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Le relazioni pericolose. Fraintendimenti, beffe e falsi tra scienze e humanities

Autore


Francesca Romana Capone

Università di Torino e Università di Roma Tor Vergata

è dottoranda in Culture classiche e moderne presso l’Università di Torino e collabora con il dipartimento di Matematica dell’Università di Roma Tor Vergata. Si interessa dei rapporti tra pensiero scientifico e discipline umanistiche, soprattutto nel XIX e XX secolo

Indice


  1. Premessa
  2. «Che Dio lo perdoni»
  3. La catastrofe del cielo blu
  4. Ermeneutica trasformativa della gravità quantistica
  5. Conclusioni provvisorie (su gravi patologie)
  6. Appendice: i gemelli Bogdanov e il professor Stronzo Bestiale

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S&F_n. 10_2013

Abstract


This paper is a contribution to the debate about value of research attempts aimed at reinstating a fertile dialogue between science and humanities. Indeed, the complex relationships between the “two cultures” in the past century can be analysed through three relevant examples of the main “pathologies” which affected interdisciplinary studies: Bergson’s interpretation of the Theory of Relativity, Thom’s implementation of Catastrophe Theory on Linguistics, and Sokal’s hoax against a cultural studies journal. Rethink critical issues and underline analogies and differences should help avoiding errors and misunderstandings which may exacerbate the mutual incommunicability. My aim is to highlight the causes of the conflict (misunderstanding, misuses, ideology, and disciplinary interest) and to endorse the desirability of interdisciplinary studies if guided by intellectual honesty.


  1. Premessa

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento i rapidi progressi della scienza avviano quel processo, destinato ad ampliarsi negli anni successivi, di divaricazione tra cultura umanistica e scientifica. Una delle principali caratteristiche delle teorie elaborate soprattutto dalla fisica in questo periodo è la perdita dell’intuitività dei concetti (basti pensare alla relatività e alla teoria dei quanti, ma anche allo stesso elettromagnetismo), che rende sempre più difficile per la società e per gli intellettuali di estrazione umanistica, la comprensione immediata della scienza. Tuttavia, a questa astrazione concettuale si accompagna una grande efficacia pratica, che si traduce in un’accelerazione nel progresso tecnologico raramente sperimentata nella storia. Si definisce quindi una situazione di disequilibrio: a una scarsa comprensione reciproca, fa da contraltare il riconoscimento dell’autorità della scienza (quasi un ritorno a certo aristotelismo) che si rinuncia, però, a comprendere.

Se questo è il quadro generale entro il quale ancora ci muoviamo, è possibile riconoscere alcune tappe che hanno determinato slittamenti nei rapporti tra le “due culture”. Senza alcuna pretesa di esaustività, tenterò di fermare alcuni momenti utili a riflettere sulla situazione attuale e sulla possibilità di ricreare relazioni serie tra gli ambiti del sapere. Sono tre, in particolare gli episodi isolati entro un ambito di un secolo circa: l’interpretazione della relatività ristretta da parte di Bergson; l’applicazione alla linguistica della teoria delle catastrofi di Thom; la “beffa” di Sokal. Si tratta, com’è chiaro, di momenti il cui peso culturale ed epistemologico è difficilmente paragonabile; essi sono tuttavia emblematici delle distorsioni cui i rapporti tra scienza e cultura umanistica sono andati incontro.

 

  1. «Che Dio lo perdoni»

Secondo l’autorevole biografia di Pais, l’unico commento di Einstein al volume di Bergson Durata e simultaneità fu: «Dio lo perdoni»[1]. Che i contenuti del saggio fossero scientificamente imbarazzanti se ne resero conto anche i curatori delle opere del filosofo, che lo espunsero dall’edizione completa del 1970. Eppure questo tentativo ha un indubbio valore di testimonianza storica, soprattutto perché si pone in quel momento di snodo dei primi decenni del Novecento in cui la fisica si riconfigura attorno a teorie innovative e fortemente controintuitive come, appunto, la relatività e la meccanica quantistica.

