Autore
Salvatore Giammusso
Università degli Studi di Napoli Federico II
insegna Storia della Filosofia Tedesca presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II
Indice
1. L’antropologia filosofica: un panorama variegato
2. L’uomo tra Geist e Leben
3. Bollnow e l’opzione funzionalistica
4. Antropologia filosofica e antiriduzionismo
S&F_n. 01_2009
1. L’antropologia filosofica: un panorama variegato
Vorrei considerare il contributo dell’antropologia filosofica contemporanea alla questione della natura umana. Va ricordato innanzitutto che l’antropologia filosofica del Novecento non è una tradizione omogenea. Scheler, Plessner e Gehlen avevano tra loro relazioni personali conflittuali e insormontabili divergenze teoriche. Si pensi ad esempio all’ultimo Scheler, che drammatizza il conflitto tra spirito e vita come principii opposti e antagonistici, laddove Plessner rifiuta ogni impostazione dualistica; del resto le posizioni istituzionalistiche e conservatrici di Gehlen sono del tutto incompatibili con quelle di un liberal come Plessner, che negli anni Sessanta intesse legami con la scuola di Francoforte. Si potrebbe aggiungere ancora che Gehlen è un interprete della società industriale del secondo dopoguerra e attribuisce alla tecnica un ruolo fondamentale per ridurre la complessità dell’organizzazione sociale; Bollnow vede invece nel rapporto con la natura una via privilegiata per il rinnovamento della vita, e questo motivo è un prodotto culturale dei tardi anni Ottanta, da inquadrarsi in un contesto storico-sociale diverso, molto più attento alle problematiche ecologiche e al dialogo interculturale. Tenendo conto delle notevoli differenze di sfondo storico-culturale e di orientamento teorico, si possono però comparare i paradigmi, le strategie argomentative e gli esiti cui è pervenuta la riflessione antropologica.
Un primo punto riguarda il rapporto con la filosofia di Kant. In generale i diversi autori si sono richiamati all’ideale kantiano di un filosofare scientifico fondato sull’autonomia teorico-pratica della ragione; così hanno fatto ricorso ai risultati delle scienze naturali e storico-sociali (biologia, psicopatologia, antropologia comparata, ma anche sociologia, psicologia, etnologia, storia) per affrontare la tradizionale questione di cosa sia l’uomo e quale sia il suo posto nel mondo, in breve: la questione della natura umana. Tuttavia l’antropologia filosofica ha cercato di andare con Kant oltre Kant, ossia di tenere fermo l’ideale moderno di un filosofare in senso scientifico, ponendo allo stesso tempo in discussione lo stesso concetto di ragione. Esemplare è il caso di un autore contemporaneo come Gernot Böhme, che riprende alla lettera il programma kantiano di un’antropologia in senso pragmatico, ma lo sviluppa in una prospettiva aperta ai contributi provenienti dalla psicoanalisi, dalla mistica, dalla psicologia dell’età evolutiva, e in genere da campi di studio che hanno portato l’attenzione sull’altro dalla ragione[1]. Anche Plessner ha considerato la vita espressiva di particolare rilevanza per la comprensione della natura umana. Di qui dunque l’attenzione per il riso e il pianto, il sorriso e l’atto imitatorio, intesi anzitutto quali espressioni corporee. Dal canto suo, Bollnow ha sviluppato lucide analisi di fenomeni come la verticalità della postura e l’orientamento spaziale del corpo, il valore morale dell’esercizio, le tonalità emotive. Potremmo dire che la dimensione corporea, “patica” (nel senso di Erwin Straus) dell’esperienza ha fatto così irruzione nel contesto del sapere filosofico. Si può riconoscere qui un tratto caratteristico: al di là delle molteplici differenze l’antropologia filosofica muove dalla crisi del concetto classico di ragione, crisi di una visione della “natura” umana pensata secondo schemi intellettualistici e astorici. Si ricorre a nuove esperienze scientifiche, in primo luogo alla biologia (Uexküll, Driesch, Bolk, Portmann) per mostrare come la sfera dell’umano emerga a partire dalla natura e vi resti connessa in maniera indissolubile. Deriva di qui una critica di principio ai modelli meccanicistici e a quelli culturalistici che pretendono di fissare dall’interno della propria metodologia una presunta “natura” umana.
