratica, perché consentiva anche ai bambini poveri (forse più a loro, i ricchi non dovevano “correre rischi”) di divertirsi senza spesa.
Il secondo fenomeno della cronaca di questi giorni è che girando per mezza Europa è misteriosamente già Natale (scrivo il 9 di novembre dalla Germania). Perché? Beh, è chiaro, perché l'economia è in crisi, i posti di lavoro sono “a rischio”, e dunque cerchiamo di sostenere i consumi anticipando forzatamente il Natale. Credo che non sia difficile intravedere un nesso tra i due episodi, poiché entrambi stravolgono i simbolismi di una stagione (il Natale della cristianità e il Natale della neve) all'insegna di che cosa? Ma evidentemente della produzione, dell'imperativo economico e produttivistico. Basta con i fannulloni che poltriscono sotto il piumone perché nevica: fuori a lavorare, e poi subito a comprare beni di consumo (quali? li abbiamo già tutti) “sentendo nell'aria l'atmosfera” (artificiale) del Natale.
Qui i rimandi letterari sono molteplici, ma innanzitutto a Benjamin e alla sua ricostruzione artificiale dell’“aura”, analizzata nella sostituzione storica del teatro con il cinema; e a Queneau con il suo mondo di anti-eroi che si divertono con poco perpetuando una “domenica della vita” che si svolge ai margini del mondo produttivo (dei consumi, e, aggiungerei, delle guerre). Dunque, bambini, opponetevi alla proposta di Ghiglia, pretendete la neve vera come vostro diritto: è meglio di molti gadget elettronici!
2. La povertà simbolica e i suoi rischi
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Si sarà notato il ricorrere del vocabolo “rischio” in quanto precede. La nostra società sembra ossessionata dai rischi, o almeno da alcuni di essi, mentre sosterrò che è cieca davanti ad altre forme di rischio. L’espressione “società del rischio” è stata coniata molti anni fa dal sociologo Ulrich Beck, che si riferiva – anche sulla scorta delle riflessioni di antropologi come Mary Douglas – ad almeno due caratteristiche delle società contemporanee: la diffusa “percezione dei rischi” da parte della popolazione (pensiamo alla attuale preoccupazione per l’influenza H1N1) e il ricorso a modelli probabilistici per descrivere molti degli aspetti della vita sociale, a partire dall’economia, per razionalizzare le decisioni.
D’altra parte il concetto di “rischio” ha sempre fatto parte della definizione stessa dell’economia capitalistica, e ha ricevuto grande impulso dalle assicurazioni. L’imprenditore liberale classico rischiava il suo capitale per perseguire un progetto innovativo basato sull’applicazione dell’ingegno (e della forza-lavoro). Ma rispetto alla classica analisi liberale, la globalizzazione ha stravolto e perfino eliminato il rischio capitalistico legato all’applicazione dell’ingegno, mentre viene premiato il rischio probabilistico del capitale finanziario – di cui quello di Madoff è un esempio estremo. Gli spostamenti di capitali, di attività produttive e conseguentemente di uomini e donne, e la stessa produzione di merci, non rispondono più (o almeno non soltanto) alla finalità di produrre qualcosa di utile e ingegnoso. Utilità, bellezza e ingegnosità sono eventuali sottoprodotti.
Emerge così una diversa visione dei rischi che corriamo, dei motivi per cui li corriamo e di come viceversa li percepiamo. Se il secolo trascorso ha visto la transizione dalle cause infettive a quelle chimiche, almeno nelle società industriali (si pensi all'epidemia di morti da fumo di tabacco e da esposizioni a cancerogeni occupazionali nella seconda metà del ventesimo secolo), oggi le malattie dominanti sono più spesso legate alla sedentarietà, alle modalità di trasporto delle persone in un contesto di altissima mobilità (inclusi gli incidenti automobilistici), e soprattutto sono legate alle radicali modifiche intercorse nell’alimentazione. Quest'ultima è infatti sempre più soggetta a manipolazioni industriali che rendono i cibi largamente diversi da quelli cui la nostra specie si è abituata nel corso dell'evoluzione. A parte il frequente uso di additivi e conservanti, preoccupa soprattutto la tendenza a diffondere il consumo di cibi che creano una dipendenza gustativa, particolarmente ricchi di sale o di zuccheri o di grassi – il cosiddetto junk food.