Bergson, la cui riflessione sul tempo si dispiega e trova una sua definizione nella “durata” proprio in quegli anni, si avventura nella critica alla teoria scientifica di punta sua contemporanea e lo fa utilizzando (o cercando di utilizzare) lo stesso linguaggio matematico sviluppato nel testo di Einstein del 1916 La relatività: esposizione divulgativa. Il principale fraintendimento bergsoniano è di tipo “linguistico”: egli non è più in grado di penetrare il significato preciso dell’argomentazione matematica e fisica, ma ne tenta una forzatura entro il proprio schema filosofico, con il doppio obiettivo di “appropriarsi” di una teoria potente e di legittimare scientificamente la propria filosofia.

Già nel celebre dibattito del 6 aprile 1922 presso la Société française de Philosophie Bergson affermava:

Il senso comune crede a un tempo unico, lo stesso per tutti gli esseri e per tutte le cose. (…) Ma si tratta di un’ipotesi che credo fondata, e che, a mio avviso, non ha niente di incompatibile con la teoria della relatività. (…) Bisognerebbe in seguito prendere uno a uno i termini che entrano nelle formule di Lorentz e cercarne il significato concreto. Si troverebbe così che i tempi multipli trattati nella teoria della relatività sono lontani dal poter pretendere tutti lo stesso grado di realtà. Nella misura in cui questo studio avanzasse, si vedrebbe come la concezione relativista che corrisponde al punto di vista della scienza, e la concezione del senso comune, che traduce all’incirca i dati dell’intuizione o della coscienza, si completano e si prestano un mutuo appoggio[2].

 

Quello qui accennato è il programma che verrà svolto in Durata e simultaneità e che mira a presentare alcune conseguenze della relatività einsteniana quali meri “effetti psicologici”. Nella stessa occasione, dopo una veloce analisi dei problemi legati alla simultaneità, Bergson conclude:

(…) una volta ammessa la teoria della relatività in quanto teoria fisica, non è finito tutto. Resta da determinare il significato filosofico dei concetti che essa introduce. Resta da cercare fino a qual punto essa rinuncia all’intuizione, fino a qual punto essa vi rimane attaccata. (…) Facendo questo lavoro per ciò che concerne il Tempo, si percepirà, credo, che la teoria della relatività non ha niente di incompatibile con le idee del senso comune[3].

 

Si chiarisce qui l’obiettivo bergsoniano: confinare la teoria fisica all’analisi scientifica emancipando, invece, la lettura filosofica del tempo quale approfondimento della percezione del senso comune dato nell’intuizione. La relatività dovrà allora mostrarsi compatibile con questa intuizione affinché la sua portata scientifica non ostacoli, ma anzi rafforzi, l’approccio filosofico. A questi primi accenni, Einstein reagisce energicamente affermando tra l’altro:

(…) niente nella nostra coscienza ci permette di concludere per la simultaneità degli eventi, perché essi sono solo costruzioni mentali, esseri logici. Non c’è dunque un tempo dei filosofi; c’è soltanto un tempo psicologico differente dal tempo del fisico[4].

 

È significativo che il dibattito tra Bergson e Einstein e, in generale, i fisici vicini alla relatività si sia concentrato sulla legittimità o meno per il filosofo di affrontare con i propri strumenti il concetto di tempo. Se, in linea generale, si può concordare con l’idea bergsoniana di un approccio eminentemente filosofico al tempo, è però il suo tentativo di criticare la teoria sul piano matematico a innescare l’opposizione da parte della comunità dei fisici. Se Bergson avesse affrontato esclusivamente le conseguenze filosofiche ed epistemologiche della relatività, il dibattito non sarebbe stato così crudo. Poiché, però, egli vuole prima analizzarne l’oggettività (ed è proprio in questo tentativo che cade in errori non emendabili), il fisico è legittimato a difendere e chiarire la struttura matematica del discorso.

