Autore
Pasquale Napolitano
Università degli Studi di Salerno
Studioso di design e comunicazione visiva, è docente di Applicazioni Audio-Video presso il Conservatorio di Musica Giuseppe Martucci di Salerno, docente di Video digitale presso l’Istituto Superiore di Design di Napoli per il Corso di Grafica Multimediale, e docente di Immagine Coordinata presso lo stesso istituto per il Corso Triennale di Moda. Svolge infine attività di ricerca presso l’Università degli Studi di Salerno dove è curatore dei Laboratori Didattici di Comunicazione Visiva
Indice
- Fascino del corpo devitalizzato
- L’età della non innocenza
- «Mangio Vogue»
- Un organismo monco
S&F_n. 05_2011
Il sogno più antico e più efferato del mondo in cui viviamo è quello di rendere cosa il fantasma. Nel cinema e nella televisione i fantasmi diventano cosa, al tempo stesso una cosa quasi indefinibile.
Questa quasi-inesistenza e super-esistenza del corpo dei fantasmi è il sigillo della loro perfezione e del loro potere
(A. Grasso)
- Fascino del corpo devitalizzato
Che cosa sono le scarpe Manolo Blahnik di Carrie Bradshaw in Sex and the City? Oggetti e fantasmi, accessori e feticci. Creato da Darren Star, Sex and the City è diventato un serial di culto. Ambientato a Manhattan, il telefilm racconta le vicende sentimentali di quattro donne: Carrie, Miranda, Samantha e Charlotte. Amiche differenti tra loro, ma con tre caratteristiche in comune: essere single, essere trentenni e appartenere alla ricca borghesia newyorkese.
Carrie Bradshaw, protagonista principale e voce narrante del telefilm, è scrittrice del «New York Observer» (tabloid molto popolare ma considerato frivolo dall’intellighenzia) per la rubrica che dà il nome alla serie Sex and the City, appunto, in cui affronta diverse tematiche incentrate sulle relazioni amorose e sul sesso, prendendo spunto da ciò che accade a lei e alle sue migliori amiche. Carrie è nota soprattutto per la sua passione per il mondo della moda, e in particolare per le scarpe[1]: ne ha circa cento paia. Il suo modo di vestire esprime la sua spasmodica ricerca dell’abito più idoneo – capace, forse, di sopperire a un’identità mancante – spesso con uno stile che spazia dall’originalità irriverente (che rasenta il ridicolo e il kitsch) all’estrema raffinatezza[2].
«Tutto ciò che proviene dai sogni feticisti approda sulle passerelle della moda»[3], dice Vivienne Westwood, e allora le quattro amiche, donne agguerrite e padrone di sé, si vestono come munifiche dominatrici, come moderne dame di Boldini, adornate da un diluvio di veli, di cappelli, di piume, di scarpe, di gioielli; costumi audaci e arditi che quasi proiettano verso un potere disciplinare della donna sull’uomo.
«Ma se il piacere del vestirsi risiedesse nella costrizione?». Questa è la domanda posta da Valerie Steele considerando la sofferenza e la crudeltà che certi costumi e certe mode impongono al corpo, come la tradizione cinese della fasciatura dei piedi femminili, presto simbolo erotico e sociale, che li costringeva a non crescere oltre una certa lunghezza per causare un’andatura oscillante; effetto analogo sortito dalle occidentali scarpe con i tacchi a spillo.
Questa corrispondenza tra il corpo e il potere, tra costrizione e libertà, insita nel vestire, è celebrata ed esaltata dalla legge della moda feticista, un “système de la Mode” entro cui si creano gerarchie e ruoli sociali, forme stereotipate del maschile e del femminile; un sistema complesso di tensioni, basato sul fascino del corpo inorganico e devitalizzato. Mentre la sessualità è pratica organica e vitale, il feticismo, invece, da un lato trasforma l’oggetto, la veste, il materiale di cui esso è fatto in una cosa viva, dall’altro rende il corpo umano una cosa, in un duplice movimento, già citato da Marx ne Il Capitale.
È a partire dal movimento in cui si presenta come merce, cioè dotata di valore di scambio, che essa diventa «una cosa sensibilmente soprasensibile»[4]. Marx apre la strada al sex appeal dell’inorganico, ripreso poi da Freud, il quale spiega il feticismo ricorrendo alla teoria dello sviluppo psicosessuale.
