S&F_scienzaefilosofia.it

L’intelligenza è evoluzione. Il darwinismo di Dewey

Autore


Massimo Vittorio

Università degli Studi di Catania

insegna Etica Sociale e Sociologia dei Fenomeni Politici all’Università degli Studi di Catania

Indice


  1. Filosofia e scienza, ordine e disordine
  2. Il contributo di Darwin e dell’evoluzionismo
  3. Osservazione ed esperienza
  4. L’evoluzione intelligente: il pensiero carraio

 

↓ download pdf

S&F_n. 05_2011


  1. Filosofia e scienza, ordine e disordine

John Dewey appartiene alla folta schiera di intellettuali che hanno dato il proprio (con)tributo al progresso scientifico, non in quanto scienziato impegnato in prima linea, bensì porgendo

gli onori all’altare della scienza. Se volessimo esser più precisi, Dewey mostra una grande riconoscenza nei confronti del darwinismo, dal momento che

«L’origine delle specie ha introdotto un nuovo modo di pensare al quale sono intimamente legate le trasformazioni sia della moderna logica della conoscenza, che della morale, della politica e della religione»[1].

 

Ciò che Dewey coglie di decisivo nel darwinismo è il metodo suo proprio, cioè evoluzionistico, poiché esso dà conto, meglio di ogni altro metodo, della realtà, della natura e del rapporto uomo-ambiente. La teoria di Darwin ha il merito di introdurre il cambiamento nella comprensione razionale, il mutevole nell’ordine, individuando nell’evoluzione, che è mutamento, una linea di sviluppo razionale o, quantomeno, sensato. Ma ciò che è perfino più significativo è che anche ciò che sfugge alla staticità, alla fissità può avere un suo ordine, una sua linea di progresso. E il progresso scientifico non è che un aspetto di un più ampio processo evolutivo che coinvolge l’umanità nei secoli immediatamente precedenti e seguenti l’epoca galileiana. Esso si iscrive in un quadro di grande mutamento sociale e culturale, una vera rivoluzione nella mentalità degli uomini, che tuttavia la filosofia non riesce a condividere.

Nelle diverse pagine che, in Reconstruction in Philosophy, Dewey dedica a Bacone, definito “il grande precursore dell’età moderna”, si trova lo sviluppo di un tema trattato dallo Statunitense in modo propedeutico: la critica della filosofia. Dewey non rigetta l’intera storia del pensiero, rischiando di cadere in una banale operazione distruttiva; più precisamente, egli sottolinea la non validità dei principali sistemi filosofici del passato per la soluzione dei problemi presenti, del mondo attuale, laddove gli stessi potevano risultare validi e significativi nel loro contesto storico d’origine.

In Intelligence and Morals del 1908, Dewey riprende la critica alla filosofia, puntando alla tradizione greca. Nel riconoscere a Socrate il grande merito di aver “portato la filosofia sulla Terra e dentro l’uomo”, rimprovera ai successori, Platone e Aristotele, di aver compromesso l’idea socratica collocando l’uomo nello stesso mondo in cui la filosofia era stata posta: un mondo al centro di cieli gerarchici situati nella purezza, il più lontano possibile dalla grezza e fangosa Terra[2]. Il punto è che sia la filosofia, sia la scienza, sono nate da un animismo mitologico. Tuttavia, mentre la filosofia è rimasta ancorata al tentativo di identificare l’ordine, la scienza ha assunto gradualmente il compito di ridurre il capriccio dell’irregolarità a connessioni regolari. In questo tentativo, la scienza ha spostato l’interesse della conoscenza dalla conquista di entità assolute o di proprietà definitive ai processi, alle regole che collegano i cambiamenti. In un simile mutamento di prospettiva si comprende il senso del darwinismo di Dewey:

No, la natura non è un ordine immutabile, che svolge sé stessa maestosamente dal filo della legge sotto il controllo di forze deificate. Essa è un ammasso indefinito di mutamenti. Le leggi non sono regolazioni che governano e limitano il cambiamento, bensì formulazioni convenienti di porzioni selezionate di cambiamento connesse nel breve o nel lungo periodo, e poi registrate in forma statistica per l’agevole manipolazione matematica[3].