Qualche esempio tratto da Durata e simultaneità basterà a chiarire questo punto. Bergson si sofferma a lungo sul cosiddetto “paradosso dei gemelli” e così sintetizza le proprie conclusioni in merito:

Riassumendo, dunque, mentre il tempo attribuito da Pietro al proprio sistema è il tempo da lui vissuto, il tempo che Pietro attribuisce al sistema di Paolo non è né il tempo vissuto da Pietro né il tempo vissuto da Paolo, né un tempo che Pietro possa concepire in quanto vissuto o in grado di essere vissuto da Paolo in quanto vivente e cosciente. Che cos’è dunque, se non una semplice espressione matematica destinata a indicare che è il sistema di Pietro, e non il sistema di Paolo, a essere considerato quale sistema di riferimento?

Io sono un pittore e devo rappresentare due persone, Giovanni e Giacomo, una delle quali è accanto a me mentre l’altra si trova a due o trecento metri di distanza. Disegnerò il primo a grandezza naturale e ridurrò il secondo alle dimensioni di un nano. Un mio collega, che si trovasse accanto a Giacomo e che volesse anch’egli dipingere entrambi, farà il contrario di quello che ho fatto io (…) Ma nonostante il fatto che tutti e due abbiamo ragione, si ha forse il diritto di concludere che Giovanni e Giacomo non hanno né una taglia normale né la taglia di un nano, oppure che le hanno tutte e due contemporaneamente, o anche che le cose stanno come meglio ci pare?[5]

 

Per il filosofo, la discrepanza dei tempi di Pietro e Paolo è un mero effetto prospettico che non può e non deve avere conseguenze sull’oggettività degli orologi e sul “tempo unico”. Secondo questa lettura, Pietro e Paolo avranno la stessa età alla fine del viaggio. La conclusione non solo contraddice la teoria einsteniana, ma è anche in disaccordo con le conferme sperimentali che di essa si sono avute in un momento successivo. Ovviamente non si può criticare Bergson per non aver anticipato tali evidenze, tuttavia la sua spiegazione contiene alcuni errori che meritano di essere segnalati. Soffermandosi sull’esperimento mentale dei gemelli nella sua variante della “palla di cannone” e ipotizzando che Paolo si trovi sulla palla e Pietro sulla Terra, Bergson individua una perfetta simmetria tra i tempi dei due:

Tutto ciò che abbiamo detto a riguardo di Pietro deve essere ora ripetuto per il caso di Paolo, perché il movimento è reciproco e le due persone sono dunque intercambiabili. (…) Pietro e Paolo, la Terra e la palla di cannone avranno vissuto la medesima durata e saranno invecchiati in uguale misura[6].

 

Ora, questa simmetria non esiste poiché la relatività postula l’equivalenza delle leggi fisiche tra sistemi di riferimento inerziali e, nell’esempio bergsoniano, quello di Paolo non lo è. Il moto della palla di cannone subisce infatti tre accelerazioni (o decelerazioni): alla partenza, all’inversione di rotta e, infine, all’arrivo. Niente di tutto ciò succede alla Terra, la quale prosegue nel suo moto approssimativamente uniforme. La distinzione che Bergson opera tra un tempo unico della coscienza e i tempi multipli della fisica viene a cadere: la ridotta velocità del tempo per Paolo non è un artificio del pensiero, ma un’affermazione effettivamente verificata attraverso esperimenti su particelle subatomiche.

È sorprendente che tutt’oggi si voglia difendere il lavoro di Bergson sorvolando sugli errori nella comprensione della teoria fisica. Nell’introduzione all’edizione del 2004 di Durata e simultaneità il curatore, Fabio Polidori, argomenta che, nella visione del filosofo, la durata è tempo insieme quantitativo e qualitativo. Mette in guardia Polidori:

Se, però, dopo aver rilevato la concreta quantità della durata sostenessimo che abbiamo misurato la durata commetteremmo un errore; non un errore scientifico, perché la misura sarebbe esatta, ma un errore di tipo logico, perché sosterremmo di avere misurato una cosa nella sua totalità avendone misurato in realtà un solo aspetto[7].