Il feticismo presta alla donna un fallo impersonale, caratterizzato da un’arbitrarietà universale e da una esteriorità autonoma: una scarpa o una stoffa o un guanto sta al posto di ciò che manca[5]. Anche lo scrittore giapponese Tanizaki Junichiro, nel racconto Shisei, o Irezumi (Il Tatuaggio) e nel romanzo Kagi (La chiave), presenta il piede come simbolico erotico. I piedi, addirittura, hanno un’anima; divengono strumento metonimico del sesso femminile e funzione stimolante della vita sessuale dei personaggi. Ma in Fuuten roujin nikki (Il diario di un vecchio pazzo, del 1962), il feticismo nipponico per i piedi giunge all’estremo: il protagonista Tokusuke fa incidere sulla sua tomba l’impronta dei piedi dell’amata.
Come nella lettura lacaniana del Marchese de Sade, il godimento non coincide affatto né con l’utile, né con il bene del soggetto. Piuttosto la perversione etica di Sade sta nell’aver mostrato la tendenza del soggetto a ricercare il proprio male. Il male è in effetti per Lacan l’essenza del godimento. La Cosa manifesta il Reale del godimento come ciò che travalica il criterio utilitaristico-edonistico del piacere. Questa esigenza di godimento si esprime nella pulsione, che indica la spinta al soddisfacimento di una positività che annulla la divisione del soggetto, una spinta al godimento che non tiene conto dell’Altro. Perché se il desiderio può soddisfarsi nel desiderio dell’Altro, la pulsione si soddisfa solo dell’oggetto, del godimento dell’oggetto. È, a questo punto, l’etica stessa a essere ribaltata: un’etica che, nel perseguire il godimento puro, non tiene più conto dell’Altro ma richiede il soddisfacimento delle pulsioni attraverso la sublimazione di quel godimento localizzato che, in Sade, è rappresentato dal godimento sessuale che il soggetto ricava dal trarre dolore e umiliazione nelle sue vittime. È in ciò che consiste definitivamente la perversione sadiana: il racconto delle pulsioni sessuali è una costruzione immaginaria che permette ancora di rappresentare il riemergere del Reale nell’ordine Simbolico, attraverso uno stile discorsivo e una filosofia morale che consentono di elevare, di sublimare il proprio oggetto alla dignità della Cosa[6].
In realtà, la rappresentazione del Reale, anche quando mostra la Cosa non più filtrata attraverso la dimensione del Simbolico, rimane sempre costitutivamente su di un piano Immaginario. Ciò che viene mostrato non è il Reale in quanto tale, perché per natura irrappresentabile, ma una sua immagine, la cui forma viene pervertita in quanto destrutturata. Essa può comparire, secondo Slavoj Zizek, solo nelle sembianze di fantasma, di spettro traumatico della Cosa. Il Sublime è la dimensione che caratterizza l’incontro del soggetto con questo fantasma, in quanto percezione estatica dell’indeterminato, dell’invertito che turba il soggetto stesso, ma che allo stesso tempo eleva entrambi, soggetto e oggetto della rappresentazione, al puro godimento, al di là del principio di piacere[7].
- L’età della non innocenza
Percorrendo la vicenda delle scarpe, e ricordando per antinomia L’albero degli zoccoli di Olmi, con i suoi contadini scalzi per povertà, si arriva ai tacchi a spillo degli anni Cinquanta, anni post-vittoriani del feticismo, per poi giungere nuovamente alla nostra tele-fashion, a Carrie Bradshow che afferma: «Ho speso quarantamila dollari di scarpe e non ho una casa dove stare. Finirò per essere la vecchia signora che abitava nella sue scarpe». L’annullamento del mondo sensibile, la scomparsa della soggettività, portano la dipendenza nei confronti dell’oggetto-sostituto. Né Carrie, né le sue amiche riescono a padroneggiare questo diluvio di fogge, con le loro provocazioni, senza esserne sommerse. Non solo. La frase enunciata già nella prima puntata del telefilm: «Gli anni Novanta hanno annunciato la fine dell’amore a Manhattan. Siamo entrati nell’era della non-innocenza», è emblema dell’estrema rivincita – o meglio, dell’assoluta resa –femminile: trasfigurare il sentimento in tecnica, con le consecutive strategie su come affinarla e attuarla.
