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Primo Levi e le due culture

Autore


Pierpaolo Lauria

insegna Materie Letterarie nella provincia di Potenza

Indice


  1. L’altrui mestiere è anche il mio
  2. Politica o cultura, a chi la responsabilità della rottura?
  3. A conti fatti

 

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S&F_n. 05_2011


  1. L’altrui mestiere è anche il mio

Ci sono scrittori nati, predestinati, in fasce cullati dalle Muse, e ci sono poi quelli che la vita ha fatto scrittori, senza alcun presentimento, senza alcun preavviso.

Primo Levi appartiene, senza ombra di dubbio, a questo secondo caso di fortuna: fu chiamato, alla tragica ora, a testimoniare con la parola scritta la Shoah, buco indicibile, macchia della storia dell’umanità.

Era un chimico quando passò, scortato da “uomini comuni” in camicia bruna, il cancello beffardo di Auschwitz, che accoglieva sventurati passanti con l’ultimo estremo inganno: Arbeit macht frei[1].

Era l’inferno sulla terra, il cancello la sua porta e Levi uno dei dannati senza colpa: cavia in gabbia di un idea bestiale, la razza ariana.

Quando altri uomini, non meno comuni dei primi, con una stella sul berretto lo trassero ancora vivo da quel laboratorio di morte, lui fu tra i salvati di milioni di sommersi senza più nomi e senza più verbi da poter dire, muti granelli di cenere sparsi e naufraghi nel vento gelido dell’Est.

Fu allora che il chimico fece posto allo scrittore per restituire la voce a chi era stato costretto al silenzio, per dare corpo a quella misera polvere color miniera, per smascherare la scritta bugiarda del cancello degli orrori, per ricomporre le parole straziate dalle grida taglienti di superstiti con gli occhi allucinati e stropicciati dall’umiliazione e dall’impotenza, e infine per raccontare, ai candidi e agli ingenui, la crudezza del lato scuro e assurdo del reale, cui si stenta a credere tanto è amaro.

Il chimico analizzava al microscopio gli elementi base e l’ingranaggio della macchina annientatrice del sistema concentrazionario, superefficiente, superottimizzata, porgendo allo scrittore la materia prima per la suo prosa, che faticava non poco a trovare le mescole di pensieri e parole per parlare di quell’orrore: l’immane sforzo restituiva però alla sua vita una ragione, curando l’insondabile e ineffabile dolore che molti travolse.

Si instaurava così una inscindibile e fondamentale collaborazione tra i due:

quando un lettore si stupisce che io chimico abbia scelto la via dello scrivere, mi sento autorizzato a rispondergli che scrivo proprio perché sono un chimico: il mio vecchio mestiere si è largamente trasfuso nel nuovo[2].

 

Ossigenante trasfusione nel doppio senso però, poiché Levi si era

divertito a guardare il mondo sotto luci inconsuete, invertendo per così dire la strumentazione: a rivisitare le cose della tecnica con l’occhio del letterato, e le lettere con l’occhio del tecnico[3].

 

Riguardo alla letteratura, sostiene Levi, la scienza e la tecnica offrono innumerevoli servigi: sono, per prima cosa, una grossa vena di storie da narrare,

ora le cose che ho viste, sperimentato e fatte nella mia precedente incarnazione sono oggi, per me scrittore, una fonte preziosa di materie prime, di fatti da raccontare;

 

rinforzano, poi, l’ago del desiderio di penetrare a fondo la materia, che con esercizio e a lungo andare cuce un abito mentale. Forniscono anche proprietà utili all’esercizio letterario,

la chimica è l’arte di separare, pesare e distinguere: sono tre esercizi utili anche a chi si accinge a descrivere fatti o a dare corpo alla propria fantasia;

 

costituiscono, in ultimo, ma non per ultimo una miniera inesauribile di metafore,

il chimico militante si trova in possesso di una insospettabile ricchezza: “nero come…”; “amaro come…”; vischioso, tenace, greve, fetido, fluido, volatile, inerte, infiammabile[4].

 

Con sincerità Levi confessa di sentirsi molto avvantaggiato e non poco imbarazzato nei confronti di altri scrittori per la possibilità di attingere a piene mani a questo patrimonio di tecniche e di parole:

Io ex chimico, ormai atrofico e sprovveduto se dovessi rientrare in un laboratorio, provo quasi vergogna quando nel mio scrivere traggo profitto di questo repertorio[5].

