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Indice
- Homo faber
- L’intuizione e il metodo genetico
- Tra empirismo e metafisica
- La memoria ontologica
- Il corpo, tra affettività e percezione
S&F_n. 06_2011
- Homo faber
Se spogliassimo l’uomo dai rimasugli dell’orgoglio evolutivo scopriremmo che l’attributo sapiens è il meno adeguato alla sua natura. L’uomo è un animale geometrico, la cui facoltà conoscitiva, l’intelligenza, si origina come un’appendice specifica della facoltà d’agire. Homo faber dunque, perché vive e opera nell’ambiente che lo circonda in virtù della propria intelligenza. È in questo preciso senso che, in Bergson, la dimensione intellettiva non ha alcuna accezione contemplativa, viceversa, viene definita come «la facoltà di fabbricare oggetti artificiali e in particolare utensili atti a produrre altri utensili»[1]. Il prodotto dell’intelligenza non è altro che lo strumento di natura inorganica che chiama l’uomo a esercitare una nuova funzione, conferendogli una «dimensione organica più ricca»[2] essendo «organo artificiale che prolunga l’organismo naturale»[3]. In altre parole, l’intelligenza bergsoniana è “protesi”, e la tecnica, lungi dalle tecnofobie tuttora in auge, costituirebbe l’esito naturale del processo evolutivo umano. L’intelligenza è così un bene connesso alle necessità dell’azione, connotato, però, da una naturale incomprensione della vita: «La nostra intelligenza, quale esce dalle mani della natura, ha come suo oggetto principale la dimensione solida dell’inorganico»[4]. Volta a preparare la nostra azione sulle cose, a prevedere sulla base della ripetizione dell’identico, essa rimane spiazzata di fronte all’imprevedibile genesi creativa del reale, non è in grado di pensare l’evoluzione, la continuità di stati, la mobilità pura. «L’intelligenza scientifica [...] procede da una sistemazione a una risistemazione delle cose, da una simultaneità a una nuova simultaneità. Necessariamente trascura ciò che accade nell’intervallo»[5]. Nella collana degli stati interiori l’intervallo è lo spazio fra le perle, poste l’una accanto all’altra, è il filo invisibile che le lega; l’intervallo ha la stessa irrinunciabile funzionalità delle pause nelle sinfonie musicali, degli spazi bianchi della scrittura. Se teoria della conoscenza e teoria della vita sono per Bergson inscindibili, un pensiero mobile e vivo deve afferrare l’intervallo, pensare la molteplicità concreta come insieme non statico di stati, che interagiscono fra loro e si spiegano nella durata.
- L’intuizione e il metodo genetico
L’intelligenza, tuttavia, non è che una delle due tendenze evolutive: «La coscienza, nell’uomo, è soprattutto intelligenza; ma avrebbe potuto, avrebbe dovuto, forse, essere anche intuizione»[6]. Che cosa sia l’intuizione in Bergson è questione assai complessa. Ancora ne L’evoluzione creatrice il filosofo francese la definisce come «l’istinto divenuto disinteressato, cosciente di sé, capace di riflettere sul proprio oggetto e di estenderlo all’infinito»[7]. L’istinto senza scopo, cioè libero dall’urgenza dell’azione, rischiara d’una luce consolante quel fondo tragico messo in evidenza da Simmel, quel triste dato filosofico per cui «la vita, solo per poter esistere, deve mutarsi in non vita»[8]. Bergson non credeva che un’anfibolia irrisolvibile abitasse il cuore dell’essere, il fenomeno vitale che si sottrae al potere analitico dell’intelligenza è restituito per mezzo dell’intuizione che manifesta il senso immanente alla vita stessa. L’intuizione sta lì a dimostrare che è possibile cogliere la processualità del reale nel suo farsi solo mediante un ampliamento delle nostre facoltà percettive. Ecco perché, come sosteneva Deleuze, essa non è «un sentimento, né un’ispirazione, né una simpatia confusa»[9], bensì metodo puntuale e precipuo. Nella raccolta di saggi del 1966, Il bergsonismo, Deleuze enucleava alcuni caratteri della metodicità dell’intuizione bergsoniana. In primo luogo tramite essa qualcosa si mostra da sé, si palesa, senza aver bisogno di essere dedotta da qualcos’altro. L’intuizione aggira l’impasse del ragionamento, spesso infecondo, e ci inizia a una nuova visione delle cose. La filosofia assume su di sé questo compito: instaurare una conoscenza altra, speculare a quella della scienza, in grado di seguire il mutevole, di adottarne le curve sinuose. Scienza e filosofia non si oppongono ma obbediscono a imperativi diversi: «La regola della scienza è quella già posta da Bacone: obbedire per comandare. Il filosofo non obbedisce né comanda, cerca di legare (sympathiser)»[10]. Che cos’è che cerca di legare la filosofia? Il dentro e il fuori, la parola e la cosa, il principio naturante e la natura naturata. Il secondo carattere dell’intuizione è il suo essere un ritorno. In effetti la relazione filosofica che ci pone dentro le cose è restaurata, piuttosto che instaurata, ritrovata, e non inventata. «In filosofia la prima volta è già la seconda, è questa la nozione di fondamento»[11], per questo la filosofia di Bergson chiama in causa una genetica e un’archeologia della vita, e qui il termine “archeologia” non ha il senso d’un sapere antiquario, piuttosto innesca una temporalità retroflessa, dove l’inizio ingloba e orienta quel che verrà dopo. E tuttavia questo ritorno non costituisce mai la riappropriazione dell’originario o la fusione con l’immediato che, viceversa, si