2. L’uomo tra Geist e Leben
Scheler ha tracciato in abbozzo una fenomenologia del mondo organico distinguendone diverse forme secondo il grado di sviluppo degli stati interni e dell’autonomia rispetto al mondo circostante[2]. Egli individua una successione di gradi nelle forze biopsichiche: impulso affettivo, istinto, memoria associativa e intelligenza pratica. La vita vegetale rappresenta il primo grado nella scala delle forme viventi, poiché l’organismo è dotato di impulso affettivo, ma non di una consapevolezza centrale dei suoi stati. Le specie del regno animale dispongono non solo di sensazione, ma in diverso grado anche di memoria e intelligenza pratica. Nella vita animale si forma una rappresentazione centrale degli stati interni e dell’ambiente di vita. Oltre questo secondo grado vi è infine il grado rappresentato dalla sfera umana, in cui le posizioni di vita precedenti sono presenti, ma al loro fianco “emergono” anche le prestazioni cognitive superiori, grazie a cui il sistema vivente prende coscienza anche di se stesso. La natura umana appare dunque eccedente rispetto alle forze biopsichiche che condivide con le altre forme viventi. Fin qui potrebbero arrivare anche le evidenze prodotte dalle neuroscienze contemporanee, quando ad esempio distinguono evolutivamente i “tre” cervelli dell’essere umano. Ma Scheler ragiona da metafisico che vuole esprimere concettualmente la posizione particolare (Sonderstellung) dell’uomo nel cosmo: egli racchiude questa eccedenza nel concetto di spirito (Geist), che rappresenta un principio «contrapposto alla vita in generale, e anche alla vita nell’uomo»[3]. In questa prospettiva l’uomo non è necessariamente vincolato agli impulsi e a differenza dell’animale può dir di no alla vita (Neinsagenkönner). Questo aspetto costituisce la posizione metafisica dell’essere umano, che partecipa delle altre forme viventi nel cosmo, ma ne è allo stesso tempo separata. Grazie ad essa l’uomo è “aperto al mondo” (weltoffen), ha il “monopolio” della cultura e grazie alla funzione specifica della visione fenomenologica d’essenze può comprendere la gerarchia fondamentale secondo cui l’intero sistema si dispone. Nel contributo scheleriano si possono notare tre elementi di insieme. La prospettiva cosmologica, la comparazione uomo-animale, la posizione metafisica del dire-di-no-alla vita. Si noterà che questo paradigma si serve di strumenti moderni per veicolare una concezione alquanto tradizionale dell’identità umana. In sostanza, lo spirito emerge dalla vita sensibile e si volge alla contemplazione delle idee. Di fatto la critica al dualismo cartesiano contenuta nel saggio approda a una nuova forma di dualismo. Scompare il concetto idealistico di “ragione”, ma compare quello di “Geist”, concepito in opposizione a quello di “Leben”.