 

Quindi auspica che gli scrittori di ogni genere aprano il loro sguardo sul mondo fuori dai libri, piuttosto che avere occhi soltanto per il mondo dei libri, che gli uomini di lettere escano fuori dal loro solito sentiero per incontrare gli uomini degli altri mestieri:

Sarebbe una buona cosa che lo scrittore non vivesse non dico in una torre d’avorio, ma in una condotta, in una tubazione che parte da Dante e arriva all’infinito. Ed egli si muove in questa tubazione senza mai vedere il mondo intorno a sé. Se viviamo in un mondo impregnato di tecnologia e scienza, è sconsigliabile ignorarlo, anche perché la Scienza, con la S maiuscola, e la Tecnologia, con la T maiuscola, sono delle formidabili fonti d’ispirazione[6].

 

Rispetto alla scienza e alla tecnologia, la fantasia e l’immaginazione, elementi basici della letteratura, svolgono un ruolo costitutivo e attivo.

In un passo de Il sistema periodico, in cui il chimico-letterato sinteticamente tratteggia l’evoluzione storica della sua disciplina, dai pionieri solitari e dilettanti degli inizi alla odierna Big science di gruppo, riconosce nella fantasia un mattone originario e primordiale nella costruzione della chimica:

in questo libro avrei deliberatamente trascurato la grande chimica, la chimica trionfante degli impianti colossali e dei fatturati vertiginosi, perché questa è opera collettiva e quindi anonima. A me interessavano di più le storie della chimica solitaria, inerme e appiedata, a misura d’uomo, che con poche eccezioni è stata la mia: ma è stata anche la chimica dei fondatori, che non lavoravano in équipe ma soli, in mezzo all’indifferenza del loro tempo, per lo più senza guadagno, e affrontavano la materia senza aiuti, col cervello e con le mani, con la ragione e con la fantasia[7].

 

In alcuni casi, quest’ultima, è dote determinante e risorsa decisiva per andare avanti, rimettendo in corsa una scienza stagnante e sclerotizzata, praticamente improduttiva nei nuovi ambiti di applicazione che aggredisce, o in cui si imbatte e vi si trova in qualche modo invischiata, incapace quindi, di trovare soluzioni soddisfacenti alle situazioni inedite, alle anomalie e alle aporie che via via insorgono:

La storia della tecnologia dimostra, come davanti ai problemi nuovi, la cultura scientifica e la precisione sono necessarie ma insufficienti. Occorrono ancora due altre virtù, che sono l’esperienza e la fantasia inventiva, ma nel mestiere dello sfruttamento del gas naturale, che è molto recente, l’esperienza non si dilata attraverso i secoli e i millenni […] All’esperienza sono necessarie le prove e gli errori, ma qui non c’è tempo di sbagliare e di correggersi, e deve prevalere la fantasia, che opera per salti, nei tempi brevi, attraverso mutazioni radicali e rapide[8].

 

Sembra di sentire Kuhn quando distingue tra periodi di “scienza normale” e periodi di “rivoluzioni scientifiche”, in cui i paradigmi portanti, i pilastri e le architravi della scienza consolidata vengono scosse e rivoltate dalle fondamenta in un istante terribile, splendido ed epocale, attraverso nuovi assi d’ipotesi e teorie, contrariamente alla Parola di Newton, a dispetto della sua Autorità, della sua Legge Universale, e della sua inossidabile Fiducia in una natura stabile che non fa salti[9].

Non bastava la trasgressione dai precetti newtoniani che Levi, senza temere anatemi e maledizioni di abati e cardinali dello “scientismo universale”, esorcizza, forte anche della lezione di Heisenberg e Godel, il demone di Laplace:

È già difficile per il chimico anti vedere, all’infuori dell’esperienza, l’interazione fra due molecole semplici; del tutto impossibile predire cosa avverrà all’incontro di due molecole moderatamente complesse. Che predire sull’incontro di due esseri umani? O delle reazioni di un individuo davanti a una situazione nuova? Nulla: nulla di sicuro, nulla di probabile, nulla di onesto […] Si fa presto a dire che dalle stesse cause devono venir fuori gli stessi effetti: questa è un’ invenzione di tutti quelli che le cose non le fanno ma le fanno fare[10].