 

Ora, nella filosofia è rimasta l’idea della conoscenza come contemplazione e l’idea dell’imperfezione del mondo reale, ed è accaduto che dopo Platone e Aristotele,

in particolare col neo-platonismo e Sant’Agostino, queste idee si sono fatte strada nella teologia cristiana; i grandi pensatori scolastici hanno insegnato che il fine dell’uomo era di conoscere l’Essere Vero, che la conoscenza è contemplativa, l’Essere Vero pura Mente Immateriale, e conoscere è Beatitudine e Salvezza. […] Ha anche tramandato a generazioni di pensatori un assioma mai messo in discussione: la conoscenza è intrinsecamente e unicamente contemplazione o visione della realtà, cioè una concezione da spettatori della conoscenza[4].

 

Ma la conoscenza è utilizzo dell’intelligenza in modo critico e operativo, servendosi della memoria e dell’immaginazione per formulare ipotesi, strategie, recuperare tradizioni ed esperienze di successo, per modificarle se opportuno, dando vita a una valutazione dei possibili piani d’azione in relazione ai fattori che caratterizzano la situazione specifica.

Oggi se una persona, un fisico o un chimico, vuole conoscere alcunché, la contemplazione è l’ultima cosa che fa. Non sta a guardare un oggetto, per quanto a lungo e in modo intenso, sperando così di scoprirne la forma stabile e caratteristica. Non si aspetta che un esame siffatto gli riveli alcun segreto. Procede col fare qualcosa, imprimere una qualche energia all’oggetto per vedere come reagisce; lo pone in condizioni insolite per indurvi un cambiamento. […] In breve, il cambiamento non è più considerato la perdita dello stato di grazia, un errore della realtà o un segno dell’imperfezione dell’Essere. La scienza moderna non cerca più una forma o un’essenza stabile dietro ogni processo[5].

 

L’errore non è più Belzebù; al contrario, esso deve acquisire piena cittadinanza ontologica e gnoseologica, poiché è soltanto grazie agli errori che abbiamo una qualche speranza di apprendere e migliorare le nostre conoscenze e le nostre pratiche. Paradossalmente, è l’esistenza degli errori a non rendere vano il tentativo di non ricadervi, dunque di fare il possibile per non ripeterli. Se non fossimo sempre sotto la minaccia dell’errore, non avremmo alcun motivo per affinare, migliorare, ottimizzare, apprendere.

  

  1. Il contributo di Darwin e dell’evoluzionismo

L’affermazione dell’importanza fondamentale, perché letteralmente si tratta delle fondamenta della filosofia di Dewey, dell’indagine aperta all’errore non culmina in alcun eccesso pessimista, né giustificazionista: è soltanto la definizione che Dewey fornisce dell’intelligenza. Egli non esalta il razionalismo, né finisce mai su posizioni scientiste. L’amore per l’assolutismo – a detta di Dewey – si basa sulla negazione dei fatti; più precisamente sul rifiuto di considerare l’esperienza come il banco di prova finale delle asserzioni, degli ideali, dei valori. Con Darwin l’ordo geometricus scompare per far posto all’evoluzionismo: non vi è più la pretesa di riportare tutta la realtà entro gli schemi della ragione ordinante (secondo idee o fini superiori); e non per questo si è tentati dallo scivolare verso gli effluvi di un idealismo romanticheggiante. Adesso l’ordo è il cambiamento; la regola è l’evoluzione; il principio è mutevole; nessuno spazio alla fissità, nessuno sconto alle ipostatizzazioni.

Darwin naturalmente non è il solo, né il primo, ad operare questa rivoluzione intellettuale. L’origine delle specie rappresenta il momento culminante di una rivoluzione che ha avuto inizio con la fisica del Seicento e del Settecento[6].