Contro questi aspetti metafisici si è rivolta la critica di Gehlen. Egli ha cercato di dimostrare che la destinazione culturale dell’uomo è inscritta nella stessa struttura deficitaria della sua organizzazione biologica. Gli strumenti delle scienze naturali servono a Gehlen per «scorgere l’intelligenza dell’uomo nel contesto della sua situazione biologica, della struttura delle sue percezioni, azioni e bisogni»[4]. Gehlen sostiene che l’apertura al mondo deriva in realtà dallo scarso adattamento umano all’ambiente naturale. Per rimanere in vita, l’uomo deve agire ed esonerarsi dalla pluralità di stimoli cui è sottoposto. Il concetto di azione viene così a occupare un posto centrale per la comprensione della sfera umana. Attraverso l’azione, ivi incluso l’uso del linguaggio, l’essere umano riduce la complessità derivante dall’apertura al mondo, che in realtà è un onere difficilmente sopportabile per un essere biologicamente carente. Di qui si origina l’ordine della cultura, che compensa il deficit dell’essere umano offrendogli un habitat analogo a quello che l’ambiente circostante fornisce all’animale. Rispetto a Scheler, Gehlen rifiuta la prospettiva cosmologica, la comparazione uomo-animale, il conflitto metafisico tra vita e spirito. Il suo approccio è critico nei confronti dell’antropocentrismo e dell’umanitarismo moderni e propende per posizioni politicamente conservatrici che derivano direttamente dalla sua visione dell’uomo come essere biologicamente deficitario. Sembra che la rottura rispetto a Scheler sia totale. Ma anche qui a ben guardare si vedono in ultimo delle convergenze. Anche nella visione gehleniana della natura umana giocano un ruolo di primo piano concetti come “posizione particolare” (Sonderstellung) dell’uomo, “apertura al mondo” (Weltoffenheit), “immagine dell’uomo” (Bild vom Menschen). Questi concetti lasciano intravedere due aspetti collegati: 1) una diversità della specie umana dimostrata dalle scienze moderne; 2) il compito della riflessione antropologica di costruire un’immagine teorica che elabori i risultati di queste ultime. L’immagine deve mostrare l’uomo come essere che per sopravvivere ha bisogno di agire e dare consistenza istituzionale alle sue azioni. Mentre Scheler accentua la capacità umana di dir di no alla vita attraverso una forma di ascesi spirituale, Gehlen vede invece nel culturalismo, in primo luogo nella tecnica e nelle istituzioni, l’unica possibilità per l’essere umano di salvarsi dal caos naturale. Si noterà che l’uno e l’altro affrontano la questione della natura umana in una prospettiva biologica, sebbene entrambi intendano la natura come qualcosa di latamente minaccioso, che in definitiva l’essere umano deve trascendere/redimere (Scheler) o compensare (Gehlen).
A differenza di Scheler e Gehlen, Plessner sostiene un punto di vista molto più aperto al mondo moderno e al pluralismo culturale. Il suo stesso concetto di natura ha un carattere relazionale e storico. Plessner afferma che tutti i corpi viventi si distinguono dal mondo inorganico per il carattere posizionale: grazie al possesso di una membrana, il corpo è sin dall’origine connesso al mondo circostante eppure autonomo[5]. L’animale e l’uomo si distinguono per il diverso modo di realizzare il carattere posizionale della vita, ossia per il diverso rapporto con il corpo fisico. Mentre l’animale si risolve completamente nella relazione tra il suo corpo e il mondo circostante, la struttura del comportamento umano è eccentrica. L’essere umano è corpo, ma non lo possiede mai del tutto, e deve sempre rinnovatamente agire, esprimersi, elaborare autocomprensioni in forma di visioni del mondo. In altri termini la natura umana è legata alla vita corporea, e al tempo stesso posta anche a distanza da essa. L’essere umano vive sempre nella tensione tra l’essere centro e periferia del suo campo posizionale. Plessner usa una bella immagine per rendere intuitivo il suo concetto: se si potesse osservare l’uomo da un altro pianeta, egli dice, si noterebbe un essere che non si distacca dagli animali e che tuttavia sembra balzare in avanti, in alto, sembra in qualche modo andare oltre la sua posizione di vita. Ecco dunque il concetto di posizione eccentrica, che ha un senso fenomenologico in quanto descrive la dinamica di una relazione al mondo. Plessner parla di “Weltstellung” e non di “Stellung im Kosmos” o di “Sonderstellung”, come Scheler e Gehlen, e vuole dire che il tipo specifico di posizionalità umana nel mondo organico rende l’essere umano naturale e al tempo stesso “eccentrico”, dislocato rispetto alla sua naturalezza corporea.