 

Di fronte a questo stato di cose, alla complessità fuori asse cartesiano della realtà

non arriverò mai a comprendere tutto l’universo. Se l’universo è infinito potrò comprenderne porzioni sempre più grandi, ma sempre nulle se confrontate al tutto. L’uomo è potente nel senso che riesce a spingere il confine sempre più in là, ma non giungerà mai a una teoria unificata finale[11],

 

con buona pace di tutti i neopositivisti, di ieri e di oggi, che tanto l’hanno sognata e inseguita come la stella cometa.

Come non c’è una “teoria unificata del tutto”, troppo essenziale per non evaporare, così non c’è mestiere che sbocci da sé, senza aver raccolto in giro i pollini di altri fiori dei saperi; pure nel deserto, dice Leopardi, si incrocia un fiore che rompe il silenzio e riempie un po’ quel vuoto triste e immenso del buono del suo profumo.

Non c’è pianta che cresca senza acqua, aria, sole e letame: la vita biologica, dell’arte e della scienza è questo coro di elementi, tessere che compongono mosaici sfavillanti e variegati, combinandosi e scambiandosi nei più sgargianti giochi di forme e di colori.

Allora si capisce bene che l’altrui mestiere è anche il mio come ci ha testimoniato e insegnato il vagabondo ficcanaso Primo Levi:

Sovente ho messo piede sui ponti che uniscono (o dovrebbero unire) la cultura scientifica con quella letteraria scavalcando un crepaccio che mi è sempre sembrato assurdo. C’è chi si torce le mani e lo definisce un abisso, ma non fa nulla per colmarlo; c’è anche chi si adopera per allargarlo, quasi che lo scienziato e il letterato appartenessero a due sottospecie umane diverse, reciprocamente alloglotte, destinate ad ignorarsi e non interfeconde. È una schisi innaturale, non necessaria, nociva frutto di lontani tabù e della controriforma, quando non risalga addirittura a una interpretazione meschina del divieto biblico di mangiare un certo frutto[12].

 

Un altro scrittore che, come lui, tentò di colmare questo artificioso crepaccio, ravvisando i punti d’ancoraggio e la dialettica storica che anima il mondo della scienza e delle letteratura, fu Italo Calvino, che perentoriamente afferma: «Ogni racconto riscopre una struttura logica. Ogni pensiero è all’inizio un racconto»[13].

Altro che separazione, Levi bracconiere di altrui mestiere, incurante trasgressore degli steccati disciplinari, si mette sulle orme e i passi di famosi e anonimi predecessori che hanno attraversato il ponte che collega, di giorno e di notte, le città della cultura:

Non la conoscevano Empedocle, Dante, Galileo, Cartesio, Goethe, Einstein, né Michelangelo, né la conoscevano i buoni artigiani d’oggi, né i fisici esitanti sull’orlo dell’inconoscibile[14].

 

Non la conoscono pure molte lingue, osserva Tullio De Mauro nel libro tandem Raccontare e contare, scritto con lo scienziato Carlo Bernardini:

Qui vorrei solo dire che, a opposte fazioni di studiosi i quali, da versanti disciplinari tra loro lontani, si scandalizzano se un linguista mette il naso in queste cose, bisogna sempre ricordare che non per caso nel vocabolario di molte lingue c’è una sola e stessa parola per dire “parlare” e “calcolare”, una sola per dire “discorso” e “calcolo”, a cominciare dalla solenne e veneranda parola greca logos giù giù fino al napoletano cunto e contare o al siciliano cuntu e cuntari o (lo aggiungo perché qualcuno non pensi che quella identità lessicale sia un vezzo di “intellettuali della magna grecia” al piemontese contè[15].

 

  1. Politica o cultura, a chi la responsabilità della rottura?

Il matrimonio tra le culture è ben saldo, il loro presunto divorzio è pura invenzione di gelosia e opera di maldicenza di alcune specialisti dal corto respiro, e che non vedono al di là del proprio naso, del tutto incapaci di respirare all’aria aperta e di guardare le innumerevoli meraviglie del mondo.

