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Rilievi a margine del Festival Filosofia natura
Modena, Carpi, Sassuolo 16, 17, 18 settembre 2011
S&F_n. 06_2011
La “piccola città” di gucciniana memoria ha ospitato quest’anno l’undicesima edizione del Festival Filosofia: cinquantatre fra lezioni magistrali e letture di classici, installazioni, mostre, performance e concerti perimetrano il luogo pubblico della filosofia, all’ombra protettrice della Ghirlandina.
Il tema su cui si è dibattuto quest’anno è la natura: può considerarsi ancora valido il paradigma oppositivo natura vs. cultura? È definibile una natura umana? Ci indirizziamo forse verso una natura ibridata, una natura artificialia?
Questi gli interrogativi che hanno animato il festival. Se c’è un dato su cui scienza e filosofia del secolo scorso concordano è la critica a ogni concezione “essenzialistica” della natura, quell’ipotesi metafisica per cui la natura sarebbe un puro oggetto, completa esteriorità. Della natura non si può disporre come di una cosa, perché essa non è propriamente un oggetto, è piuttosto lo sfondo in cui si danno gli oggetti. L’interdetto heisenberghiano, per cui la natura si sottrae al nostro sguardo analitico, è indice di questa indisponibilità e mina l’equivalenza posta natura=oggetto. La scienza contemporanea offre dunque gli indizi per una nuova concezione della natura e una nuova oggettività garantita dalla medesima appartenenza di tutti a quello che Merleau-Ponty chiama “essere primordiale”.
In una piazza Grande stracolma e assolata, Carlo Galli, professore di Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Bologna, mostra come già nel Leviatano di Hobbes l’antinomia natura-artificio risulti posticcia e costruita ad hoc. La natura, in ottica hobbesiana, esiste perché le si dia forma; essa non è portatrice di alcun intrinseco valore normativo, dunque è pensata secondo un radicale antiaristotelismo. La questione politica per eccellenza è come organizzare questa natura, come uscirne in un orizzonte completamente materialista, senza riferimenti truffaldini al regno spirituale. Conosciamo la descrizione hobbesiana dello stato di natura: gli uomini sono guidati unicamente dal principio del piacere/dispiacere, cercano il primo e rifuggono il secondo, non v’è giustizia, non v’è verità, né ordine dell’essere, né felicità, ma soltanto la ricerca mai paga di essa. C’è libertà, ma una libertà vuota, della quale non si sa che farsene, paragonabile alla libertà che ha un grave di cadere. Nello stato di natura regna l’insicurezza, il pericolo che ciascuno possa attentare alla vita dell’altro, è quest’angoscia di morte che spinge gli individui ad abdicare la loro libertà in favore di un second best, «obbedire piuttosto che morire liberi». Dunque la natura è fatta in modo tale da esigere l’artificio, in questo caso l’alienazione della libertà che determina la nascita dello stato civile. Tuttavia, nota Galli, la tesi hobbesiana del superamento della natura con il conseguente ingresso nella civiltà non è così semplice e lineare come appare a prima vista. La natura di Hobbes è già artificio, è già un per noi, teorizzata per essere superata; in questo senso non è affatto naturale. Può essere definita come un anti-artificio. In un certo senso il rapporto natura-artificio in Hobbes è paragonabile al rapporto moderno di soggetto-oggetto. Tanto il soggetto quanto l’oggetto sono due specificazioni interne a un unico orizzonte deciso anticipatamente. Quella natura è la politica col segno “-” davanti, è l’espediente di un pensiero filosofico figlio di un’era che anela il rifacimento del mondo. La natura in età moderna non è antropomorfa, è antropomorfizzabile. È la natura divina assegnata all’uomo come campo sconfinato di esercizio e dominio, memento della sua supremazia animale. «Il mostro marino partorito dall’immaginazione narrativa di Melville, che simboleggia l’inaddomesticabilità della natura e l’impossibilità di uscire da essa – nota Galli – non è altro che il rovescio del mostro biblico Leviatano».