Dunque, le quattro amiche newyorkesi entrano e escono incessantemente dal sex-appeal dell’inorganico, dalla «sessualità neutra della cosa senziente»[8]: non riescono a dare coerenza al proprio amante, risalendo malvolentieri un corpo imposto, quasi non scelto. Il loro obiettivo è la serialità, la collezione di corpi senza organi. Chiarificatore è, ancora una volta, un oggetto: il celebre vibratore a forma di coniglietto reso famoso da Samantha Jones, la più spregiudicata e ambiziosa delle quattro amiche, sostenitrice dell’indipendenza e dell’autonomia femminile. Tuttavia, tale oggetto non è un detournement semantico, ma la cassa di risonanza di effetti mediatici, che ripete sdoppiamenti e valori propri di una società ancora patriarcale. Esso rappresenta un rovesciamento delle convinzioni della donna, trasmettendo l’idea di un sesso fallocentrico, dove tutto ruota attorno alla penetrazione maschile come supremo mezzo di piacere; concezione ben lontana dalla quella creatura post-umana che Donna Haraway definisce «cyberfeminism», metafora centrale di una nuova coscienza del soggetto contemporaneo[9].
Prima serie, nona puntata: Il coniglio, l’oggetto sessuale, è sostitutivo dell’uomo inteso come organo e non come organismo[10]. A differenza di quelli erotico-sessuali, quali ornamenti e mise, sandali e babbucce, falli metonimici e usuali, che indicano una perversione contigua all’organico, il feticcio di Samantha rimanda a qualcosa d’incompiuto e inesistente. L’identità eccedente ed esasperata delle donne, legate a un cliché ben definito, la trasgressione, vissuta come strappo e separazione, il proibito messo in campo come oggetto eroicizzato, in questo contesto mediatico, divengono favole e rappresentazioni archeologiche, dove il feticismo si fa logoro stereotipo privato del suo feticcio specifico, appare vuoto e rimanda a un corpo, se non cavo, poroso. Ed è per tutta questa serie di ragioni che l’oggetto in Sex and the City riveste un ruolo assolutamente centrale. Sono le stesse protagoniste a farsi interpreti della zona grigia e mutevole tra organico e inorganico, proiettando così un valore feticista, o addirittura animista, all’oggetto, fornendovi una funzione relazionale e discorsiva. Quasi sempre, infatti, gli oggetti svolgono un ruolo da attanti all’interno delle relazioni sociali, da quelle lavorative fino a quelle più intime: l’oggetto-feticcio, deus ex-machina all’interno della serie, è lo strumento con il quale si acclarano le distanze di sesso, di genere, di appartenenza e di nazionalità, i rapporti di coppia, e più in generale si dichiara un particolare ambito di gusto, che è contemporaneamente di appartenenza identitaria e sociale.
La proliferazione di oggetti feticcio, oggetti costruiti dall’uomo ma allo stesso tempo degni di idolatrica adorazione, non rappresenta certo un elemento novità. La novità sta invece nella dimensione di “iper-merce” assunta dal feticcio, tale da renderlo dotato di trascendenza, oggetto di un culto metonimico[11]. In quest’ordine comunicativo e rappresentativo, le forme sensibili sono il luogo d’incontro, di rievocazione, di catalizzazione di immagini che conferiscono senso, di narrazioni che nel prodotto si condensano.
Dalla descrizione di questa tipologia di artefatti di vocazione, per così dire, connettiva, possiamo prendere in considerazione il portato interazionale della merce, la capacità di agglomerare diverse istanze sotto il proprio alveo, in modo da rappresentare le merci come universi simbolici, nodi di una rete di relazioni.
- «Mangio Vogue»
Nella seconda puntata della quarta serie Carrie ha l’opportunità di posare per Vogue, rivista di culto che per lei ha sempre rappresentato il punto di riferimento dello stile e dell’eleganza, portatrice di un mondo di simboli oggettuali cui ambire. È lei stessa a confessare «mangio Vogue», nella doppia accezione di aver fatto in passato sacrifici economici per potersi permettere l’acquisto del magazine e, d’altra parte, di irradiarsi di quest’ultimo in un completamento sinestetico che coinvolge tutti i canali sensoriali. Nella stessa puntata è centrale la presenza di Heidi Klum, presentata come una sorta di donna oggetto (sarebbe meglio dire “donna oggettivizzata”, giacché rappresenta un archetipo femminile spettacolare contemporaneo): algida, irraggiungibile, inorganica, contraltare della protagonista, donna reale che ambisce, o semplicemente sogna, la condizione inorganica dell’essere modella. Di fatto anche la modella newyorchese, in quanto oggetto, vidima la risoluzione di una situazione, “dando il cinque” a Carrie dopo che quest’ultima è riuscita a rialzarsi da una rovinosa caduta in passerella, riuscendo a fare di una défaillance un grosso attrattore emotivo.