Tuttavia se su questo punto, l’insostenibile fondatezza del conflitto tra i mondi delle lettere e delle scienze, l’accordo c’è tutto, assai meno convincente è invece l’imputazione di questa artificiosa amputazione alla Controriforma o a remote reminiscenze bibliche.

Si ha qui l’impressione che il chimico Levi non si sia slegato il dito dalla ferita di Galileo e voglia, forse in modo anche inconscio, render pan per focaccia, seppure postuma, ai persecutori del grande pisano, accusandoli dello scisma tra le due culture, aprendo così la strada a successive scissioni a catena, che chiamiamo specialismo disciplinare.

Il pregiudizio controriformistico devia la responsabilità su terzi, su fattori esterni, agenti di contorno colpevolizzati al posto dei protagonisti veri del conflitto.

Le lucide lenti del suo microscopio sembrano qui sfuocarsi e annebbiarsi, scagionando con troppa disinvoltura le due culture, salvando così sia l’onnivoro appetito della letteratura, che la gelosia e la riservatezza della scienza, che evita, per disgusto, di mischiarsi con altro, e con l’arte soprattutto, per non fare confusi minestroni di tutti i sapori.

Infatti la reazione autoritaria della Chiesa, le cui risposte non furono, tra l’altro, sempre retrive e reazionarie, alla protesta dei luterani e dei loro compagni, e più in generale, al sopraggiungere del mondo nuovo, all’ingresso progressivo e alla avanzata trionfale della “Modernità”, aveva come suo obiettivo principale la difesa della fede e della dottrina, per cui colpiva indiscriminatamente e in ugual misura, con mano ferma, e spesso senza neppure la “premura dei guanti”, i suoi nemici senza esclusione.

Laddove ravvisava elementi di pericolo, di qualunque natura e provenienza, fossero scientifiche o letterarie, minacce che potessero intaccarne l’autorità, eclissarne la sacralità, essa interveniva prontamente, inquisendo e mettendo all’Indice, scomunicando e censurando, incarcerando e bruciando.

Galileo non fu più vittima dell’Inquisizione, nel vivo della battaglia luterana, di quanto lo fu Boccaccio, il cui Decamerone, venne purgato dalla testa ai piedi per le troppe oscenità e per qualche irriverente critica all’autorità di Santa Romana Chiesa. La Chiesa aveva gli occhi ben aperti e la guardia alzata: le novelle furono pelate come le patate, perché potessero circolare lisce, senza rischi di contagio di cattivi pensieri, vizi e peccati per i fedeli.

Il ruolo storico della Controriforma è stato quello di baluardo a salvaguardia della cultura cattolica, piuttosto che di agente secessionista tra territori culturali, che all’improvviso, dopo secoli di collaborazione, diventano rivali e cominciano talvolta a ignorarsi, talvolta a duellare per un effimero e insensato primato.

Del resto l’intransigenza e l’intolleranza non furono peculiarità della sola Controriforma, i roghi furono accessi anche nel campo avverso della Riforma Protestante, ne è esempio la fine atroce del medico Serveto nella Ginevra di Calvino. Ciò che combatteva allora la religione, non che oggi, in certi ambienti più intransigenti, abbia deposto del tutto le armi, era la cultura laica, che le puzzava di zolfo, non soltanto quella scientifica tout court.

La questione della divisione e della ramificazione in tronconi dei due saperi era un affare estraneo, tutt’al più marginale alla sua sfera di interessi. Appare di conseguenza opportuno abbandonare questa falsa pista e imboccare altre strade.

Bisogna rintracciare quella via, che possa condurci al momento in cui è stata piantata la pietra di confine e si è consumato questa posticcia separazione, in cui la sbarra è scesa sulle teste di letterati e scienziati; trovare cioè quando è stato concepito non tanto l’antagonismo, quanto l’inconciliabilità, e soprattutto l’alterità tra le culture e cercare dentro i suoi perché.

Chi individua nel positivismo, o meglio nella sua radicalizzazione e conversione in ideologia scientista la causa dello steccato tra scienza e letteratura sembra avere più frecce al proprio arco argomentativo. Con l’avvento del Romanticismo, si diffuse in alcuni gruppi e circoli filosofici la paura per la minaccia che questo movimento culturale dopo i fasti e i furori illuministici, ridimensionando la ragione, fino a punte di grave discredito, ed esaltando il sentimento, avrebbe impoverito le scienze, riducendole a romanzo.