allontana quanto più la filosofia vuole unirsi con esso. «L’immediato è all’orizzonte»[12], come affermerà Merleau-Ponty, e così dev’essere pensato affinché rimanga se stesso. Il terzo carattere posto in luce da Deleuze costituisce il cuore della sua interpretazione. L’intuizione come metodo è un metodo che cerca la differenza, «è il godimento della differenza»[13]. L’essere è differenza e alterazione, è ciò che restando se stesso differisce continuamente da se stesso. Tale differenza interna, quidditativa e non di grado, può essere assimilata a ciò che Bergson chiama spesso nuance. «La nuance – chiarisce Rovatti – è “quella” particolare sfumatura e non un’altra. È quella specifica e determinata qualità, insostituibile e non generalizzabile»[14], essa dà all’esperienza un tratto unico, identificante. In questo senso «ogni durata non può essere che nuance»[15]. Se la durata è l’eterogeneità pura, il concetto di differenza rende ragione dell’irripetibilità e l’irreversibilità propria di ogni istante nella durata. Il riferimento cromatico non deve far pensare, però, a un appiattimento dell’universo sensibile al solo registro visuale; in realtà anche quando Bergson parla di nuance egli pensa piuttosto a un cromatismo musicale, alla capacità di intenzionare la musicalità del reale. L’immagine kat’exochen della durée non è simile a un arcobaleno, ma a una sinfonia. La musica, «misteriosa forma del tempo»[16], rinvia a un’unità non divisibile, qualcosa che mantiene la propria compattezza o identità, nonostante il suo variare, come il tema musicale che preesiste e fonda le sue variazioni. Sulla scorta delle innumerevoli metafore musicali che costellano la produzione letteraria bergsoniana è ragionevole dedurne che il filosofo attribuisca al senso dell’udito una superiorità percettiva e metafisica; questo perché la musica ci inizia a un terreno paradossale in cui gli opposti si fondono, la molteplicità è unità, la continuità discontinuità, e il disordine un ordine altro. Se l’essere è naturalmente articolato, signato, altra caratteristica metodica dell’intuizione è che essa adotta un modus philosophandi in grado di seguire le venature del reale; ecco perché Bergson ama citare l’immagine del Fedro in cui Platone paragona il filosofo a un abile cuoco che sappia tagliare la carne senza rompere le ossa, seguendo le articolazioni disegnate dalla natura. «Un’intelligenza che agisse sempre in questo modo – aggiunge Bergson – sarebbe effettivamente orientata alla speculazione»[17]. Filosofare col coltello, incidere la carne, insinuandosi nelle pieghe del reale, per poi assaporare le qualità intensive della vita. In ultima analisi, l’intuizione come metodo si pone alternativamente al metodo formale: al concetto di forma, che fotografa il divenire come universo in sé conchiuso, sostituisce quello di forza, come principio creativo perpetuamente in fieri. Se ancora oggi, a più di quarant’anni di distanza dalla sua formulazione, ci riferiamo all’interpretazione deleuziana ciò accade per due ragioni, una storiografica l’altra teorica. Deleuze fu corifeo di quella renaissance bergsonienne avvenuta in Francia negli anni ‘60 che ha a che fare anche con la nascita del problema fenomenologico: chi si è assunto il compito di radicalizzare l’intenzionalità della coscienza husserliana, ponendo in primo piano il suo retroscena di passività e la sua inerenza a un’originaria “apertura” di mondo, si è trovato, suo malgrado, a dover riaprire la “pratica” Bergson. In secondo luogo l’interpretazione deleuziana fu apocrifa e puntuale, tanto da strappare Bergson al milieu spiritualista e decostruirne l’immagine convenzionale, dipingendolo, per la prima volta, come uno “scienziato della vita”. Ed è proprio questa attenzione alla vita a riallacciare Bergson al panorama filosofico contemporaneo ancora così affascinato dalle questioni del bios. Possiamo affermare che la vetusta questione del soggetto si è mutata nella questione del vivente, il che implica da un lato il superamento del fronteggiamento moderno di soggetto e oggetto, dall’altro un’interdisciplinarietà per cui la filosofia deve mostrarsi ricettiva ai contributi della biologia e delle neuroscienze. Nel contesto di questa attualità del vivente s’inserisce il rinnovato interesse per la filosofia bergsoniana, testimoniato dal moltiplicarsi di traduzioni e pubblicazioni monografiche; anche in Italia la riscoperta dell’opera bergsoniana è un fatto recente, basti pensare che fino a qualche anno fa circolava un’edizione minima, di soli estratti, dell’Evoluzione creatrice. Il concetto di vita ottempera oggi alla funzione ermeneutica di quella che in passato fu l’ interrogazione della natura intesa come essere; il ciò che è cede il passo a ciò che vive, il soggetto al vivente. L’uso e persino l’abuso del prefisso bio- nei campi più disparati del sapere, dalla bio-tecnologia alla bio-economia, ha unicamente il significato della pre-comprensione, dell’orizzonte entro il quale ci muoviamo, e del quale non possiamo mai rendere interamente ragione. Come intendere allora la filosofia bergsoniana? Si tratta forse dell’anelito crepuscolare della metafisica classica o siamo agli albori di una nova philosophia, un empirismo trasformato volto a stringere più da vicino il suo oggetto, a situarsi in esso, rifuggendo a una visione panoramica, immergendosi nella polvere secca della nuda terra?