 

Una rivoluzione, quella darwiniana, che estende la rivoluzione galileiana al campo organico e biologico e, con Dewey, a quello logico e gnoseologico: Darwin ha detto «della specie umana ciò che Galileo aveva detto della terra, “e pur si muove”»[7]. Conseguenza epocale di questo rovesciamento è lo spostamento epistemologico: la conoscenza non è acquisizione di dati ultimi, di verità definitive; bensì, è possesso di strumenti di controllo, di metodi e criteri di adattamento, di verifica. Se la legge di riferimento è l’evoluzione, nessuna meta potrà essere considerata finale, il raggiungimento di un ultimo stadio. Ogni fase è una tappa intermedia, tra ciò che la precede e ciò che la segue. La conoscenza slitta su posizioni dinamiche. L’evoluzionismo modifica il punto della nostra conoscenza, non la quantità, né la dose di certezza. La vera conoscenza riguarda il processo, le dinamiche, non le presunte essenze.

Darwin dà un colpo definitivo al principio centrale della gnoseologia tradizionale: dal momento che non c’è alcuna realtà che si sottragga alla legge del mutamento, cade la distinzione tra esperienza sensoriale, come conoscenza delle cose che si trasformano, e perciò imperfetta ed inferiore, e scienza, come conoscenza razionale, certa, definitiva, del regno dell’immutabile[8].

 

Quest’ultimo passaggio richiede un chiarimento. Non solo la “conoscenza delle cose che si trasformano” non è conoscenza di tipo inferiore; ma la proprietà della certezza non resta appannaggio esclusivo del “regno dell’immutabile”. Vi può essere conoscenza del mutevole che sia al tempo stesso certa, senza dover essere definitiva. Il fatto di aver saputo dalle previsioni meteorologiche che domani pioverà è una conoscenza certa, poiché sono certo di questo fatto e certamente lo conosco; ma questa conoscenza non è definitiva, poiché il fatto che io sia certamente a conoscenza di quelle previsioni e che, in funzione delle stesse, organizzi i miei spostamenti in un modo anziché in un altro, non esclude definitivamente la possibilità di una giornata soleggiata, rendendo inutile la presenza dell’ombrello nella mia borsa e, infine, inducendomi a modificare ulteriormente i miei piani (piani d’azione, per dirla con Dewey). Avevo una conoscenza certa che sarebbe potuto piovere e ora ho una conoscenza certa di quanto sia inappropriato il mio impermeabile; nessuna delle due evidentemente poteva considerarsi definitiva. Così accade per tutta la conoscenza: la fisica aristotelica, la cosmologia tolemaica, la meccanica newtoniana sono lì a dimostrarlo. L’esigenza naturale di ordinare, schematizzare, sintetizzare non deve ergersi a pretesa onnicomprensiva. Abbiamo bisogno di mappe, di guide, di manuali, di fari, di segnaletica, di bussole e sestanti; ma noi interveniamo sulle mappe, le leggiamo, le interpretiamo e scegliamo il viaggio da compiere. Confondere la mappa con il territorio, con il viaggio reale, può condurre all’immobilismo fantasticheggiante o all’incidente disastroso. Date la meta e la rotta, dobbiamo essere capaci di modificarle entrambe, se le condizioni “meteorologiche” mutano. Un comportamento intelligente è un comportamento aperto, pronto al cambiamento, capace di adattarsi alla nuova situazione. L’intelligenza permise a Einstein di comprendere che «finché le leggi della matematica si riferiscono alla realtà, non sono certe, e finché sono certe, non si riferiscono alla realtà»[9].

 

 

  1. Osservazione ed esperienza

Ecco un esempio di come le condizioni dell’osservazione modificano ciò che conosciamo: a sinistra un cinquefoglie (in alto) e un geranio (in basso) alla luce visibile (percezione umana); a destra gli stessi fiori alla luce ultravioletta (la percezione dell’ape).