La carrozza del Vero è il sentimento, trainata dai cavalli delle emozioni, e la Poesia è la sua sibilla, mentre la scienza non è altro che inganno, miseria e dolore, predicano i suoi sacerdoti, non paghi e soddisfatti di aver scomunicato e cacciato la ragione filistea dal tempio dell’arte.

Il seducente genere letterario manifesto di questa impetuosa e battagliera corrente intellettuale faceva perdere la testa alle folle, e anche la rocciosa scienza sembrò barcollare.

Circolavano romanzi storici, romanzi sociali, romanzi d’avventura, romanzi dell’orrore, romanzi polizieschi e romanzi di scienza: nacque la fantascienza, in stile gotico, con Mary Shelley, creatrice di Frankenstein, progenitore di tutte le ansie e dei sospetti che accompagnano la scienza.

Fin dalle origini della scienza cosiddetta moderna, i patriarchi ammonivano di tenere sotto controllo i voli della fantasia, di ricordarsi del tonfo di Icaro, raccomandando a ogni passo di tenere i piedi per terra; ciò non impediva comunque a Galileo di occuparsi di critica letteraria e favorire nel suo giudizio estetico l’aulico Ariosto al bizzarro e stravagante Tasso.

In questo clima di diffidenza raggelante e crescente timore in alcune zone sul versante della scienze, si sviluppò l’ideologia positivista, nella forma famigerata di scientismo, che recise i fili con l’immaginazione, sancendo la pericolosità di queste relazioni per l’incolumità e il benessere della scienza, decretando la fine del libero scambio e l’instaurazione di un regime protezionistico e autarchico attraverso la costruzione della grande muraglia che divide e separa i regni della letteratura, dove impera il soggettivismo esasperato e senza freni, e della scienza, governata dai fatti positivi e dalla sobria oggettività, pura e incontaminata.

Il Positivismo fondamentalista cercò di preservare la scienza dal contagio dell’infezione letteraria, sbarrò porte e finestre nella vana speranza di impedire l’invasione del nemico invisibile, i subdoli microbi della finzione.

Si illuse di poter mettere in quarantena il virulento e caotico mondo della letteratura, mentre congelava la scienza, privandola di anima e pulsioni.

Subentrando questa paura, alimentata dal pregiudizio che a garanzia dell’oggettività scientifica ci dovesse essere la neutralità e l’impassibilità dell’osservatore di fronte al mondo esterno, il Positivismo impose il divieto di matrimoni misti, provocando sterili e dannose unioni tra consanguinei, e instaurando un regime di apartheid culturale.

Da un lato, quindi, il Romanticismo licenzia la ragione scientifica, dall’altro il Positivismo bandisce, in nome di una fantomatica imparzialità della scienza, le emozioni.

Di questa atmosfera è partecipe anche Charles Darwin che confessa di trovare Milton sciocco e Shakespeare così noioso da infastidirlo.

Poco più tardi su tutt’altro versante anche Croce e i neoidealisti assegneranno alla scienza un ruolo marginale.

 

  1. A conti fatti

Il distacco tra le due culture non è prodotto dall’alto, bensì dalla guerra civile, “fratricida” tra una letteratura di tendenze egemonizzanti e imperialista e una scienza isolazionista e autonomista.

Lo stesso Levi in un altro passo de L’altrui mestiere, aggiusta il tiro, sfuma e scrive:

Non la scienza è incompatibile con la poesia, ma la didattica, cioè la cattedra sulla pedana, l’intento dogmatico-programmatico-edificante[16].

 

Ebbene questo intento disciplinare, che può implicare anche disciplinamento, irreggimentazione e gerarchia, non è estraneo a una parte della cultura del Romanticismo e dello spirito più angusto, tassonomico e classificatorio del Positivismo, che produssero le pedagogie e le didattiche che parcellizzarono e sminuzzarono il sapere in atomi e punti ideali: l’eccesso smarrisce l’integrità delle cose, fatta di interferenze e d’intrecci di miriadi di punti e atomi diversi.