Nella stessa serie, alla quinta puntata, è Charlotte a materializzare una situazione dialettica attraverso una oggettivazione nell’elemento di arredo più connotato all’interno della serie: il letto. Il letto, infatti, vincola il rapporto generazionale tra Charlotte e la madre del suo uomo (Trey Mac Dougal, delineato come figura flebile, vittima dell’ascendente materno); esso ha un connotato freudiano, stabilisce letteralmente l’ordine della relazione e del rapporto madre-figlio. Il letto, luogo in cui si genera la vita, e in cui si misurano quotidianamente i rapporti in campo alla coppia, determina la concezione della vita. L’alterco tra le due figure femminili della moglie e della madre (accompagnato sempre da discussioni sull’arredo inerenti la poltrona preferita o un’anatra di legno kitch) si risolverà a vantaggio della prima solamente quando si innesterà nel «sistema degli oggetti»[12] dell’arredo domestico il letto di stile moderno.
Tornando a Carrie, non è un caso che la figura di Hayden, uomo virile e di bella presenza, privo di malizia e armato dei migliori sentimenti, sia un designer di mobili in legno, l’homo faber in grado di imprimere sulla materie inerte una forma, un’impronta significante. Entrando nella propria casa vuota dopo un litigio, e osservando l’arredo di mogano e gelso, Carrie sospirerà «Hayden era ovunque». Anche il rapporto tra Carrie e Hayden si gioca tutto sul rapporto tra i protagonisti e determinati oggetti significanti. Sempre nella quarta serie, nell’ottava puntata, il computer è la chiave della dimensione privata. È un oggetto emozionale, per l’utilizzo del quale, proprio come nei rapporti sentimentali, «non serve il manuale» a vantaggio di tatto e sensazione. È un oggetto femminile, uterino, e l’uomo, con la sua logica macchinica non deve intromettervisi. È nell’«Io non salvo» di Carrie che si forma e consapevolmente si rivela il processo di dis/identificazione femminile. Il computer in se è un “Apple”, perciò già di per sé fortemente connotato e riconoscibile, un oggetto di culto teso a delineare un determinato «utente modello»[13]. Ebbene, questo oggetto viene umanizzato, come custode e testimone della vita della proprietaria, e per questo il nuovo computer, regalatogli da Hayden, non potrà rimpiazzare la perdita del “defunto”.
Anche Samantha non è avulsa a questa temperie oggettuale. Tutto il rapporto tra lei e il ricco albergatore Richard Wright è mediato dal lusso e dagli oggetti, in particolar modo dai regali quotidiani che lui le faceva trovare regolarmente sul letto accompagnati da motti come “stile allo stile”. Nonostante la patina carnascialesca sempre presente nelle liason della protagonista, quando Samantha scopre che c’è una persona terza a fare da interfaccia tra i due, la quale sceglie i regali a nome del partner, emerge il sottotraccia mercenario del rapporto. Emblema di questo rapporto è il perizoma di perle (quinta serie, terza puntata), che nella migliore tradizione del kitch, costringe (cosizza) un elemento organico e per lo più prezioso (in questo caso le perle) a una “bassa” funzione materiale, in un crossing-over tra materia e funzione tipico degli oggetti kitch. Oggetto inorganico e ibridato, è la metafora volontaria del cuore, condensatore di relazioni e rapporti di forza all’interno della coppia. A indossarlo è la donna, vittima sacrificale di un sistema di valori, borghesi ma paradossalmente libertini, che estetizza la sessualità inorganica attraverso la distorsione, la depravazione, la forzatura dell’organo sessuale femminile, e dalla conseguente ostensione di questo in una dimensione rituale, come nella celeberrima novella Histoire d’O di Dominique Aury o, in chiave cyber-punk, nell’inquietante pellicola A snake of June di Shinya Tsukamoto, tutti prodotti di matrice “sadica” in cui non si arriva al godimento attraverso il soddisfacimento di bisogni “patologici”, bensì attraverso un godimento localizzato che offre al soggetto la possibilità di compensare la perdita di godimento reale e, al contempo, di sostenere la fantasia di un pieno accesso ad esso. Tra questi sicuramente vanno ricordati Pier Paolo Pasolini, con Salò o le 120 giornate di Sodoma, e Jesus Franco, autori che hanno saputo rendere visibile le articolazioni di un pensiero difficilmente assimilabile, portando all’estremo le possibilità del linguaggio cinematografico stesso.