La conoscenza è aperta se è ancorata all’esperienza e alla capacità che ha il soggetto di percepire un dato evento o di osservare una specifica situazione. Non si può avere conoscenza senza esperienza, perché l’esperienza medesima modifica la conoscenza e il processo del conoscere. La conoscenza del calore del fuoco o del bruciore di una fiamma avviene nell’istante successivo all’esperienza del calore o del bruciore. L’osservazione riveste una parte decisiva nella conoscenza intelligente. Beninteso, oltre all’osservazione, noi siamo immersi nell’esperienza conoscitiva con tutto il nostro organismo, con tutti i nostri organi di senso, con tutta la nostra capacità percettiva, con la nostra capacità di rielaborare ciò che è stato percepito, di comprenderlo, di ricordarlo. Anzi, la vera esperienza è l’esperienza conoscitiva, in cui entrano anche la memoria e l’immaginazione.

Da Dewey ereditiamo l’idea secondo cui quando tocchiamo un corpo, quel corpo reagisce. L’osservatore è parte di ciò che è osservato; l’osservazione modifica ciò che si osserva; le condizioni dell’osservazione influenzano ciò che si conosce. Gli atti conoscitivi sono operazioni che modificano, trasformano e manipolano in qualche modo gli oggetti conosciuti. Alcaro, seppur ragionando sul principio di indeterminazione, delinea alcune implicazioni filosofiche rilevanti che valgono come “istruzioni per l’uso” dell’intelligenza; egli afferma:

1) che gli atti conoscitivi sono operazioni che modificano, trasformano e manipolano in qualche modo gli oggetti conosciuti; 2) che “l’osservazione gioca una parte necessaria in ciò che si conosce”, cioè è “un coefficiente” di ciò che viene conosciuto; 3) che una descrizione esatta della realtà e “un’anticipazione matematica” del futuro non sono possibili; 4) che “la ricerca della certezza per mezzo del completo possesso mentale di una realtà immutabile” deve essere sostituita “dalla ricerca della sicurezza per mezzo di un controllo attivo del corso mutevole degli eventi”[10].

 

La situazione influenza l’osservazione e, così, la mia conoscenza. Una cosa è la mappa; ben altra il territorio. Il mondo come lo conosciamo è il nostro mondo, come noi lo costruiamo. E la costruzione dipende dalla situazione, cioè da come e da dove siamo situati. Noi siamo dove siamo cresciuti, gli incontri fatti e quelli evitati, i libri letti e quelli solo comprati, le idee sostenute e quelle accantonate, i pensieri notturni e i sogni diurni. Noi siamo la nostra storia. Ma siamo anche la nostra geografia, come spiega bene il ligure Calvino:

È chiaro che per descrivere la forma del mondo la prima cosa è fissare in quale posizione mi trovo, non dico il posto ma il modo in cui mi trovo orientato, perché il mondo di cui sto parlando ha questo di diverso da altri possibili mondi, che uno sa sempre dove sono il levante e il ponente[11].

 

Quella mostra, quella cena, quell’incontro, quella serata, quel viaggio, inclusi tutti i possibili ricordi che se ne serbano in tutte le possibili età dell’esistenza, sono esperienze tecnicamente incomunicabili, per le quali non è data una possibilità di conoscenza ultima e definitiva. Già ora, mentre ne parlo, mentre la rammento, mentre la racconto, mentre rido o piango pensandovi, continuo a modificarne la conoscenza e il nuovo ricordo che ne sarà. Nessun rimpianto, nessuno sconto alla memoria: l’eternità non è un tempo che s’arresta; è un tempo che non si ferma mai. Voler credere nell’eternità di un momento fermo, di un istante che non procede, di un orologio che non marcia, è una dolce concessione all’umanità. Ma un battito di ciglia ed è già nostalgia.