- Tra empirismo e metafisica
In quel manifesto programmatico che è Introduzione alla metafisica del 1903 Bergson scrive: «un vero empirismo si propone di stringere da vicino l’originale, di approfondirne la vita e, con una specie di auscultazione spirituale, sentirne palpitare l’anima, un vero empirismo è la vera metafisica»[18]. Se nessuna delle categorie del nostro pensiero – unità, molteplicità, causalità, finalità – può applicarsi con esattezza alle cose della vita, la stessa cosa può dirsi per le categorie di ‘empirismo’ e ‘razionalismo’. La filosofia ha sempre da combattere l’ostilità d’un linguaggio anchilosato che nel dire pietrifica, e ogni filosofo prova a giocare con esso, sfuggendo a tale potere, caricando di significati nuovi significanti vecchi. Empirismo e razionalismo, banalmente intesi, commettono errori opposti e simmetrici, confondendo analisi e intuizione: laddove l’empirismo scambia gli stati psicologici per altrettanti frammenti staccati da un io che ne sarebbe la somma, finché di fronte all’inafferrabilità del fantasma dell’io finisce con l’affermare che non esiste nient’altro che la molteplicità dei suoi stati; il razionalismo riduce l’unità dell’io a forma senza materia, a vuoto contenitore. Ma l’empirismo genuino di cui parla Bergson non parteggia per l’unità né per la molteplicità ma si domanda quale unità, quale molteplicità, che tonalità ha la durata? Un’esperienza così intesa, che si potrebbe nondimeno definire come integrale, è il luogo dell’intuizione quale metodo gnoseologico in grado di ricollocarci nella pura durata. Una metafisica riformata perde il suo μετά e riconquista l’εμπειρία, le cose del mondo. Il termine greco sta a indicare proprio l’esperienza ingenua nel suo stato grezzo, non ancora elaborata, così come verrà intesa dalla fenomenologia merleaupontiana. L’intuizione della durata ci ha condotti al cuore delle cose e non al di fuori di esse. Avanziamo a questo punto una domanda: è legittimo continuare a pensare la durata come traduzione filosofica del letterario stream of consciousness e tempo del vissuto interiore, fautrice d’una metafisica coscienzalistica? Era l’opinione di Sarte, secondo cui Bergson riproporrebbe, tingendola coi colori accattivanti dell’esperienza interiore, una concezione sostanzialistica della coscienza, iniziando a una metafisica della durata tagliata a misura di questa reificazione della coscienza. Ciò con l’aggravante della dissimulazione, dando a intendere di aver riaperto le porte della filosofia alle esigenze del vissuto, d’aver risposto al bisogno di concretezza avvertito dalle filosofie novecentesche. È indubbio che la filosofia di Bergson «vive nel bilico dell’equivoco realista»[19], talora sembra rimanere vittima della fascinazione della vecchia metafisica e la durata cangiante si coagula in un essere «che dura»; ciò nonostante è nostra convinzione che essa non vada interpretata quale residuo sostanzialistico ma come principio creatore, differenziatore, capace d’inserire nella materia il maggior grado d’indeterminazione. Per dirla con le parole di Merleau-Ponty: «il tempo qui non è messo al posto dell’essere, ma è compreso come essere nascente»[20]. La durée non è intesa come ousia, pertanto non risponde alla domanda “che cos’è l’essente?”, ma palesa il suo senso, che non è dato né prima, come vorrebbe l’idealismo, né dopo, come sostiene l’empirismo, ma che intrama di sé l’essente. Tale ipotesi interpretativa si radica in due luoghi della filosofia bergsoniana: Materia e memoria e L’evoluzione creatrice; come ogni ipotesi delimita un campo di studio e trascura il resto, conscia del suo “peccato storiografico” e tuttavia persuasa d’offrire uno sguardo sulla filosofia bergsoniana che sia più affine alla sensibilità contemporanea. È in Materia e memoria e ne L’evoluzione creatrice che Bergson delinea una genesi comune di materia e spirito a riprova del fatto che durata e materia non s’oppongono, la materia non si staglia di fronte a noi come un mero oggetto, qualcosa di spurio e inerte, ma è viva, articolata, mobile e ha memoria. Sul concetto di natura come “grande oggetto” si esprimerà Merleau-Ponty, nel corso del ‘56-‘57 tenuto al Collège de France, quando, riferendosi all’universo cartesiano, lo definisce come esteriorità pura e avanza un problema che era stato già messo in luce da Bergson ne L’evoluzione: «il mondo sul quale opera il matematico è un mondo che muore e rinasce in ogni istante, è lo stesso mondo a cui pensava Descartes quando parlava di creazione continua»[21]. È un mondo nel quale il tempo non fa niente, diremmo, e se non fa niente non è niente. «Se la natura esiste solo grazie alla decisione – e la decisione continuata – di Dio, – gli fa eco Merleau-Ponty – essa non regge nel tempo grazie alla necessità delle sue leggi fondamentali»[22]. Ed è questa la ragione per la quale la metafisica cartesiana fonda e giustifica la fisica: dalla certezza di Dio, di cui si assicura per mezzo delle prove razionali, Descartes fa discendere non solo la sussistenza ontologica dell’ente-uomo, ma anche quella dell’ente-mondo e, conseguentemente, la possibilità di fare scienza, ovvero di conoscere questo mondo scientificamente. Il fondamento del sapere umano poggia su quello divino e altrimenti non potrebbe essere dal momento che il modello epistemologico di certezza assoluta della conoscenza può venire soddisfatto solo da una garanzia altrettanto assoluta, ossia divina. Diversamente, la filosofia della natura bergsoniana si rivolge a essa non per ingabbiarla in un sistema di principi e relazioni formali, ma per sperimentare una filosofia evenemenziale, una pedagogia degli atti, degli slanci e degli arresti dell’azione, per scorgere all’interno della natura la legge di motilità che la scuote. La materia dura e ha memoria, è questa decisiva affermazione del testo del ‘96 che permette di superare l’impostazione psicologica del Saggio sui dati immediati della coscienza e, di conseguenza, il problema lasciato inevaso nell’89 della natura doppia o mélangée della realtà, avviando così un’ontologia complessa e originale.
- La memoria ontologica
«Ogni volta che abbiamo a che fare col passato e con la sua salvezza abbiamo a che fare con un’immagine, perché solo l’eidos permette la conoscenza e l’identificazione di ciò che è stato»[23]. Questa semplice quanto rivelativa affermazione di Agamben getta luce sul perché in Materia e Memoria l’immagine abbia tanta parte, costituendo uno snodo concettuale imprescindibile nell’esegesi del testo. Nella Prefazione alla VII edizione leggiamo: «la materia è un insieme di “immagini”»[24]. L’uomo opera attraverso i simboli su una realtà ordinaria composta da elementi che hanno carattere misto, ambiguo, e questo loro carattere è dovuto al fatto che essi sono il prodotto della mescolanza della materia con il nostro modo di rappresentarcela, che consiste nel ritagliarla in figure ben precise, immagini, appunto. «Per “immagine” – scrive Bergson – intendiamo una certa esistenza che è più di ciò che l’idealista chiama una rappresentazione, ma meno di ciò che il realista chiama una cosa, un’esistenza situata a metà strada tra la “cosa” e la “rappresentazione”»[25]. L’immagine reca con sé un’ambiguità semantica dovuta al fatto che essa è manifestazione della natura mista della nostra esperienza ordinaria, che nasce dall’incontro di memoria e materia, della durata spirituale con la durata delle cose. L’immagine simboleggia quell’unità dell’esperienza in cui non è ancora operata la frattura tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto, tra un interno qualitativo e un esterno quantitativo: è l’inizio ingenuo, fenomenologicamente prossimo alla coscienza del senso comune. Occorre fare un «salto», compiere quella svolta (tournant) che pone la domanda filosofica più indietro di quanto non abbia fatto finora il pensiero metafisico, prima e al di là della distinzione fra idealismo e realismo. Ancora Sartre ne L’immaginazione noterà come l’immagine bergsoniana, non riducendosi allo statuto di un semplice contenuto mentale, manifesti un’opacità che la rende partecipe del reale, una dimensione cosale che rimanda, secondo l’interpretazione sartriana, a un pregiudizio realista di Bergson, incapace di cogliere il carattere intenzionale della coscienza e la natura non oggettuale degli atti di coscienza, egli «ha lasciato sussistere in seno alla durata pura queste immagini inerti, come pietre in fondo all’acqua»[26]. L’immagine da un lato è rappresentazione materica, dall’altro è come lo specchio di Narciso, essa racconta sempre di noi stessi, dispiegando la nostra memoria. Quindi la domanda sulla genesi comune di materia e spirito può essere riformulata in questi termini: come può la memoria esercitare la sua facoltà immaginatrice sulla materia? Che rapporto c’è fra la percezione e l’immagine-ricordo? Riportiamo il discorso un po’ all’indietro provando a descrivere una fenomenologia percettiva. Bergson afferma che quando il corpo riceve uno stimolo e consegue una percezione, laddove non si produca una reazione automatica e istantanea, ma si instauri un processo cosciente, avverrà «un’azione d’arresto». Quest’ultima apre la strada al lavoro creativo della memoria. La memoria, mediante una contrazione, fissa i contorni dell’oggetto percepito, e crea di nuovo la percezione presente, o meglio la raddoppia rinviandole la sua immagine. Tale ripetizione interiore costituisce la prima operazione attiva della memoria, e cioè la formazione del «cadre moteur», nient’altro che l’abbozzo della possibile azione che il corpo può compiere sull’oggetto percepito. Ma se le cose stessero banalmente così Bergson sarebbe ricaduto a sua volta nella concezione parallelista – da lui più volte criticata – secondo la quale la rappresentazione di un percetto – ovvero nella terminologia bergsoniana: l’immagine – sarebbe una copia che va a stamparsi nella mente del percepiente. Quale ruolo creativo avrebbe allora la memoria? Torniamo ad analizzare il processo mentale cosciente o riflesso: «è un vero circuito, in cui l’oggetto esterno ci consegna delle parti sempre più profonde di se stesso via via che la nostra memoria, simmetricamente posta, adotta una maggiore tensione per proiettare verso di esso i suoi ricordi»[27]. Ciò vuol dire che possiamo rappresentarci un oggetto solo in quanto la memoria, partendo da sé, cioè da una sua interna tensione crea l’immagine dell’oggetto. Nel momento in cui si ha una percezione la memoria si porta immediatamente nel profondo di se stessa, per collocarsi in un’idea assolutamente virtuale, «un ricordo puro»; quest’idea pura, scendendo verso la percezione si infeltrisce, andando a in-formare, im-maginare la percezione, racchiudendola nell’immagine che l’idea stessa materializzandosi è diventata. Il processo schematizzato sarebbe:
ricordo puroàimmagine-ricordoàimmagine percettiva
In realtà non si tratta di un processo lineare, bensì ricorsivo e transitivo, pertanto la corretta simbolizzazione dovrebbe contemplare l’uso di frecce ricurve, che rinviano l’una all’altra. Il processo così analizzato si rivela come un qualcosa di ben più complesso di un semplice rispecchiamento, esso è la creazione attiva da parte della memoria di un’immagine percettiva, a partire da certe virtualità che vivono nella memoria stessa. Come nota acutamente Hyppolite «comunemente la memoria è concepita solo come una facoltà di ripetizione o di riproduzione, che si contrappone quindi all’invenzione e alla creazione, ma Bergson unisce lo slancio verso il futuro e la spinta del passato in un’unica intuizione che chiama memoria»[28]. La verità è che bisogna sfuggire a un’immagine della memoria che la vede rassomigliante alla scatola di latta dei ricordi, essa «non consiste affatto in una regressione del presente nel passato, ma al contrario, in un progresso del passato nel presente»[29]. Il tempo si fa chiasmo, non va più soltanto nella direzione del prima che precede il dopo, l’alfa è un omega rovesciata. «Partiamo da uno “stato virtuale” che conduciamo, poco a poco, attraverso una serie di piani di coscienza differenti […], fino al punto in cui diventa uno stato presente e agente, cioè fino a questo piano estremo della nostra coscienza in cui si delinea il nostro corpo»[30]. Il corpo è una sorta di limite mobile tra il futuro e il passato, situato all’ultimo scalino della nostra memoria, come un punteruolo che il nostro passato spinge incessantemente nel nostro futuro. Dal fondo virtuale per mezzo di uno slancio vitale la memoria si esteriorizza e si solidifica in un insieme di immagini che vanno a formare un sistema simbolico, ovvero un mondo culturale. Ma come si è visto l’attività della memoria è circolare, essa non si ferma alle immagini realizzate, e sempre di nuovo ritorna a quel fondo virtuale da cui attinge, innescando nuovi concatenamenti fra mondo organico e mondo inorganico. La memoria così intesa non è né una realtà soggettiva né una realtà oggettiva, piuttosto un soggetto più profondo dal quale deriva la stessa distinzione gnoseologica superficiale di soggetto e oggetto. È la stoffa ontologica del reale. L’ontologia che si è venuta a delineare si radica dunque nel corpo, non ne è avulsa, la coscienza in Bergson è già incarnata, se assumiamo come punto di partenza che non solo la coscienza, ma l’universo intero dura. E quell’“immagine privilegiata” che è il nostro corpo costituisce il medium, il punto d’incontro tra passato e futuro, il luogo nel quale la memoria si dispiega e agisce.
- Il corpo, tra affettività e percezione
L’ontologia corporale di Merleau-Ponty affonda le proprie radici in questa forma di bergsonismo latente che deve essere portata alla luce. Se è vero che ogni grande pensatore genera i propri antenati, è nostra intenzione risalire la china di questa filogenesi all’incontrario al fine di ravvisare i punti di contatto fra i due autori, le sintonie e le distonie. Dando uno sguardo all’ “apprendistato filosofico” del Merleau-Ponty degli anni ‘30 risulta innegabile l’influenza di Bergson: il giovane Merleau-Ponty è affascinato da temi quali l’originario e l’esperienza vissuta, e la filosofia bergsoniana, a differenza del razionalismo conservatore della Sorbona di quegli anni, si mostra più concreta e attenta alla vita. È ancora da Bergson che Merleau-Ponty mutua l’interesse per un argomento che sarà focale almeno per due decenni: la percezione, ed è muovendo dalle riflessioni bergsoniane che approda al problema della percezione del corpo proprio. Tuttavia sul giudizio del “primo” Merleau-Ponty pesa la critica dissacrante, ricordata poc’anzi, dell’esistenzialismo francese e, in particolar modo, del suo maestro Sartre. La «simpatia ritrovata»[31] di Merleau-Ponty per il pensiero di Bergson è databile, dunque, agli anni successivi alla pubblicazione della Fenomenologia della percezione, quando scopre un Bergson oscuro e inatteso. Legge Matière et mèmoire e i saggi contenuti in La pensée et le mouvant, nella fattispecie è il programma delineato in due conferenze, La perception du chargement e L’intuition philosophique che, come sostiene Geraets, «ha attirato questo giovane filosofo verso la ricerca di una filosofia vera, concreta, non tagliata dalla scienza, ma che vuole ritrovare, al di sotto di essa, la vita stessa della nostra esperienza»[32]. Si fa strada in lui la convinzione che vi sia del “non pensato” in Bergson, qualcosa «che è interamente suo, e che però mette a capo a qualcos’altro»[33]. Questo altro cui mette capo si rivelerà, passo dopo passo, il problema stesso della fenomenologia. A Bergson va riconosciuto il merito d’aver tentato di comprendere la percezione come atto fondativo del conoscere e d’aver, anche solo presentito, la centralità del corpo. Percorrendo ramblas di arterie e boulevard venose si scopre che è il corpo proprio a dischiudere un universo filosofico dove vengono superate le aporie dell’antitesi realismo/idealismo. Solo una concezione “allargata” della percezione ci permette di cogliere il mondo senza scomporlo in un aspetto fisico e in uno psichico, senza parcellizzarlo. Il corpo fenomenico, nell’atto della percezione, ricompone la scissione di derivazione moderna soggetto/mondo. Per giungere a tale concezione “allargata” occorre riformulare la nozione di coscienza, che non va assunta come realtà in sé, ma pensata come struttura: la coscienza è una griglia interpretativa, è il come pensiamo il mondo, ed è affetta dalle medesime affezioni del corpo, è coscienza naturata; ragion per cui non va concepita come a-priori dogmatico, ma immersa nella dialettica vivente del soggetto concreto. Non è più il pensare di vedere o il pensare di toccare, ma il vedere e il toccare, la cera che cola e ci brucia. Quest’occhio che guarda il mondo è incarnato, usurato, più vecchio di quello che si costituisce nel moto di assoluta auto trasparenza del cogito. Ne Il visibile e l’invisibile Merleau-Ponty parlerà molto efficacemente di una “macchia cieca”, intesa come condizione della datità del mondo, che inerisce all’“occhio dello spirito”, e alla quale, tuttavia, quest’occhio deve la possibilità stessa del vedere, il suo essere visione e non cecità. Il corpo biologico non dev’essere separato dal corpo funzionale come centro d’azione, esso non è più prigione né massa materica inerte, ma “involucro vivente delle nostre azioni” e quindi non distinguibile dalla coscienza in senso tradizionale. «Percepisco le cose direttamente senza che il mio corpo faccia da schermo tra loro e me; anche il mio corpo, come le cose, è un fenomeno, dotato, certamente, di una struttura originale che me lo presenta come un intermediario tra il mondo e me, benché non lo sia di fatto[34]». Ciò che accomuna i due filosofi è l’interesse per l’essere grezzo del mondo percepito, magma informe della vita interiore che invoca una genetica. La filosofia è condannata a una natura postuma, costitutivamente in ritardo trova l’essere già fatto e non le resta che interrogare la natura di questo ritardo, di quest’essere preliminare che la precede sempre. La filosofia deve essere questa tensione, quest’askesis. Un pensiero della vita è irrisolto proprio come essa, incompiuto, una vita, ed è bene che sia così perché come affermano le lucide parole di Merlau-Ponty, «nel costituito la filosofia si annoia. In quanto espressione non si compie se non con la rinuncia alla coincidenza con ciò che è espresso e allontanandosene per vederne il senso. È l’utopia di un possesso a distanza»[35]. Il burattinaio non può farsi burattino e dietro le quinte allestisce altari in onore di πενία, madre di tutte le filosofie. Attraverso la metafora della non coincidenza Merleau-Ponty spiega anche il concetto bergsoniano di durata:
nei confronti della mia durata, quanto delle cose, sono in una strana situazione di “coincidenza parziale”[…] io sono la mia durata eppure questa durata che io sono, non c’è verso di avvicinarla o anche di guardarla in faccia: vorrebbe dire ucciderla, interrompere la sua nascita continua, spezzare la sua identità che è quella di un essere sempre nuovo e in ciò appunto sempre lo stesso[36].
A questa interpretazione Merleau-Ponty fa riferimento pure ne Il visibile e l’invisibile dove si domanda, per l’appunto, che cos’è una coincidenza solo parziale. Essa è una «coincidenza sempre passata o sempre futura, […] un’esperienza che emerge dall’Essere o che sta per incorporarvisi, che “ne è”, ma che non è l’Essere, e quindi non è coincidenza, fusione reale […], ma ricoprimento, come di una cavità e di un rilievo che rimangono distinti»[37]. La filosofia è questa piega, questa sbavatura anacronistica, è evidente la sua zoppia o la sua isteria[38]: essa abita nella storia e nella vita ma vorrebbe situarsi nel punto in cui sono avvenimento nascente per vederne il senso. Se volessimo ancora leggere la filosofia contemporanea con le categorie di soggetto e oggetto saremmo costretti a riconoscere che essa pensa la forma più radicale di soggettività: il puro stare sotto, il pathos assoluto. Così il tempo esige una pazienza che è misura della mia inoperatività: i minuti necessari affinché una zolletta di zucchero si sciolga nell’acqua non si possono ridurre, né aumentare, si danno semplicemente, ingenuamente. Nelle pagine finali di Fenomenologia della percezione Merleau-Ponty, riferendosi esplicitamente alla Logik di Husserl, parla di «sintesi passiva del tempo»[39] secondo cui per avere il passato o l’avvenire non v’è bisogno di postulare un’unità sintetica dell’appercezione che li tenga saldi nella mia coscienza, ma la serie di “adesso” (Abschattungen) ha una «unità naturale e primordiale»[40]. Il problema è il seguente: «una coscienza tetica del tempo che lo domini e che lo abbracci distrugge il fenomeno del tempo»[41], che ha come caratteristica essenziale il fatto di non darsi mai come interamente costituito, ma sempre da farsi. Il tempo tutt’intero è l’immagine fallace della temporalità confusa con la spazialità, e qui il richiamo a Bergson è evidente, tuttavia in nota Merleu-Ponty afferma:
non è necessario né sufficiente, per ritornare al tempo autentico, denunciare la spazializzazione del tempo, come fa Bergson ... si può rimanere molto lontani da una intuizione autentica del tempo anche una volta che si è denunciata la traduzione sistematica del tempo in termini di spazio. È quanto è accaduto a Bergson. Quando dice che la durata si avvolge su se stessa «come una palla di neve», quando accumula nell’inconscio dei ricordi in sé, egli definisce il tempo mediante il presente conservato, l’evoluzione mediante l’evoluto[42].
Non è arduo risalire al perché Merleau-Ponty non condivida appieno la polemica bergsoniana contro lo spazio, la critica al tempo spazializzato è valida solo se riferita al concetto di spazio oggettivato, e non a quella categoria di spazialità primordiale che Merleau-Ponty cerca di definire proprio nella Fenomenologia come forma dell’être au monde, determinando l’abbandono priorità del tempo come modalità autentica dell’esperire. «Tempo e spazio sono degli orizzonti e non serie di cose. E degli orizzonti che si sopravanzano reciprocamente: leggo il tempo nello spazio e leggo dello spazio nel tempo»[43]. Le tre estasi temporali non si danno come compartimenti stagni, ma ognuna abbraccia le altre; il passato non presiede al presente né questi s’affaccia sul futuro, per converso «ogni presente riafferma la presenza di tutto il passato che allontana e anticipa quella di tutto l’a-venire, […] non è chiuso in se stesso, ma si trascende verso un avvenire e un passato»[44]. È incredibile la rassomiglianza con le tesi di fondo di Materia e memoria, ecco perché è possibile dire che Bergson abbia presentito, in largo anticipo rispetto alle dissertazioni di Husserl, Heidegger e dello stesso Merleau-Ponty, l’implicazione reciproca delle tre estasi del tempo nell’unità articolata di una stessa temporalizzazione, e il primato dell’estasi “futuro”. Il filosofo francese sul filo della nozione di memoria tematizza, a suo modo, proprio quel “nesso esserci e temporalità” che Heidegger in Essere e tempo[45] gli rimprovera di aver mancato e occultato. La filosofia di Bergson può essere allora collocata nella zona più problematica del pensiero contemporaneo, «in quella linea di demarcazione, non ancora ben delineata nella sua nettezza, che, a un tempo, separa e unisce la fenomenologia trascendentale di Husserl e l’ontologia fondamentale di Heidegger»[46]. Bergson è stato il primo ad attribuire al tempo una natura ermeneutica, ponendo la questione del nesso fra l’io che vive e la sua trascrizione storica, per cui «ovunque qualcosa vive c’è aperto da qualche parte, un registro in cui si inscrive il tempo»[47]. Inoltre la coscienza-memoria è pensata come sintesi del passato e del presente in vista del futuro, nel senso che è il futuro a orientare passato e presente, e in quanto è il futuro a dominare non si verifica l’appiattimento del tempo sul presente. La coscienza racchiude il mistero semplice della concomitanza, una doppia posizione congiunta di realtà e di passato, un’estasi temporale, una sorta di magia. «È il futuro che chiama il passato alla “coesistenza” con un presente dal quale, per altro, differisce per natura»[48]. Il giudizio severo del ‘45 verrà mitigato tra il finire degli anni ‘50 e ‘60. Nel maggio del ‘59 Merleau-Ponty tiene la conferenza Bergson se faisent definendo la teoria bergsoniana come «una filosofia che non pretende al sistema, ma alla riflessione piena, e che vuole far parlare l’essere»[49]. Il “ritrovamento” di Bergson coincide con un’operazione del tutto inattuale condotta da Merleau-Ponty in piena questione storica, ovvero il ripensamento del concetto di natura. Nell’introduzione de La nature ou le monde du silence egli indaga le ragioni di questo interessamento, e scopre che la natura non desta interesse né per se stessa né come principio universale di spiegazione ma come indice di ciò che nelle cose resiste. La natura è la chiave d’accesso concreto al problema ontologico, essa permette di ritrovare l’essere grezzo o selvaggio sul quale non ha presa la storia, invalidata dalle avventure della dialettica. Anche lo sviluppo delle scienze nel XX secolo ha mostrato che il vecchio modo d’intendere la natura, come grande oggetto, non è più sostenibile: essa è un oggetto enigmatico, se così può dirsi, non è del tutto un oggetto e non è del tutto dinnanzi a noi. La relazione di fronteggiamento soggetto-oggetto è un qualcosa che la nostra epoca ha del tutto sconfessato. Il concetto di natura pone in evidenza quella che Merleau-Ponty definisce una mutazione ontologica: mediante la filigrana della natura ricollochiamo la domanda filosofica in quell’essere preliminare, ancora indiviso, quell’unità della nostra esperienza che custodisce il segreto di ogni futura differenziazione. Emerge allora quel gioco di corrispondenze fra i due autori: in primo luogo tanto per Merleau-Ponty che per Bergson la natura non si conosce operativamente, né mediante le categorie tradizionali di causalità o finalismo, rigettate entrambe ne L’evoluzione creatrice, ma tramite se stessa come esperienza originaria vissuta. Il similia similibus empedocleo diviene il vitalis vitalibus, la vita non è penetrabile che dalla vita, solo perché siamo vivi, comprendiamo veramente, dall’interno, ciò che è vivo. Inoltre la natura si mostra come il ricoprimento di una cavità, luogo di una coincidenza sempre mancata. Palesa l’orizzonte di senso come «essere anteriore ad ogni conoscenza»[50] che tuttavia si dà solo nell’atto della percezione. Qui ha luogo il paradosso: l’originario precede la percezione ma può essere colto solo tramite essa. In ultima analisi la natura è non solo capace di creazione ma è creazione essa stessa, nel linguaggio merleau-pontiano diremmo che è creazione di senso allo stato nascente.
Installato nella mia vita, addossato nella mia natura pensante, conficcato in questo campo trascendentale che si è aperto sin dalla mia prima percezione ... mi sento votato a un flusso di vita inesauribile di cui non posso pensare né l’inizio né la fine: infatti, sono ancora io vivente a pensarli e così la mia vita si precede e sopravvive sempre[51].
Le parole di Merleau-Ponty della Fenomenologia si colorano di sfumature bergsoniane, in fondo la lezione straordinaria di Bergson, come ricorda lo stesso Merleau-Ponty in Bergson se faisent, fu di aver formato centinaia di studiosi senza che vi fosse una scuola bergsoniana, d’aver inciso così profondamente nell’humus filosofico tanto che la sua lezione non può dirsi esaurita, ma ancora da cominciare.
[1] H. Bergson, L’evoluzione creatrice (1907), tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, p. 117.
[2] Ibid., p. 118.
[3] Ibid. (corsivo mio).
[4] Ibid., p. 128.
[5] Id., Pensiero e movimento (1938), Bompiani, Milano 2000, p. 116.
[6] Id., L’evoluzione creatrice, cit., p. 219.
[7] Ibid., p. 147.
[8] G. Simmel, Henri Bergson, in Sfumature. Materiali per rileggere Bergson, in «aut aut», 204, 1984, p. 22.
[9] G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi (1966), a cura di P. A. Rovatti e D. Borca, tr. it. Einaudi, Torino 2001, p. 3.
[10] H. Bergson, Pensiero e Movimento, cit., pp. 116-117.
[11] G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, cit., p. 112.
[12] M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile (1964), tr. it. Bompiani, Milano 2009, p. 141.
[13] G. Deleuze, Il bergsonismo, cit., p. 128.
[14] P. A. Rovatti, La “nuance”. Note sulla metafisica di Bergson, in Sfumature. Materiali per rileggere Bergson, cit. p.84.
[15] Ibid.
[16] J. L. Borges, Altra poesia dei doni, in L’altro, lo stesso, in Opere complete, a cura di D. Porzio, I Meridiani, Milano 2005, vol. II, p. 179.
[17] H. Bergson, L’evoluzione creatrice, cit., p. 130.
[18] H. Bergson, Pensiero e Movimento, cit., p. 164.
[19] R. Ronchi, Bergson filosofo dell’interpretazione, Marietti, Genova 1990, p. 131.
[20] M. Merleau-Ponty, Divenire di Bergson, in Segni (1960), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1967, p. 242.
[21] H. Bergson, L’evoluzione creatrice, cit., p.24.
[22] M. Merleau-Ponty, Linguaggio, storia, natura. Corsi al Collège de France, 1952-1961, tr. it. Bompiani, Milano 1995, p. 82.
[23] G. Agamben, L’immagine immemoriale, in La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza 2010, p. 344.
[24] H. Bergson, Materia e memoria (1896), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2009, p. 5.
[25] Ibid.
[26] J.-P. Sartre, L’immaginazione (1936), tr. it. Bompiani, Milano 1962, p. 55.
[27] H. Bergson, Materia e memoria, cit., p. 98.
[28] J. Hyppolite, Aspects divers de la mémoire chez Bergson, in Sfumature. Materiali per rileggere Bergson, cit., p. 27.
[29] H. Bergson, Materia e memoria, cit., p. 200.
[30] Ibid.
[31] Così come la definisce A. Robinet in un suo saggio, Che cosa ha veramente detto Merleau-Ponty, tr. it. Ubaldini, Roma 1973, p. 48.
[32] T. F Geraets, Vers une nouvelle philosophie trascendantale, Martinus Nijhoff, La Haye 1971, p. 6.
[33] M. Merleau-Ponty, La filosofia e la sua ombra, in Segni, cit., p. 212.
[34] Id., La struttura del comportamento (1942), tr. it. Mimesis, Milano 2010, p. 237.
[35] Id., Elogio della filosofia (1960), tr. it. Paravia, Torino 1958, p. 74.
[36] Id., È possibile oggi la filosofia? Lezioni al Collège de France 1958-1959 e 1960-1961, tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, pp. 266-267.
[37] M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 141.
[38] Come ebbe a dire Barthes a proposito della storia: «La storia è isterica: essa prende forma solo se la si guarda e per guardarla bisogna esserne esclusi» cfr. R. Barthes, La camera chiara, tr. it. Einaudi, Torino 2003, p. 67.
[39] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it. Bompiani, Milano 20096, p. 536.
[40] Ibid.
[41] Ibid., p. 532.
[42] Ibid., p. 553.
[43] Id., È possibile oggi la filosofia?, cit., p. 189.
[44] Id., Fenomenologia della percezione, cit., p. 538.
[45] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. Longanesi, Milano 20094, Introduzione e § 81.
[46] È ciò che segnala con acutezza Ronchi, op. cit., p. 132.
[47] H. Bergson, L’evoluzione creatrice, cit., p. 19.
[48] R. Ronchi, op. cit., p. 158.
[49] M. Merleau-Ponty, Divenire di Bergson, cit., p. 242.
[50] Id., Il visibile e l’invisibile, cit., p. 300.
[51] Id., Fenomenologia della percezione, cit., p. 471.