Fondata su questo concetto della natura eccentrica dell’essere umano, l’antropologia plessneriana ha un forte orientamento pratico. Già a partire dagli anni Trenta Plessner ha incluso nel concetto dell’antropologia filosofica la critica di ogni antropologia positiva. L’antropologia è innanzitutto una critica del sapere. Per l’antropologia la questione della natura umana non è una questione scientifica di tipo neutro. Plessner sostiene che non si dà teoria che non sia sempre orientata alla prassi e non si dà prassi che non sia già sempre sorretta da una forma implicita di precomprensione teorica. Se allora il rapporto con una cosa dipende dall’idea che in maniera più o meno esplicita si sviluppa di essa, una teoria della natura umana non può prescindere da un atteggiamento di critica, innanzitutto verso i propri strumenti concettuali e poi verso ogni prospettiva che assolutizzi il proprio punto di vista. È a partire da quest’ottica che risulta comprensibile una frase in apparenza criptica del tardo Plessner. «L’antropologia dissolve la teologia»[6]. L’antropologia fa valere il principio dell’homo absconditus: in base a questo principio occorre attribuire al concetto della natura umana lo statuto logico-ontologico di cui dispone il concetto di Dio nelle teologie negative: esso è un concetto limite che si riferisce a un essere indeterminabile in positivo. Dunque la questione della natura umana è innanzitutto la questione di un sapere moderno, aperto e critico. Rispetto alla metafisica “premoderna” di Scheler e all’istituzionalismo antimoderno di Gehlen, Plessner ha efficacemente mostrato che nel discorso sulla natura umana teoria e prassi tendono a identificarsi e dunque un’antropologia filosofica deve assumere una funzione critica rispetto a ogni visione empiricamente ristretta o unilaterale dell’essere umano. Se il senso del moderno risiede nel riconoscimento dell’ autonomia umana e del pluralismo culturale, la teoria della natura umana deve porre l’accento sul pluralismo metodologico e sull’apertura di principio a tutti gli aspetti della vita. Su questa base si è aperta una nuova prospettiva per la comprensione antropologica.
3. Bollnow e l’opzione funzionalistica
A Otto Friedrich Bollnow si deve una radicalizzazione dell’antropologia filosofica nel senso di un’ermeneutica capace di affrontare manifestazioni della cultura e della vita. Bollnow non può accettare l’idea di una natura umana immutabile e afferma piuttosto «il carattere storicamente condizionato di ogni vita umana e di tutte le sue oggettivazioni culturali»[7]. Si possono individuare delle tendenze generali (lo stesso Bollnow ha studiato la stazione eretta e ne ha tratto delle conseguenze in campo pedagogico), ma ogni sapere che voglia dire qualcosa riguardo alla natura umana deve essere necessariamente aperto, critico, integrativo, e soprattutto “bildlos”, privo cioè di immagini provenienti da altri ambiti della vita, ad esempio religiosi o politici. Un discorso moderno sulla natura umana deve inoltre assumere che il criterio dell’universalità tipico delle scienze naturali non può essere esteso al campo delle scienze ermeneutiche, che devono piuttosto aspirare all’oggettività. Tutti questi motivi sono presenti in un breve saggio dei primi anni Settanta[8]. Bollnow vi sostiene che la prospettiva “cosmologica” basata sulla comparazione uomo-forme viventi (oggi si potrebbe aggiungere: la comparazione mente umana-intelligenza artificiale) tende a elaborare in maniera unilaterale certi aspetti della natura umana. Invece l’antropologia deve riconoscere «in linea di principio l’eguale diritto di tutti i tratti essenziali reperibili nell’uomo senza privilegiare un aspetto determinato» e muovere «innanzitutto dall’uomo, comprenderlo a partire da lui stesso e non sulla base di una comparazione con l’essere extra-umano»[9]. Bollnow opera con un modello funzionalistico, cerca cioè di comprendere la funzione che un certo