Questa prospettiva dinamica, agli occhi di Dewey, trova nell’evoluzionismo una formulazione assai soddisfacente. L’intelligenza non è un’essenza metafisica, né un valore meta-etico, né una categoria meta-storica, né una facoltà. L’intelligenza si muove nella storia e ne subisce essa stessa lo sviluppo, seguendo il percorso dell’evoluzione. Tuttavia, l’intelligenza è in grado di operare nel mondo e sul mondo, sull’ambiente circostante, sulla natura. Certamente essa non è ancora in grado di prevedere le tappe dell’evoluzione, ma è in grado di modificare un’attitudine per assecondare i cambiamenti e rispondervi al meglio. Cioè,

si deve aggiungere che l’intelligenza umana, proprio per questo, non può essere vista come un qualcosa di esterno alla natura, ma necessariamente come un fenomeno naturale che interagisce con gli altri oggetti, come il mezzo che viene adoperato per cercare di guidare il corso dei mutamenti della natura[12].

 

Oltre l’intelligenza, tutta la conoscenza si staglia su uno sfondo di cambiamento, di progresso. Quest’ultimo termine implica una valutazione neutrale: progresso non è sinonimo di miglioramento, come non lo sono i termini “sviluppo” o “avanzamento”. Progredire significa muoversi in avanti, spostarsi verso una nuova casella; ma la nuova posizione acquisita non garantisce necessariamente condizioni migliori. L’intelligenza è lo strumento attraverso cui l’uomo cerca di ottenere un adattamento positivo, favorevole, ai cambiamenti. L’evoluzione presenta il conto, mostrando “a cose fatte”, cioè a cambiamenti avvenuti, se il tentativo ha avuto successo. L’accomodamento alla nuova situazione può rivelarsi un insuccesso; ma ignorare l’esperienza affidandosi a un mondo di idee pure certamente lo sarà: storicamente «il disprezzo dell’esperienza è stato vendicato dall’esperienza: ha coltivato il disinteresse per i fatti, e questo  è stato pagato con sconfitte, dolori e guerre»[13].

  

  1. L’evoluzione intelligente: il pensiero carraio

Dunque, la conoscenza, la morale, la scienza, l’economia, la tecnica, sono tutte soggette all’evoluzione intelligente.

Dewey, intesa la storia delle idee non già come la caratterizzazione delle eterne strutture dello spirito, o dell’atto pensante, ma come un’attività umana mirante a costruire un mondo dell’uomo “per” l’uomo, e a decifrare quei problemi che l’individuo incontra nella sua quotidiana esistenza, afferma, contro le “anime belle” che si rifugiano nell’imperturbabile disimpegno della contemplazione, che il sapere filosofico non può più porsi a garanzia di atemporali paradigmi normativi[14].

 

Conoscere è un attivo interpretare, dare senso agli eventi in cui ci imbattiamo. Nell’ottica deweyana, la conoscenza non è essenzialmente diversa dalla morale: anche quest’ultima, come la prima, è il tentativo umano di rispondere a dei cambiamenti nel mondo circostante o, per essere più precisi, a dei cambiamenti nella struttura relazionale che vincola il sé al mondo:

Quello che a livello biologico elementare è il comportamento dell’organismo, il quale, stimolato da una rottura dell’equilibrio con l’ambiente, tenta di reintegrare l’armonia con il mondo che lo circonda, si traduce, nell’uomo, in una funzione teleologica volta a riordinare, attraverso le costruzioni simboliche e operative dell’intelligenza, le situazioni divenute precarie e instabili e trasformarle in situazioni nuove e diverse[15].

 

L’operatività, sulla quale Dewey fornisce molteplici occasioni di riflessione, dovrebbe essere la cifra del modus operandi umano. Ciò implica, altresì, l’idea deweyana di una pigrizia cognitiva o di un “sonnambulismo intellettuale”, secondo cui l’uomo è indolente nella gran parte dell’attività quotidiana, poiché il pensiero si riattiva solo nelle situazioni problematiche:

Il pensiero ha origine nell’esperienza di conflitti specifici che suscitano perplessità e turbamento. Allo stato naturale, gli uomini non pensano se non hanno problemi da affrontare, difficoltà da superare. Una vita di agio, di facili successi, sarebbe spensierata così come una vita di onnipotenza immediata[16].