Oltre all’“epidemia” di obesità e di diabete, che colpisce ormai largamente anche paesi a basso reddito, ancora più preoccupante è l’“epidemia” di depressione, di cui poco si parla ma che dalle rilevazioni è chiaramente percepibile. Senza azzardare interpretazioni troppo semplicistiche, sembra ragionevole pensare che essa sia legata alla discrasia tra le richieste e le aspettative sociali, da un lato,e le concrete possibilità di realizzarle dall'altro.
Secondo la tesi di James Hillman, sofisticato psicanalista junghiano, molti dei problemi psicologici della modernità nascono dalla cattiva qualità dell’ambiente – inteso in senso lato – dalla sua “povertà simbolica”, dall’assenza di senso che veicola[1]. Secondo Hillman la nostra – quella della società dei consumi – è una “vana fuga dagli dei”, nel senso che tutti abbiamo bisogno di un “ordine simbolico” le cui origini risalgono all’alba dell’umanità e al suo rapporto con la natura. Pensiamo al senso di armonia trasmesso dall’arte del Rinascimento e ai molteplici significati che veicolava: nella sola Primavera di Botticelli ci sono ben 500 tipi di piante e fiori, ciascuna con i suoi rimandi simbolici. Secondo Hillman è una pura illusione fare a meno di questi simbolismi, pensare di sostituirli con i “neutri” oggetti di consumo. Gli oggetti non sono neutri, ma veicolano a loro volta specifici significati e simbolismi. Non intendo dire che dobbiamo fissarci a un passato remoto (non esistono età dell’oro), ma che non possiamo pensare che le trasformazioni degli oggetti, dell’ambiente e del paesaggio siano neutre. Esse si riferiscono talora a precise scelte industriali, come i tipi di cibi messi a disposizione nei supermercati, talora rappresentano la cristallizzazione di rapporti sociali (come vedremo tra poco riferendoci agli scritti di Berger), ma neutri non lo sono certamente.
3. Desiderio, invidia e altre “epidemie”
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L’analisi che precede trova ampie conferme nei recenti scritti di un filosofo della vita quotidiana, Remo Bodei, attraverso la distinzione che egli introduce tra oggetti e cose[2]. In breve, il mondo degli oggetti si trasforma in “cose” grazie al trasferimento di un valore affettivo o simbolico. Le cose parlano di noi, fanno parte di noi, e ci possono sopravvivere (come gli oggetti dei nostri cari deceduti ci parlano di loro). Ma gli oggetti per essere cose debbono avere una loro durata temporale, una loro “vita”, una loro fisiologia che la produzione di massa scompiglia e distrugge. Così le cose spariscono per noi, e gli oggetti caduchi, deperibili e seriali della produzione di massa non le possono sostituire. Bodei cita una lettera di Rilke del 1925:
Ora incalzano dall’America cose vuote, indifferenti, apparenze di cose, parvenze della vita […] Una cosa, nel senso americano, una mela americana o una vite di là non hanno nulla di comune con la casa, il frutto, il grappolo, in cui era puntata la speranza e la meditazione dei nostri avi [… ]. Le cose animate, vissute, consapevoli con noi, declinano e non possono essere più sostituite. Noi siamo forse gli ultimi che abbiamo conosciuto tali cose. Su noi posa la responsabilità di conservare non solo il loro ricordo […] ma il loro valore umano e larico nel senso della divinità della casa.