La specializzazione, che è utile e necessaria per approfondire la conoscenza, non perde di vista il mondo circostante; lo specialismo può diventare al contrario la circostanza in cui il mondo si perde, è possibile alienazione. Il primo acuisce la vista, il secondo conduce alla cecità.

Il dualismo culturale, denunciato, oltre mezzo secolo fa, da Charles Percy Snow, ma la cui genesi è ottocentesca, è il capriccio sciocco di prime ballerine che non amano i balli di coppia.

Perciò Italo Calvino, nel saggio Filosofia e Letteratura del 1967, invocava una cultura all’altezza della situazione, che soppiantasse alla radice fallaci e stantie ideologie, attraverso un ménage à trois tra Letteratura, Filosofia e Scienza[17].

 


[1] “Il lavoro rende liberi”. Auschwitz non era un campo di lavoro, ma di morte. Laggiù, in quell’inferno terreno, anche il lavoro era dato per la morte. I Sonderkommandos lavoravano per uccidere, e gli altri lavori svolti in condizioni disumane consumavano, sfinivano e assassinavano chi lavorava. La morte non è accidentale o incidentale è il prodotto del lavoro, il risultato di un programma, ciò che si produce è davvero superfluo, a limite dell’inezia, al massimo irrilevante effetto collaterale.

[2] P. Levi, L’altrui mestiere, Einaudi, Torino 1985, p. 14.

[3] Ibid., p. V.

[4] Ibid., pp. 12-13. Non c’è forse pagina letteraria di Levi da cui non trasudi scienza, secondo le modalità sopra esposte. Un esempio, tra gli infiniti possibili, in cui sono condensati e agiscono gli elementi detti, è il seguente brano tratto del racconto Argento: «Cerrato non si era proposto nulla, non si esposto a nulla, era rimasto ben chiuso in casa, e certamente doveva essere rimasto abbarbicato agli anni “d’oro” degli studi perché tutti gli altri suoi anni erano stati di piombo. Davanti alla prospettiva di quella cena provavo una reazione bifida: non era un evento neutro, mi attirava e mi respingeva allo stesso tempo, come un magnete accostato a una bussola», Id., Il sistema periodico, in Opere, vol. II, Einaudi, Torino 1997, p. 913.

[5] Id., L’altrui mestiere, cit., p. 14.

[6] Id., Conversazioni e interviste: 1963-1987, Einaudi, Torino 1997, p. 173.

[7] Id., Il sistema periodico, cit., pp. 914-915.

[8] Id., L’altrui mestiere, cit., p. 82.

[9] T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, tr. it. Einaudi, Torino 1999.

[10] P. Levi, La chiave a stella, in Opere, vol. II, Einaudi, Torino 1997, p. 1093 e p.1096.

[11] P. Levi - T. Regge, Dialogo, Einaudi, Torino 1997, p. 47.

[12] P. Levi, L’altrui mestiere, cit., p. VI.

[13] I. Calvino, Le Monde des livres, in «Le Monde», 25 aprile 1970, cit. in G. Bonura, Invito alla lettura di Italo Calvino, Mursia, Milano 1972, p. 44.

[14] Ibid.

[15] C. Bernardini - T. De Mauro, Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 80.

[16] P. Levi, L’altrui mestiere, cit., p. 153.

[17] Calvino, incitando le discipline al meticciato per vivificare e rendere reciprocamente fertili i vari campi dei saperi, scrive: «La scienza si trova di fronte a problemi non dissimili da quelli della letteratura; costruisce modelli del mondo continuamente messi in crisi, alterna metodo induttivo a metodo deduttivo, e deve sempre stare attenta a non scambiare per leggi obiettive le proprie convenzioni linguistiche. Una cultura all’altezza della situazione ci sarà soltanto quando la problematica della scienza, quella della filosofia e quella della letteratura si metteranno continuamente in crisi a vicenda», I. Calvino, Saggi 1945-1985, vol. I, Mondadori, Milano 1995, pp. 193-194. Su Calvino, Levi e altri protagonisti della letteratura italiana del Novecento, in relazione al problema qui trattato, è da consultare P. Antonello, Il ménage a quattro. Scienza, Filosofia, tecnica nella letteratura italiana del Novecento, Le Monnier, Firenze, 2005. 

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