 

Pensieri e azioni, valori e idee vengono ereditate dalle realtà sociali in cui cresciamo: famiglia, scuola, chiesa, partito politico, gruppo scout, gruppi di lavoro e di leisure e quant’altro sono gli attori di quel lungo e complesso processo di apprendimento che è detto socializzazione. Senza di essa saremmo disorientati, gettati su un pianeta sconosciuto, l’esistenza, senza conoscerne proprietà, pericoli, vantaggi. Dunque, ancora una volta, abbiamo bisogno delle mappe, delle guide, delle bussole. Abbiamo bisogno di sapere dove ci troviamo, per poter stabilire dove andare e come andarci. Ma guai a confondere la mappa per il territorio che rappresenta, le fotografie per la visita reale della città (come spiegava Bergson). Sulla mappa ciascuno segnerà il viaggio che vorrà affrontare, in un modo unico e specifico. Iniziare a viaggiare significa sporcarsi i piedi, calpestare terreni fangosi o argillosi, irti, stancarsi, essere soggetto alle intemperie. Nella mappa tutto questo non c’è. Noi ereditiamo le mappe e dobbiamo essere grati a chi, prima di noi, le ha realizzate e ce le ha lasciate in dono. Ma le mappe possono rivelarsi inesatte e incomplete. E, in ogni caso, sono soggette alla nostra personalizzazione, alla nostra interpretazione. Su un mappamondo ciascuno di noi segnerà le proprie mete preferite e sceglierà le tappe intermedie, indicando i mezzi di trasporto prediletti, la durata del soggiorno, le escursioni, le visite di musei o monumenti, il cibo da gustare. Sulla mappa ciascuno di noi segnerà il proprio, unico, specifico viaggio. Nella tradizione ci inseriamo noi, con le nostre preferenze, con le nostre scelte, con i nostri desideri. La distinzione tra valori e valorazioni, tanto cara a Piovani, suggerisce che i valori e gli ideali ereditati, come le mappe, servono a poco se non vengono animati dagli individui nelle loro specifiche esistenze. Restano muti, incompresi, vuoti e noi ci riduciamo a meno che epigoni. La tradizione, la conoscenza, la morale vengono ereditate per essere riempite di esistenza, di vita.

Indossare delle nuove lenti rende possibile ridefinire la tradizione e la conoscenza, ma non ne cancella i presupposti, né i contenuti. Ciò che conta sul piano logico e gnoseologico non è l’acquisizione di conoscenza certa e definitiva, bensì la modalità con cui ci orientiamo nel mondo. E orientarsi significa reagire ai cambiamenti del territorio su cui ci muoviamo, interpretandolo, dando un senso alle nostre percezioni, producendo analisi, formulando ipotesi, compiendo azioni in risposta al cambiamento percepito, comparandole con le nostre precedenti e con le altrui, e infine essendo pronti a rivedere idee e progetti se necessario. Per Dewey le forme logiche non rispecchiano, né discendono da un’Idea o da un aprioristico mondo delle Idee:

Noi sappiamo che alcuni metodi di indagine sono migliori di altri proprio nello stesso modo in cui sappiamo che alcuni metodi di chirurgia, di agricoltura, di costruzione, di navigazione e quant’altro sono migliori di altri. Non ne segue, in nessuno di questi casi, che i metodi “migliori” sono idealmente perfetti, o che essi sono regolativi o “normativi” a causa di una conformità ad una qualche forma assoluta. Essi sono metodi che l’esperienza presente mostra come i migliori metodi disponibili per acquisire risultati certi, mentre l’astrazione di questi metodi fornisce una (relativa) norma o standard per ulteriori attività[17].