 

Armato di questa giustificazione (lontana però dall’intento di Bergson di individuare le analogie tra relatività e durata filosofica, più che sottolinearne le divergenze), Polidori non si avvede di contraddire la sua stessa tesi, visto che precedentemente ha sottolineato che il motivo delle reazioni di numerosi fisici è nella “invasione di campo” operata da Bergson appropriandosi della terminologia della teoria einsteniana. La «sentenza critica» di Bergson è «nei confronti della scienza e dal suo interno»[8]. Conclude allora il curatore che «la dimostrazione degli errori di Bergson può anche in parte convincerci che magari in fisica egli qualche pasticcio possa averlo in buona fede commesso»[9], ma che ciò non incide sull’indubbio valore della sua metafisica e delle problematiche che ha sollevato. La bonaria considerazione dei “pasticci” del filosofo impressiona: Durata e simultaneità, come sottolineato più volte dallo stesso Bergson, ha l’obiettivo di determinare il significato filosofico dei concetti introdotti dalla relatività; l’incomprensione di tali concetti non può che inficiarne il valore anche sotto il profilo filosofico.

Senza dubbio la disputa tra Bergson ed Einstein ha influenzato i rapporti tra scienza e filosofia in senso negativo. Da un lato, infatti, Bergson esemplifica l’umanista cui non è più possibile accedere alle teorie della scienza. Dall’altro, gli errori del filosofo alimentano un atteggiamento di chiusura nella comunità dei fisici. La reciproca segregazione tra le aree del sapere ne esce, perciò, rafforzata. Va inoltre sottolineato che la polemica si situa in un momento storico nel quale l’autorità della comunità fisica è in costante ascesa: la teoria della relatività generale ha trovato, nel 1919, una importante conferma sperimentale grazie alla spedizione di Eddington e gli studi sulla meccanica quantistica stanno aprendo un campo inedito al pensiero epistemologico, del quale gli stessi scienziati si sentono portatori. Non a caso, la generazione di fisici e matematici che opera in questi anni ha ampiamente alimentato il dibattito epistemologico; basti citare qui, oltre allo stesso Einstein, i contributi di Poincaré, Planck, Bohr, Heisenberg.

 

  1. La catastrofe del cielo blu

Diverso il caso del matematico René Thom che classificò, attraverso un’estensione della topologia, le possibili singolarità delle varietà differenziabili, proponendosi di costruire un sistema generale della morfogenesi dal nome suggestivo di “teoria delle catastrofi”. Thom considera ogni fenomenologia come caratterizzata da stati di equilibrio il cui raggiungimento passa attraverso singolarità spazio-temporali denominate catastrofi. Ecco come viene descritto il suo sistema nella Storia del pensiero filosofico e scientifico:

Ogni tipo di fenomeno è descrivibile perché dietro l’infinita varietà dei suoi aspetti è rintracciabile una qualche permanenza di forma. (...) La caratteristica principale di una forma è che essa si manifesta grazie ad una serie di discontinuità qualitative nello spazio substrato, che separano degli spazi “regolari” (tali cioè che in un certo intorno U(x) ogni punto y ha la stessa apparenza qualitativa di x). L’insieme di queste discontinuità (che Thom chiama “catastrofi”) descrive la morfologia del sistema e del processo dinamico. Scopo della “teoria delle catastrofi” sarà quindi spiegare la morfogenesi, la dinamica delle forme e la loro permanenza[10].

 

L’aspirazione generale della teoria, secondo la quale la forma prescinde dalla materia, porta Thom a suggerirne l’applicazione a discipline lontane dalla matematica: la biologia, la sociologia, l’arte o, ciò che qui ci interessa, la linguistica. Il tentativo, che si situa a partire dagli anni ’60 del Novecento, è in qualche modo giustificato dalla contemporanea evoluzione della cultura filosofica e critica soprattutto francese che, a partire dagli studi di linguistica, vede l’emergere e l’imporsi dello strutturalismo come schema generale di lettura dei fenomeni culturali. Se, da un lato, la critica e la linguistica strutturaliste considerano il testo e la lingua come insiemi di strutture definite e separabili, dall’altro la teoria matematica delle catastrofi compie un passo analogo sul fronte scientifico.

La teoria di Thom, lungi dal definirsi solo in ambito matematico, è imbevuta di pensiero filosofico. Il modello delle catastrofi riconduce tutti i processi a una fenomenologia basata esclusivamente su uno di essi: «il conflitto, padre, secondo Eraclito, di tutte le cose»[11]. L’assioma di fondo è che l’accordo tra matematica e realtà si definisca in base a un’ipotesi di genericità per cui in ogni circostanza la natura realizza la morfologia locale meno complessa compatibile con le condizioni iniziali[12]. Fin qui ci muoviamo nell’ambito della scienza intesa come indagine della natura fisica e biologica. Pur non essendo scevra di limiti anche in questo ambito[13], i veri problemi sorgono nel momento in cui tale argomentazione pretende di applicarsi a realizzazioni umane quali la lingua e il testo.

In un intervento del 1972, dal titolo Linguaggio e catastrofi: elementi per una semantica topologica[14], Thom – sotto la chiara influenza della linguistica strutturale e generativa – individua una struttura invariante in ogni lingua basata sulla gerarchia frase-parola-sillaba-lettera. Il suo obiettivo è di contribuire all’analisi del linguaggio attraverso il formalismo matematico della teoria delle catastrofi e l’assioma secondo cui la natura opera nei termini della maggiore semplicità. Thom introduce il concetto di “figura regolativa” sostenendo che ogni oggetto, in quanto stabile e perciò percepibile, rappresenta un sistema regolato anche se non sempre deterministico. Passando da casi astratti a situazioni che coinvolgono sistemi viventi, le figure regolative e le catastrofi necessitano di “attanti”. Thom propone quindi una rappresentazione geometrica che consente di identificare le catastrofi mediante punti su un diagramma. Senza addentrarci negli aspetti matematici dell’esposizione, che esulano da questo studio, tentiamo una sintesi dei suoi propositi. Nella forma semantica – sostiene il matematico – bisogna tener conto di due aspetti: la struttura geometrica della figura regolativa e la natura semantica dello spazio substrato sul quale è definita. Il substrato più profondo del campo semantico è lo spazio-tempo comune, cui si sovrappongono spazi di qualità secondaria quali lo spazio delle impressioni dei colori, delle attività umane ecc. Qui Thom compie un passaggio che non appare del tutto giustificato:

Si constata allora un fenomeno molto generale: più il substrato di una forma semantica è “profondo”, cioè si avvicina allo spazio fisico, più la sua figura regolativa è complicata. Al contrario, se lo spazio substrato è di definizione astratta, la figura regolativa è, in generale, semplice[15].

Su questa base, il matematico propone una gerarchia delle categorie grammaticali in «ordine di profondità decrescente»: il nome, l’aggettivo, il verbo, l’avverbio. Tale caratterizzazione serve di base a una teoria della produzione verbale e della ricezione linguistica, sulle quali qui non ci soffermeremo. Il contributo si conclude poi con le possibili applicazioni del modello linguistico, che comprendono la teoria della declinazione, la teoria dell’aspetto verbale e, infine, la teoria della frase predicativa (ossia del verbo essere). È qui che si evidenziano le maggiori forzature operate dal matematico. Vale la pena riportare il brano conclusivo del testo:

In una frase attributiva come “Il cielo è blu” dobbiamo considerare il dispiegamento della catastrofe di Riemann-Hugoniot[16]. L’esplosione del verbo libera due attanti superficiali. In generale, l’uno diviene sostantivo – attratto da un attante profondo – l’altro aggettivo (che resta a un livello più superficiale). Ma questi attanti sono abbandonati, per così dire, a se stessi: il verbo essere è qui una sorta di nulla semantico, l’equivalente dello strato zero nello spazio delle biforcazioni delle funzioni. La realizzazione di un tale strato di codimensione infinita non è alla portata di tutte le lingue. Si noterà che l’aggettivo epiteto “il cielo blu” si può interpretare come la coordinata di un punto S sul cerchio (C) del verbo essere (per esempio, il punto situato sull’asse di simmetria della parabola 4u3 + 27v2 = 0, v = 0, u = k2). All’emissione del sintagma il cielo blu, questo punto è attratto verso l’origine, provocando la dissociazione in due attanti – senza emissione del verbo essere.

Questo modello fornisce ancora una bella interpretazione della confusione degli attanti: in “Il cielo è blu” il cielo si trasforma continuamente in blu finché non ha compiuto il giro del cerchio (C)[17].

 

Se tentiamo, alla luce delle rapide nozioni introdotte precedentemente, di analizzare questo brano, ci troviamo di fronte a insuperabili difficoltà. Non tanto e non solo per “decrittare” il linguaggio di Thom, che fonde, con una certa disinvoltura, gergo tecnico matematico e strumenti della linguistica. Quanto, piuttosto, per penetrare il senso che una simile analisi può avere. Qual è il fondamentale contributo della teoria delle catastrofi alla linguistica nel caso, qui in questione, della “frase predicativa”? Thom non sembra proporsi una lettura esplicativa della forma grammaticale, ma solo una dimostrazione della possibilità di trasferire la teoria a un ambito diverso. È un’inversione non immediatamente evidente ma che, a mio avviso, segnala una delle principali patologie di certi approcci interdisciplinari. Non è, cioè, importante cosa un pensiero sviluppato entro un dato contesto può apportare all’intelligibilità di un altro, ma solo provare che tale pensiero può essere, in ogni caso applicato.

Diverse le motivazioni esposte da Thom, per esempio, nelle conclusioni di un altro scritto: Topologia e linguistica[18]. Qui il matematico avanza l’ipotesi che certe strutture archetipiche quadripartite del linguaggio che avrebbe individuato costituiscano lo specchio dell’esperienza nello spazio-tempo quadridimensionale. Ma è anche ansioso di apparentare le sue tesi a quelle dei linguisti, dimostrando quanto esposto sopra circa la necessità di accreditarsi presso altre comunità disciplinari:

Ne segue che il significato d’una forma C si manifesta solo con le catastrofi in cui essa è creata o distrutta. Si ritrova così l’assioma caro ai linguisti della scuola formalista, secondo il quale il significato di una parola non è nulla di più che l’uso di quella parola. (E anche l’assioma dei fisici detto di Bootstrap, secondo il quale una particella è interamente definita dalla rete di interazioni cui essa partecipa)[19].

 

Sembra insomma di cogliere una forzatura non meno accentuata di quella che abbiamo notato nel caso di Bergson. Con una fondamentale differenza. Mentre il filosofo ha cercato di individuare analogie tra il suo sistema e i concetti scientifici della teoria della relatività, il matematico ha operato in senso inverso, tentando di applicare i metodi scientifici al campo linguistico. In questo caso, cioè, è dall’interno della scienza che si procede a una “appropriazione indebita”. Tuttavia, mentre il saggio di Bergson ha comportato il sollevarsi dell’intera categoria dei fisici, non altrettanto è successo in ambito umanistico di fronte alle idee di Thom. La teoria delle catastrofi, soprattutto negli anni ’60 e ’70, è stata al centro di discussioni che hanno investito molti settori disciplinari e le cui ragioni, nel 1979, Tonietti sintetizzava come una reazione della società «di fronte all’ormai ipertrofica macchina scientifica» [20].

Tonietti stigmatizza cioè la reazione interna alla comunità scientifica, assai più accesa di quella degli umanisti, legandola all’ambizione interdisciplinare di Thom e al suo conseguente rifiuto di una cultura fortemente parcellizzata. A distanza di anni, è oggi possibile offrire una lettura più equilibrata di tale opposizione. Anche volendo ammettere il valore euristico di un approccio qualitativo potenzialmente universale, è doveroso riconoscerne i limiti, come spiega bene Marcello Cini nel 2002:

(...) le premesse filosofiche del programma di Thom erano (...) esplicite e ambiziose. (...)

Sulla base di quelle premesse, infatti, Thom attacca apertamente tutti i paradigmi dominanti in un arco di discipline che vanno dalla biologia alla linguistica, dalla geofisica alla fisica, sollevando reazioni di rigetto da parte delle rispettive comunità, in parte certamente dettate (...) da “meccanismi di difesa messi in opera dalle singole corporazioni disciplinari”, ma anche – oggi possiamo riconoscerlo meglio – dalla presenza di un gap non colmato tra l’enunciazione di principi epistemologici e metodologici generali (...) e la formulazione concreta di nuovi linguaggi adatti per affrontare i problemi specifici dei diversi ambiti di fenomeni[21].