ambito culturale, ad esempio religione, diritto e così via, svolge per soddisfare un bisogno. Quest’opzione funzionalistica consiste «nella riconduzione di un’oggettività apparentemente autonoma a una relazione che comprende insieme uomo e mondo - in questo caso dunque: uomo e cultura»[10]. L’accento è sulla relazione vitale. In un tardo saggio degli anni Ottanta Bollnow ha precisato il suo principio metodologico affermando che «l’uomo, producendo la sua cultura, sviluppa nel contempo se stesso e così l’uomo e la cultura devono essere compresi nell’unità che li avvolge. Così, in un reciproco completamento, la cultura viene compresa a partire dall’uomo che la produce e l’uomo viene compreso attraverso la cultura che ha prodotto»[11]. Si può quindi comprendere un fenomeno particolare studiando la funzione che assolve nel tutto in cui si è originato, ma è possibile anche ribaltare la prospettiva ermeneutica e utilizzare la parte per dire qualcosa riguardo al tutto. Bollnow riformula il senso di un principio plessneriano: «come deve essere l’essenza dell’uomo, perché potesse produrre da un bisogno interiore l’arte, la scienza, la politica e così via? Cosa apprendiamo da queste creazioni sul loro creatore?»[12]. Qui però non è intesa alcuna “essenza” sovra-storica o metafisica, quanto piuttosto un “tipo” concettuale, uno strumento flessibile con cui lavorare in maniera sempre rinnovata alla teoria della natura umana. Le due prospettive si integrano tra loro perché si riferiscono all’essere umano come essere naturalmente destinato alla dimensione culturale. Si potrebbe obiettare che questa prospettiva si muove pur sempre in senso culturalistico. Occorre ricordare però che Bollnow, come molti altri autori della sua generazione, aveva una prima formazione scientifica (era stato allievo del fisico Max Born), ed era particolarmente sensibile alla questione di un’interpretazione dei risultati della ricerca sperimentale. Il terzo principio metodologico della sua ermeneutica ha proprio l’obiettivo di integrare ricerche condotte con tecniche proprie delle scienze naturali su una qualsiasi manifestazione della vita (stati d’animo, sentimenti, impulsi e così via) all’interno di una teoria qualitativa della natura umana. Nella sua formulazione più generale tale principio suona nel modo seguente: «come deve essere l’essenza dell’uomo nella sua totalità affinché questo particolare fenomeno dato nel fatto della vita si lasci comprendere come elemento dotato di senso e necessario?»[13]. Si comprende che la procedura ermeneutica è la stessa, salvo che ha un carattere più generale. Bollnow l’ha applicata a fenomeni della sfera non verbale come ad esempio lo spazio vissuto e le tonalità emotive, ponendo attenzione nell’evitare immagini conclusive e asserzioni definitive. Le questione della natura umana è infatti per lui una questione aperta. «Una questione aperta - scrive Bollnow - […] non significa una questione cui non viene data o non si può dare risposta, bensì una questione il cui risultato non è già prefissato dal tipo di posizione della domanda, ma è aperto a risposte nuove, sorprendenti e non previste»[14]. Il lavoro di un’antropologia filosofica «non può mai giungere a una conclusione, perché dall’insondabilità dell’uomo appare sempre qualcosa di nuovo e imprevisto»[15]. Le conseguenze metodologiche di questo principio sono interessanti: non solo non esiste un’astratta natura umana, ma non c’è neanche un sapere che possa coglierla in maniera privilegiata: quindi non la metafisica, non le scienze empiriche e nemmeno l’antropologia filosofica. Quest’ultima può essere tutt’al più una forma di ermeneutica che media tra mondo scientifico e mondo della vita, elabora cioè i risultati offerti dalle diverse scienze empiriche e suggerisce nuove possibilità pratiche. Ma si capisce che questo ruolo di mediazione non può mai essere concluso e deve piuttosto rimanere aperto: del resto, come la vita stessa.