      

Se il riferimento unico è l’evoluzione, il cambiamento, e se l’unico modo per adattarsi al cambiamento è un’operatività intelligente, allora il modello da adottare è il “migliorismo”: contro i limiti del pessimismo, che narcotizza e immobilizza, e contro l’ottimismo che rende scarsamente operativi credendo che la situazione potrà solo migliorare, il migliorismo di Dewey

crede invece che le condizioni specifiche esistenti in un determinato momento, siano esse comparativamente buone o cattive, si possono comunque migliorare. Incoraggia l’intelligenza a studiare i mezzi positivi che conducono al bene e gli ostacoli alla loro realizzazione, e ad adoperarsi per migliorare le condizioni[18].

 

Il richiamo alla mutata concezione dell’intelligenza, all’individuo, alla scienza come sperimentazione, all’industria come industriosità, al valore dell’ideale e della libera capacità di produrre ideali, determina la seconda indicazione, di valenza morale e spirituale, quasi un manifesto dello spirito libero e dell’apertura mentale:

È possibile essere a un tempo gioiosi e seri, e questo definisce l’ideale condizione della mente. L’assenza di dogmatismo e di pregiudizi, la presenza di curiosità e flessibilità intellettuale sono manifeste nel libero gioco della mente su un argomento. […] Gioco della mente significa apertura mentale, fede nella capacità del pensiero di preservare la propria integrità senza puntelli esterni o restrizioni arbitrarie[19].

 

Insomma, leggere Dewey, non solo questo Dewey, richiede una sincera open-mindedness ed equivale a ricevere un invito: l’invito a essere possessori di quello che potrebbe definirsi un “pensiero carraio”, perché nessun dogma o pregiudizio possa ostacolarne il libero movimento. L’intelligenza è evoluzione: in tutti i sensi, la sosta è vietata.

 


[1]   M. Alcaro, La riflessione di Dewey sulla scienza, in P. Colonnello - G. Spadafora (a cura di), Croce e Dewey. Cinquanta anni dopo, Bibliopolis, Napoli 2002, p. 201.

[2] Cfr. J. Dewey, Intelligence and Morals, (1908) M4:34. Le citazioni di Dewey seguono lo standard internazionale, essendo tratte da J. A. Boydston (a cura di), The Collected Works, Southern Illinois University Press, Carbondale 1969-1991, delle quali si indica la sezione (E per Early Works, M per Middle Works, L per Later Works), seguita dal volume e dalla pagina.

[3] Ibid., p. 47.

[4] Id., Reconstruction in Philosophy, (1920) M12:144-145.

[5] Ibid.

[6] M. Alcaro, op. cit., p. 202.

[7] J. Dewey, The Influence of Darwinism on Philosophy, (1910) M4:8.

[8] M. Alcaro, op. cit., p. 201.

[9] A. Einstein, Sidelights on Relativity (1922), Kessinger, Whitefish 2004, p. 12.

[10] M. Alcaro, op. cit., p. 210.

[11] I. Calvino, Dall’opaco (1971), in Romanzi e racconti, vol. 3, Mondadori, Milano 1994, p. 91.

[12] M. Alcaro, op. cit., p. 211.

[13] J. Dewey, Reconstruction in Philosophy, (1920) M12:135.

[14] P. Beraldi, John Dewey. Ragione filosofica e storicità dell’uomo, Laterza, Bari 2007, p. 7.

[15] Ibid., pp. 29-30.

[16] J. Dewey, Reconstruction in Philosophy, (1920) M12:159-160.

[17]  Id., Logic: The Theory of Inquiry, (1938) L12:108. Questo tema è presente anche in Experience and Nature, spec. il cap. V, “Nature, Communication, and Meaning”.

[18] Id., Reconstruction in Philosophy, (1920) M12:181-182.

[19] Id., How We Think, (1910) M6:351.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *