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La vita è una cosa complessa e per capire come funziona occorre armarsi di molta fantasia. Virtù che a Davide Marocco, docente presso l’Università di Plymouth (UK) e tra i più apprezzati ricercatori europei nel campo dei modelli artificiali di cognizione, della robotica evolutiva e dei sistemi adattivi, non manca. «Ogni sistema vivente – dice – è un sistema dotato di intelligenza». Il che conduce inevitabilmente a domandarsi se ogni sistema dotato di intelligenza sia a sua volta un sistema vivente. «Beh, in un certo senso è così. I principi basilari della vita, che sia naturale o artificiale, che si parli di un gatto o che si parli di un robottino costruito in laboratorio, tendono a essere assimilabili».
Messa definitivamente in cantina l’idea di poter comprendere i meccanismi del pensiero equiparandolo, sic et simpliciter, al lavoro logico-computazionale di un avanzatissimo computer, la psicologia parte oggi dall’assunto per cui non può esistere alcuna mente senza un corpo. «Si è compreso che anche le funzioni più complesse della mente costituiscono un’emergenza da forme di organizzazione più semplici». L’evoluzione darwiniana, in fondo, insegna proprio questo: si procede dal semplice al complesso. Ma si badi, senza che tra il semplice e il complesso vi sia alcun rapporto di causa ed effetto. L’evoluzione non è mica il progresso! La vita emerge sì dalla materia inanimata ma questo non era il suo destino; la raffinatissima mente del sapiens emerge sì dalla vita ma non per una sua stringente necessità. È che forme organiche di un certo tipo possono sviluppare strutture cerebrali e mentali conseguenti e, viceversa, certi strutture cerebrali e mentali possono a loro volta favorire l’evoluzione in un senso piuttosto che in un altro di certe forme organiche. «La mente nasce dalla carne», suggerisce Marocco, e le fattezze della carne non sono certo indifferenti dalle prestazioni della mente in esso incarnata.
Ogni riferimento a Merleau-Ponty non è affatto puramente casuale.
Cristian_Fuschetto (C_F_) Hai scritto un libro intitolato Il corpo ritrovato. Chi s’è l’era perso?
Davide_Marocco (D_M_) Beh, tanto per cominciare la psicologia. C’è un libro molto bello di Josh Bongard e Rolf Pfeifer, How the body shapes the way we think: a new view of intelligence, che spiega molto bene come il nostro corpo sia molto più che uno strumento al servizio del cervello. Già il fatto di pensare separatamente queste due dimensioni è di per sé fuorviante. Per questo mi sono interessato al recupero del corpo, alla corporeità. L’idea è di incrociare la dimensione mentale e quella corporea per poter avere una migliore conoscenza di entrambe.
C_F_ È azzardato dire che noi pensiamo con il corpo?
D_M_ Assolutamente no. È per questo che attualmente l’intelligenza artificiale prende in considerazione l’embodiment. Per molto tempo si è perso di vista una cosa che col senno di poi sembra anche piuttosto banale, e cioè che il cervello non serve a cose astratte ma serve innanzitutto a un determinato corpo per muoversi e sopravvivere in un determinato ambiente. In questo senso l’intelligenza è una funzionalità del corpo.
C_F_ Se è vero che l’intelligenza è una funzionalità del corpo, sarà pure vero che se riesco a costruire un corpo fatto in un certo modo posso sperare di costruire, per induzione, anche la sua intelligenza.
D_M_ In un certo senso sì. Noi cerchiamo di capire i principi generali con cui costruire un sistema artificiale dotato di tutte le caratteristiche essenziali per poter essere considerato come un sistema intelligente. La prospettiva, rispetto a qualche anno fa, invece di essere normativa è piuttosto sintetica. La premessa di questo approccio sta nella convinzione secondo cui non è possibile determinare a priori che cos’è intelligente e cosa non lo è. Noi partiamo dal basso per poi verificare se effettivamente emergono dei comportamenti che possiamo giudicare intelligenti.
C_F_ Si potrebbe dire che vi interessa la materia grezza in cui il pensiero affonda le radici. Ammesso e non concesso che tra pensiero e materia sussista ancora qualche differenza.
D_M_ Quando maneggiamo certi concetti si tratta di intendersi innanzitutto con le parole. Dal mio punto di vista tra materia e pensiero non sussiste alcuna differenza. Io, come tutti coloro che fanno ricerca nell’ambito dell’Artificial Life, dell’Intelligenza Artificiale e della Robotica Evolutiva, abbraccio un materialismo radicale. A me personalmente basta un rapporto di trasferimento input-output per poter dire di essere di fronte a un comportamento intelligente. Non è affatto necessario che questo input venga elaborato in maniera estremamente complessa.
C_F_ Volendo indicarne soltanto una, qual è secondo te la caratteristica basilare di un comportamento intelligente?
D_M_ L’adattività. Per me questa è la condizione necessaria e sufficiente per poter dire che un sistema presenta un’attività intelligente. Se c’è adattività c’è un barlume di pensiero.
C_F_ Ma, da Darwin in poi, l’adattività è anche il concetto chiave per definire la vita.
D_M_ Tra vita e pensiero intercorrono delle fortissime analogie ed effettivamente uno degli obiettivi del nostro lavoro è quello di inquadrare il concetto di pensiero e quello di vita. Per esempio, quando costruisco un robottino e ne seguo comportamenti, imparo in qualche modo come si muove nel suo ambiente e in questo modo non solo osservo la sua intelligenza ma mi figuro la sua vita. Lui impara a sopravvivere evolvendo in un determinato ambiente.