4. Antropologia filosofica e antiriduzionismo
In conclusione vorrei fissare alcuni punti che mi sembrano particolarmente significativi. Sotto l’aspetto metodologico l’antropologia filosofica si presenta come una critica di ogni riduzionismo. Sono riduttivi approcci scientistici o anche culturalistici che assolutizzino il proprio punto di vista. Faccio un esempio attuale che riguarda il campo delle neuroscienze: sappiamo che la carenza di serotonina è implicata nel fenomeno della depressione; ora, da un punto di vista antropologico sarebbe riduttivo spiegare la depressione attraverso l’alterazione di un meccanismo fisiologico (allo stato delle conoscenze attuali, attribuito grosso modo alla carenza di serotonina, in futuro probabilmente ad altri fatti risultanti da evidenze sperimentali più accurate), stabilire cioè una linea causale monodirezionata che va dalla dimensione biologica a quella simbolico-culturale. L’antropologia sposta l’accento dalla spiegazione causale riproducibile in laboratorio, alla comprensione dell’intreccio di aspetti che rende il fenomeno particolare sotto l’aspetto qualitativo. Nelle sue componenti più interessanti e vive sotto l’aspetto metodologico, l’antropologia appare come un’ermeneutica della vita che procede in senso integrativo e olistico. Questo significa che ogni fenomeno riceve una pari attenzione, e che ad esempio gli aspetti cognitivi e simbolici dell’essere umano non sono meno importanti di quelli naturali e biologici. Si capisce che così l’antropologia è piuttosto un modo di porre problemi in un senso critico-ermeneutico, e guarda quindi con sospetto a quelle teorie che decontestualizzano ora questo, ora quell’aspetto dell’essere umano. Che l’antropologia finisca con il negare nelle sue punte più avanzate una astratta natura umana, può sembrare significativo sotto un aspetto metodologico ma alquanto limitato dal punto di vista pratico. In realtà, affermare che la questione della natura umana è una questione aperta significa riconoscere che nessun modello può valere in assoluto, tanto meno quello eurocentrico basato sulla centralità della ragione strumentale nelle sue forme tecnico-scientifiche ed economico-militari. La critica di ogni modello astratto apre la strada a un dialogo interculturale nella consapevolezza che il pensiero mitico, religioso, metaforico-poetico offre contributi rilevanti. Dal punto di vista pratico la questione della natura umana diventa allora il problema del lasciarsi andare all’altro da se stessi nelle forme del dialogo interculturale. In altri termini: la questione teoretica su “cosa l’essere umano sia” va declinata praticamente nella forma di come ci relazioniamo all’altro da noi.
[1] G. Böhme, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1985.
[2] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo (1928), tr. it. Franco Angeli, Milano 2004.
[3] Ibid, p. 39.
[4] A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), tr. it. Feltrinelli, Milano 1983.
[5] H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica (1928), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2006.
[6] Cfr. Id., Homo Absconditus, in Gesammelte Schriften, cit. Bd. VIII, p. 354.
[7] O. F. Bollnow, Studien zur Hermeneutik, 2 Bde., Band 1: Zur Philosophie der Geisteswissenschaften, Alber, Freiburg-München 1982, p. 177.
[8] Cfr. Id., Die philosophische Anthropologie und ihre methodischen Prinzipien, in Rocek/Schatz (Hrsg.), Philosophische Anthropologie heute, Beck 1972, pp. 19-36.
[9] Ibid., p. 25.
[10] Ibid., p. 28.
[11] Cfr. Id., Zwischen Philosophie und Pädagogik. Vorträge und Aufsätze, Weitz Verlag, Aachen 1988, pp. 87-88.
[12] Cfr. Id., Die philosophische Anthropologie… cit., p. 29.
[13] Id., Das Wesen der Stimmungen, Klostermann, Frankfurt am Main 1941 (3º ediz. arricchita 1956), p. 16.
[14] Cfr. Id., Die philosophische Anthropologie… cit., p. 35.
[15] Ibid., p. 36.