 

L’ambizione di Thom di applicare la teoria delle catastrofi alla scienza come alla cultura fallisce, allora, per la sua incapacità di produrre senso. Incapacità che gli umanisti non sembrano mettere a fuoco perché, a dispetto di quella insofferenza verso l’ipertrofia della scienza segnalata da Tonietti, l’uso di un linguaggio oscuro e contaminato dalla matematica sembra esercitare un fascino di tipo autoritario: è una lingua alla quale si preferisce non rispondere qualora non la si padroneggi. Sul versante opposto, Thom, in maniera più o meno consapevole, si fa forte dell’autorità della scienza per appropriarsi di territori che la teoria non è però in grado di indagare né di spiegare. Si evidenzia, qui, il fondamentale problema che deriva dalla divaricazione tra scienza e cultura e che si nota proprio in quei “settarismi specialistici” che Thom sosteneva di voler superare: l’impossibilità per un letterato o linguista di leggere e comprendere testi relativi ai contemporanei sviluppi della matematica o della fisica si riflette nell’incapacità di muovere una critica circostanziata alle applicazioni della teoria delle catastrofi. Queste tensioni, qui appena abbozzate in una fase di prima emergenza, sono destinate a diventare esplicite nell’episodio che rappresenta la terza tappa del nostro piccolo percorso attraverso le incomprensioni tra scienziati e umanisti.

 

  1. Ermeneutica trasformativa della gravità quantistica

Nel 1996, sulla rivista di studi culturali «Social Text», compare un articolo, a firma del fisico Alan Sokal, dal titolo Trasgredire le frontiere: verso un’ermeneutica trasformativa della gravità quantistica. Il testo, infarcito di terminologia presa a prestito dal ricco vocabolario del postmoderno e appesantito da un corposo apparato di note, si propone – secondo quanto spiegato nell’introduzione – di passare in rassegna le implicazioni ideologiche, filosofiche e politiche degli sviluppi contemporanei della fisica, con particolare attenzione alla gravità quantistica. Sokal sostiene infatti che nel XX secolo è diventato evidente

(…) che la “realtà” fisica, non meno che la “realtà” sociale, è in fin dei conti una costruzione sociale e linguistica; che la “conoscenza” scientifica, lungi dall’essere oggettiva, riflette e codifica le ideologie dominanti e le relazioni di potere tipiche della cultura che l’ha generata; che le pretese di verità della scienza sono intrinsecamente dipendenti dal contesto teorico usato [theory-laden] e quindi autoreferenziali; e che, di conseguenza, le procedure argomentative utilizzate dalla comunità scientifica, pur nel loro innegabile valore, non possono rivendicare una posizione conoscitiva privilegiata rispetto alle narrazioni controegemoniche che vengono prodotte in comunità dissidenti o marginalizzate[22].

 

L’autore si appropria qui di molte formule tipiche del contemporaneo relativismo culturale, che – con un approccio fortemente ideologizzato – pretende di identificare quella scientifica come una tra le “narrazioni” possibili sul mondo. Tale atteggiamento, apparentemente in antitesi con l’autoritarismo sottinteso nei testi di Thom, ne è in realtà figlio, poiché ritiene di ciò che non comprende la sola forma linguistica, con l’intento di replicarne l’efficacia in ambiti differenti. E infatti, proseguendo nella lettura dell’articolo, osserviamo come Sokal misceli sapientemente il linguaggio postmoderno con quello scientifico. Basterà un esempio:

Una caratteristica dell’emergente scienza postmoderna è l’enfasi sulla non linearità e la discontinuità: ciò risulta evidente, ad esempio, in teoria del caos e nella teoria delle transizioni di fase, così come in gravità quantistica. Allo stesso tempo, pensatrici femministe hanno messo in rilievo come risulti necessaria un’analisi adeguata della fluidità, in particolare della fluidità turbolenta. Questi due temi non sono così contraddittori come potrebbe apparire a prima vista: la turbolenza è connessa con severe non linearità, e la regolarità/fluidità viene a volte associata alla discontinuità (per es. in teoria delle catastrofi); in ogni caso una sintesi non sembra essere così irragiungibile[23].