Meraviglie del Festival, da una piazza all’altra mutano ere ed atmosfere filosofiche, e incontriamo Mauro Carbone – professore di Estetica presso l’Università “Jean Moulin” di Lione e uno dei massimi interpreti italiani di Merleau-Ponty – argomentare intorno al problema della natura nel filosofo francese. Merleau-Ponty medita intorno al concetto di natura negli anni che vanno dal ‘56 fino alla sua improvvisa morte nel ‘61. Nell’introduzione al breve testo La nature ou le monde du silence, il filosofo indaga le ragioni di questo suo interessamento. La natura non interessa né per se stessa né come principio universale di spiegazione, ma come indice di ciò che nelle cose resiste. La natura è la chiave d’accesso concreto al problema ontologico. Nel corso del ‘56-‘57 tenuto al Collège de France leggiamo infatti: «un’ontologia che passa sotto il silenzio la Natura si chiude nell’incorporeo e, per questa stessa ragione, dà un’immagine fantastica dell’uomo, dello spirito, della storia». L’essere grezzo o selvaggio, è questo che il filosofo si propone di ritrovare. La domanda sulla natura è quindi, in un certo senso, propedeutica alla domanda sull’essere. Secondo Carbone, l’essere, «questo nodo di rapporti fra io le cose e gli altri» all’epoca in cui Merleau-Ponty opera, sta mutando, subisce quella che il francese chiamerà mutazione ontologica. L’interrogazione sulla natura non costituisce però un tema a parte, non delimita una regione del sapere filosofico, essa rinvia all’unica e imprescindibile domanda quella sul nexus, sul vinculum, “Natura”, “Uomo”, “Dio”. Certo è che la riflessione merleau-pontiana restituisce il concetto di natura come profondamente innovato: nella tradizione filosofica, da Descartes a Kant, la natura è stata interpretata come il “grande oggetto”, e tuttavia essa è un oggetto enigmatico, perché non ha la frontalità tipica della cosa, non è ciò che resta innanzi, ma «ciò che ci sostiene». È il nostro suolo, afferma Merleau-Ponty. Una tale concezione strizza l’occhio alla fisica contemporanea, attenta alla dimensione evenemenziale della natura e agli studi di biologia animale di von Uexküll. Gli studi di von Uexküll, che ebbero un eco importante anche in Heidegger (tanto da dichiarare, nei Concetti, che il confronto con le sue ricerche è una delle cose più fruttuose che oggi la filosofia possa far propria della biologia), dischiudono un’infinita varietà di mondi: non c’è un ambiente universale, viceversa ogni animale si ritaglia col suo ambiente un rapporto che sia rivelatore per lui sulla base di marche percettive che lui solo trova significative e in grado di innescare marche operative di risposta. Ragion per cui come scrive Agamben ne L’aperto: «non esiste una foresta in quanto ambiente oggettivamente determinato: esiste una foresta-per-la-guardia-forsetale, una foresta-per-il-cacciatore, una foresta-per-il-botanico, una foresta-per-il-viandante, una foresta-per-il-legnaiolo e, infine, una foresta di favola in cui si perde Cappuccetto Rosso». Carbone ricorda a tal proposito l’espressione merleau-pontiana secondo cui «il dispiegarsi di una Umwelt è una melodia che si canta da sé» e qui il riferimento musicale custodisce il segreto della relazione fra la parte e il tutto, l’individuo e il suo ambiente. Esiste una tendenza interna agli organismi che li porta a connettersi come in un’unità melodica in cui «avviene un’influenza reciproca tra la prima e l’ultima nota, e noi dobbiamo dire che la prima nota è possibile solo attraverso l’ultima e viceversa». Il tema della melodia animale abita proprio nelle sue realizzazioni particolari, nelle sue variazioni. Questo rinviarsi reciproco tra inizio e fine, che è tipico del chiasmo, configura una modalità peculiare del tempo, una temporalità pre-oggettiva o retroflessa, e l’oggettività, di cui sembriamo orfani in epoca contemporanea, è garantita dall’appartenenza di tutti i soggetti a uno stesso «nucleo d’essere ancora amorfo». Solo così la natura comunica con la coscienza incarnata e questa stessa coscienza assume come proprio compito storico-filosofico il domandare di quell’essere preliminare di cui la natura è segno e significato.
Nel nuovo millennio la riflessione filosofica sulla natura non può prescindere dall’apporto delle scienze “positive” in particolare dalla biologia in quanto studio di e sul vivente. A Carpi, a mezz’ora d’autobus da Modena, ascoltiamo la lectio magistralis di Edoardo Boncinelli, genetista e professore di Biologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, i cui studi sul cervello e la corteccia cerebrale hanno posto in evidenza il significato culturale delle neuroscienze. Nella lezione, articolata intorno al concetto di genoma, Boncinelli fornisce subito una definizione luminosa: l’insieme delle istruzioni biologiche che portiamo nelle nostre cellule, nel nucleo specificatamente, il cui supporto chimico è la struttura macromolecolare, ovvero il DNA. Il genoma custodisce altresì la nostra storia, «è – afferma Boncinelli – il riassunto delle puntate precedenti». Ma biologia e genetica non s’identificano sic et simpliciter, i geni – «come capitoli di senso compiuto di questo testo che è il genoma» – ci caratterizzano senza determinarci. «Il genoma non è un tiranno», sottolinea Boncinelli, se l’identità genetica è riconoscibile sin dalla fecondazione l’identità personale è l’esito di un processo ibridativo, mai compiuto ex ante, che produce creativamente quello che siamo. L’esperienza di vita non è inserita nei geni, per cui la ripetizione biologica non implica ripetizione biografica; ciò ha degli interessanti risvolti bioetici, ad esempio la pratica della clonazione, che secondo alcuni lederebbe il diritto all’ignoranza dacché questa rende possibile la conoscenza dell’identità genetica, non priverebbe più l’individuo clonato di un’aspettativa di vita libera e originale, com’è giusto che sia. Insomma perfino la conoscenza del destino biologico non priverebbe il destino umano di assumere curvature impreviste.
La meditazione intorno al concetto di natura ci ha condotti lontano, quel che ne possiamo trarre è che tale concetto accoglie nuove e complesse sfaccettature: la necessità del superamento del paradigma oppositivo natura/cultura e di un ripensamento dei canoni che definiscono l’artificiale e il naturale, nonché l’apertura alle ricerche provenienti dall’ambito biologico che ci forniranno i mezzi adeguati per non destarci impreparati di fronte al turbinio di scoperte che sollevano nuovi e preganti interrogativi.
La natura è ciò che siamo e che non ci appartiene, è il disavanzo tra noi e ciò che è in nostro possesso: investigarne razionalmente le profondità aurorali è il compito della filosofia futura.