A dimostrazione della non-innocenza dei cambiamenti produttivi e comportamentali – che sostituiscono le cose con oggetti attraverso la mercificazione -, la brillante analisi di John Berger in Ways of seeing mostra le metamorfosi estetiche e simboliche dalla pittura fiamminga al design industriale e alla pubblicità. Secondo Berger la pittura fiamminga esprime l’individualismo borghese nella sua massima espressione. Il quadro fiammingo rappresenta il borghese che si rivolge ad altri borghesi e mostra le proprie ricchezze, la solidità della propria casa, il senso di un’esistenza in cui le acquisizioni terrene rimandano a una grazia ottenuta attraverso le opere, a un significato che trascende gli oggetti rappresentati. Con il capitalismo più mercantile, la pubblicità si rivolge alle masse con una simile messinscena, proponendo un consumo effimero che crea l’illusione di potersi assimilare all’esclusività del grande borghese (comprese, oggi, le sue trasgressioni).
L’analisi stilistica della pittura che diventa pubblicità rivela una metamorfosi che è tutt’altro che neutra e innocente. Il soggetto rappresentato è simile: un uomo bello e ricco che si compiace dei beni che ha accumulato; ma a un esame più attento i significati sono ben diversi, quasi opposti. Primo, i beni di consumo sono oggi ricchezze effimere e ben lontane da quelle ricchezze pesanti e reali che il borghese fiammingo accumulava: sono caduchi, poveri e spesso brutti. Secondo, gli oggetti di cui il grande borghese si circondava non erano che la manifestazione esteriore di un più vasto dominio sul mondo – in senso letterale, attraverso i commerci e le conquiste. Si veda a questo proposito la “Galleria dell’illuminismo” (Enlightenment Gallery) al British Museum, che mostra una straordinaria collezione di oggetti da ogni parte del mondo, una rappresentazione del dominio imperialistico inglese al suo apogeo. Ironicamente, questa galleria è stata allestita di fronte a quella meravigliosa biblioteca dove Marx all’incirca negli stessi anni scriveva Il Capitale.
L’origine della democrazia moderna e il fatto che il processo di democratizzazione si sia fermato a metà strada (quanto appare vera oggi questa predizione …), secondo Berger ha fatto dell’invidia il sentimento più diffuso, un vero motore dello sviluppo: il perseguimento della felicità personale è stato riconosciuto come diritto universale, e porta anche innegabili vantaggi alla crescita (da cui siamo ossessionati). Ma la felicità universale non può esistere nell’attuale sistema economico. Ecco allora l’invidia, la contraddizione tra ciò che l’individuo è e ciò che vorrebbe essere. «Nei suoi sogni a occhi aperti il lavoratore passivo diviene un consumatore attivo», sogna cioè di realizzare attraverso i consumi quella felicità che la pubblicità (la televisione …) gli propone.
La pubblicità trasforma il consumo in un sostituto della democrazia […]. Il capitalismo sopravvive in quanto obbliga ciascuno a definire i propri interessi nel modo più ristretto possibile, e questo viene realizzato imponendo un falso standard di ciò che è e ciò che non è desiderabile[3].
È in questo contesto che, secondo Hillman, va inteso il sorgere di nevrosi dovute all’evidente divario tra le attese e la realizzazione concreta[4]. Ed è anche in questo contesto che va inteso il declino della “vita delle cose” secondo Bodei, o la lettera di Rilke citata sopra. Si capisce così che quando parliamo di rischi ambientali dobbiamo essere estremamente precisi e prudenti: la straordinaria attenzione che c’è oggi per certi tipi di rischi ci porta a offuscare completamente gli effetti – ben più significativi per la nostra civiltà spirituale – della bulimia diffusa e della coazione a ripetere i riti della pubblicità e del consumo, forse alla base delle epidemie che oggi ci affliggono, l’obesità e la depressione.
[1] Cfr. J. Hillman, Trame perdute, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1985; Id., Anima: anatomia di una nozione personificata, Adelphi, Milano, 1989.
[2] Cfr. R. Bodei, La vita delle cose, Laterza, Roma-Bari 2009.
[3] J. Berger, Ways of seeing, Penguin Books, Londra 1972.
[4] J. Oliver, Il capitalista egoista, tr. it. Codice, Torino 2008.
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