- Un organismo monco
In tutti questi esempi, l’atteggiamento femminile compiacente è frutto di una esplicita consapevolezza di una propria condizione di subalternità rispetto ai desideri e agli ordini del maschio, invece nell’atteggiamento di Samantha, e nell’analogo gesto ostensivo, è come se questa imposizione si ri-configurasse in maniera ancor più oppressiva come piacere e volontà, rassicurata dalla breve durata nel tempo di ogni sua scelta sentimentale; è come se la disinibita protagonista avesse interiorizzato la gerarchia in maniera talmente profonda da essere un compiacente ma inconsapevole strumento di quest’ultima. Qualcosa di simile accade all’avvocato in carriera Miranda Hobbes nella terza puntata della terza serie, in cui è protagonista con il “cassetto delle delizie”, contenitore di oggettistica sessuale funzionale al fiero auto-erotismo di quest’ultima. Il gesto auto-erotico è questa volta in risposta alla sfilza di matrimoni di inizio puntata, anche se in realtà l’episodio prende in esame il giudizio pubblico che la donna deve affrontare riguardo alla propria dimensione privata, a esempio lo stigma dell’anziana governante che sostituisce al vibratore una Madonna di Lourdes a insaputa di Miranda, sostenendo che con una tale condotta comportamentale non avrebbe mai trovato marito, rimanendo pertanto un organismo monco. Nel rapporto pubblico-privato il corpo della donna è sempre un «luogo pubblico», con le parole di Barbara Duden, e questo nella serie è materializzato dall’oggetto sessuale, capace di collegare dimensione pubblica e privata, penetrando sempre la seconda nella prima.
L’oggetto assume sovente anche uno spiccato valore memoriale. Sempre nella quarta, serie, diciassettesima puntata, il sonaglio di Tiffany, oggetto trendy, è allo stesso vettore di memoria, come la Madeleine di Proust, vettore verso il continente mitico della giovinezza, momento gioioso in quanto irripetibile. Senza questo semplice oggetto per Carrie non può esserci lusso: non è eticamente corretto per lei darsi al lusso parigino senza la presenza dell’oggetto identitario forte, che possa in qualche misura legittimare il passaggio sulla pelle di altri oggetti, effimeri perché legati al momento compulsivo del “plaisir” dell’acquisto .
In Sex And the City il design è molto più importante dell’arte. L’arte è quella delle gallerie, un prodotto esclusivo e spesso incomprensibile, che al massimo ha di affascinante un’aura commerciale, mai comunque presa realmente in considerazione all’interno della serie. Non è un caso che le opere del celebratissimo e sofisticatissimo artista Alexander Petrovsky non siano mai rese visibili, oltre a essere etichettate durante la serie con diversi arzigogoli verbali a dir poco stravaganti. L’arte in Sex and the City è grossomodo arredo di lusso. È invece l’oggetto (per esempio la scarpa) ad avere un appeal organico e sensuale: l’oggetto è sempre ben in vista, scomposto e decomposto, sempre in posa. Nella ventesima puntata della sesta serie, all’apice dell’epopea parigina vi è un dialogo illuminante in proposito tra Carrie e l’ex moglie di Petrovsky, in un ristorante parigino, a riguardo del quale scatta un giudizio definitivo non a proposito del cibo, bensì della sedia (una Stark per Kartell modificata per l’occasione): «Il ristorante è orribile perché le sedie sono orribili». Questo scambio, se per un verso è costruito come battuta folcloristica tesa a denotare un gusto e un’attenzione allo lo stile molto più sviluppato, fino al parossismo, negli europei rispetto agli americani, pragmatici e naif anche quando si parla di gusto, d’altra parte connota anche un rapporto “di stile” con l’elemento organico per eccellenza: il cibo. Anch’esso, infatti, come le terga di Samantha afflitte dal collier di perle, è elemento sempre soggetto a feticizzazione spasmodica, non solo per quanto riguarda l’attenzione verso un cibo preparato bene e con eleganza (è spesso presente anche il junk food), ma soprattutto per il fatto di renderlo elemento significante e talvolta decisivo di frame relazionali. Sempre nella stessa puntata parigina, il mitico panino “Big Mac” è proposto come antidoto all’algido romanticismo formale dell’artista russo (importante l’analogia fantasmatica tra la luna fluorescente e il logo McDonald) e ritorna nelle precedenti serie come simbolo dell’americanità, quando sarà Big a doversi trasferire a Parigi (seconda serie dodicesima puntata), in cui il “Big Mac”, acquistato da Carrie come simbolo della sua “americana” vicinanza anche di fronte alla lontana Parigi, va in pezzi sul muro in seguito a uno scatto d’ira, a rappresentare una frattura insanabile all’interno del rapporto. Così come, ancora nella stessa puntata, assume un ruolo peculiare il bonbon come suppletivo dell’affetto, non tanto per il sapore, quanto per la “materia”, per la grana cromatica e la forma.
Come chiosa, e contemporaneamente a dimostrazione della tesi, sarà sufficiente evocare un’ultima scena: quinta puntata della prima serie, ventunesimo minuto, il passaggio di assorbente interno tra Carrie e la responsabile di sala del “Balzàc”, locale di tendenza in cui trovare un tavolo sembra essere questione particolarmente intricata. Questo gesto di soccorso femminile, rappresentato dallo scambio di un oggetto para-organico così legato all’intimità, sancirà una fratellanza al femminile altrimenti inipotizzabile.
[1] Nella dodicesima puntata della seconda serie, il feticcio delle scarpe è mostrato in tutta la sua chiarezza, direi perfino clinica, con Charlot che porta inconsapevolmente all’orgasmo un commesso di un negozio di scarpe, anch’egli feticista, ma in maniera esplicita.
[2] Le esigenze sociali, i cambiamenti del mercato del lavoro, uniti all’influsso del continuo esercizio multi-mediale che miscela sogni, segni, simboli, sistemi culturali, canoni estetici, generano una frantumazione dei modelli interoggettivi di consumo, determinando nel consumatore lo sviluppo di una reazione estetica per lo più irrazionale, la formazione di una corazza sensoriale, una “pelle culturale” che procuri una presa di distanza da un reale sostanzialmente inintelligibile e perciò immutabile. Cfr. P. Napolitano, Merci, Ipermerci, Media, in G. Tozzi (a cura di), Oggetti e Processi del design, Plectica, Salerno 2005.
[3] V. Westwood, cit. in V. Steele, Fashion and Eroticism, Oxford University Press, New York 1985, p. 55.
[4] K. Marx, Il Capitale, I, tr. it. Editori Riuniti, Roma 1997, p. 103.
[5] Cfr. M. Perniola, Il sex-appeal dell’inorganico, Torino, Einaudi 1994.
[6] J. Lacan, Kant con Sade, in Scritti, tr. it. Einaudi, Torino 1974.
[7] Cfr. ibid.
[8] Cfr. M. Perniola, op. cit.
[9] Il cyborg, prodotto del post-umano, non legato a una riproduzione biologico-sessuale, figura il superamento del genere e la critica del pensiero binario. Il corpo è frattalità ontologica nel suo essere polifonico. Cfr. D. J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, tr. it. Feltrinelli, Milano 1995.
[10] Un passaggio in tal senso si delinea in modo più estremo ed evidente nelle concorrenti serie Cashmere Mafia e Lipstick jungle; in effetti, se in Sex and the City Carrie è ancora alla ricerca dell’amore totalizzante e coinvolgente, rappresentato da Mr. Big, nei due telefilms americani, le donne esauriscono in loro stesse tale ricerca: esse “già sono Mr. Big” (dal teaser dello spot tv di Lipstic Jungle).
[11] Cfr. F. Carmagnola, M. Ferraresi, Merci di Culto, Ipermerce e Società Mediale, Castelvecchi, Roma 1999.
[12] J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, tr. it. Bompiani, Milano 2003.
[13] Cfr. E. Landowski, G. Marrone, La società degli oggetti. Problemi di interoggettività, Meltemi, Roma 2002.