C_F_ L’evoluzione degli organismi naturali sta sfociando nell’evoluzione degli organismi artificiali?
D_M_ Sicuramente siamo ancora molto lontani dal concetto di vita artificiale nel senso di avere un sistema completamente artificiale che può assumere le caratteristiche della vita. Tuttavia, da un altro punto di vista, il fatto di avere un robot che vive in un ambiente rappresenta un contributo notevole al concetto di vita artificiale. Basta riflettere sul fatto che noi richiediamo a questo sistema di svolgere dei compiti all’interno di un contesto di volta in volta nuovo, assolutamente non predeterminato, così come accade a ogni essere vivente nel suo ambiente. Non bisogna mai sottovalutare che questi compiti vengono svolti anche in modo innovativo rispetto a quello che noi, in un primo momento, possiamo immaginare e il più delle volte in modo variabile a seconda degli organismi artificiali considerati. Inoltre, il modo in cui questi organismi affrontano gli ostacoli e gli impedimenti posti dall’ambiente al raggiungimento dei loro scopi non potrà essere molto diverso da quello che un organismo naturale, per esempio un animale, mette in campo per affrontare e risolvere gli ostacoli e gli impedimenti posti alla sua sopravvivenza nel suo ambiente.
C_F_ Quindi è possibile istituire una analogia tra i meccanismi basilari della vita a artificiale e della vita naturale.
D_M_ Grazie a Darwin, sì.
C_F_ Che c’entra Darwin?
D_M_ Guarda, noi abbiamo un approccio emergentista. Questo vuol dire che partiamo dal presupposto per cui la materia può evolvere da un certo tipo di organizzazione a un altro e che, in questo passaggio, possano emergere delle novità sostanziali riguardo al comportamento dei sistemi chiamati in causa. Il criterio più significativo per la comprensione di questi passaggi è un criterio darwiniano, quello di adattività. E questo vale per i sistemi naturali come per quelli artificiali.
C_F_ Oltre all’adattività c’è qualche altro criterio darwiniano che ispira il vostro lavoro di ricerca?
D_M_ Certo, quello di “caso”. L’evoluzione dei sistemi avviene a-teleologicamente, senza l’imposizione di alcuno scopo. Certo, nei nostri esperimenti predeterminiamo le condizioni ambientali in cui i robot devono trovarsi ma certo non ci mettiamo nella “testa” dei robot. Lasciamo che trovino da soli, di volta in volta, le soluzioni più utili alla loro sopravvivenza. Non imponiamo soluzioni ma lasciamo che le soluzioni emergano di volta in volta dal sistema fisico.
C_F_ Ti sei mai chiesto quale sia stata la scaturigine della vita?
D_M_ Certamente. Me lo sono domandato spesso, ma la mia impostazione rimane sempre molto materialistica.
C_F_ Ecco, a proposito di materialismo, volevo chiederti una cosa. Qui in Italia questa parola è ancora accompagnata da un’aura di negatività. Il materialismo è una dottrina da estremisti o, nel migliore dei casi, da ingenui. Hai anche tu questa impressione?
D_M_ Beh sì. Senza dubbio colgo una grossa differenza tra il modo in cui si parla di certe cose in Inghilterra e di come se ne continua a parlare in Italia. A volte pare che non ci si accorga del fatto che dalle posizioni di un La Mettrie o del Positivismo ottocentesco qualche passo in avanti sia stato fatto. Oggi anche i più agguerriti materialisti sanno che la realtà presenta elementi di complessità sorprendenti e, lo sottolineo, non totalmente prevedibili.
C_F_ Si può quindi parlare di un materialismo adulto?
D_M_ Bello, “materialismo adulto” mi piace. Noi nuovi materialisti, a differenza di chi ci ha preceduto, presentiamo una novità importantissima: non crediamo che la realtà sia deterministica. Io per esempio sono molto critico con chi ha questo tipo di approccio in campo genetico. Alla fine chi impone alla materia dei meccanismi di funzionamento così semplicistici non solo se ne impedisce la comprensione ma dimostra anche una certa arroganza. La materia ha una sua intelligenza e bisognerebbe rispettarla.
C_F_ Riconosco nel tuo discorso una tensione etica.
D_M_ Perché no? Riconoscere nella materia la presenza di diversi livelli e gradi di intelligenza è anche un modo per riconoscere in essa una diversa distribuzione e redistribuzione di livelli di soggettività. È un po’ come la questione del dualismo corpo-mente: si riconosce il massimo di soggettività alla mente per poi inquadrare il corpo alla stregua di un mero oggetto. Il materialismo adulto, per dir così, è un materialismo che non si lascia più incastrare in questi schemi così rigidi ma è disposto ad assecondare, rispettandola, la complessità del reale. In questo senso c’è anche una tensione etica, come negarlo.
C_F_ Quali sono stati e quali sono i filosofi che più ti aiutano nel tuo lavoro?
D_M_ Mi è molto di aiuto Andy Clark ma, più di tutti, mi è servito Merleau-Ponty. Mi hanno aiutato molto le sue riflessioni sulle questioni percettologiche, il modo in cui cerca di spiegare il rapporto con l’ambiente e con il mondo attraverso l’intenzionalità.