 

Gli editori di «Social Text», evidentemente, non mettono in dubbio la serietà di questo approccio. Almeno finché lo stesso Sokal, immediatamente dopo la pubblicazione, non rivela il suo intento parodico. La rivista «Lingua Franca» ospita infatti, nel numero di maggio-giugno 1996, un articolo dal titolo A Physicist Experiments with Cultural Studies nel quale il fisico svela la beffa e ne spiega le motivazioni. Ne segue una lunga polemica, ripresa anche dalla stampa generalista e riproposta in traduzione in numerosi paesi[24]. Nel breve articolo pubblicato su «Lingua Franca» Sokal denuncia infatti un’intera temperie culturale e ne sbugiarda metodi e contenuti:

L'accettazione da parte di Social Text del mio articolo esemplifica l'arroganza intellettuale di una teoria – la teoria letteraria postmoderna – portata alle sue estreme conseguenze. Non meraviglia che non si siano preoccupati di consultare un fisico. Se tutto è discorso e testo, la conoscenza del mondo reale è superflua; anche la fisica diventa solo un altro ramo degli studi culturali. Se, inoltre, tutto è retorica e “giochi linguistici” la coerenza logica interna è anch’essa superflua: una patina di raffinatezza teorica serve ugualmente bene. L’incomprensibilità diventa una virtù; allusioni, metafore e giochi di parole sostituiscono la prova e la logica. Il mio articolo non è altro che un esempio estremamente modesto di questo genere ben consolidato[25].

 

Sokal si ribella inoltre contro la strumentalizzazione politico-ideologica che caratterizza il relativismo culturale, la pretesa di porsi come lettura alternativa e progressista del mondo contro una visione “egemonica” tipica del potere capitalistico. Il fisico sostiene con forza la possibilità di coniugare una posizione politica di sinistra con la razionalità in grado di discernere i compiti e il valore di ogni disciplina, e fra tutte della scienza[26].

Sulla scia della polemica, Sokal, assieme al collega belga Jean Bricmont, pubblica nel 1997 un libro che, nel giro di pochi anni, viene tradotto e letto in numerose lingue. Impostures Intellectuelles[27] ha l’obiettivo di passare in rassegna i testi dei “maestri” del postmodernismo, dimostrando l’insensatezza di molte delle loro asserzioni sulla scienza. Gli stessi autori citati nell’articolo-beffa sono qui ripresi e analizzati nella concretezza delle loro opere. Al fuoco dei due fisici finiscono mostri sacri quali Lacan, Baudrillard, Deleuze, su su fino a Bergson. Lo sforzo è quello di ristabilire un rapporto corretto tra scienza e filosofia e, in generale, le condizioni che possano rendere effettivamente possibile ed efficace il dialogo tra le “due culture”. Le indicazioni suggerite per un approccio interdisciplinare serio comprendono una conoscenza non superficiale delle materie che vengono affrontate, la chiarezza espositiva e l’elusione dell’ambiguità, la necessità di non isolare metafore tratte dalla scienza al di fuori del loro contesto originale, di non imitare il linguaggio scientifico, di non abusare del principio di autorità.

Anche questo libro, come già il precedente articolo, ha suscitato un ampio dibattito sulla stampa specialistica e generalista. Molte sono, infatti, le dimensioni implicate nel lavoro, tra le quali forse la più impressionante è quella di gridare che il re è nudo. Leggendo Imposture intellettuali, non si può non convenire con la valutazione data da Sokal e Bricmont; tuttavia i testi così accuratamente smontati sono alla base di una fetta consistente della cultura contemporanea. Prendiamo ad esempio il seguente brano di Lacan:

Se mi permettete di usare una delle formule che mi vengono quando scrivo i miei appunti, la vita umana potrebbe essere definita come un calcolo nel quale lo zero sia irrazionale. Questa formula è solo un’immagine, una metafora matematica. Quando dico “irrazionale” non mi riferisco a qualche stato emozionale insondabile ma precisamente a quello che si dice un numero immaginario. Alla radice quadrata di meno uno non corrisponde niente che sia soggetto alla nostra intuizione, niente di reale – nel senso matematico del termine – e ciò nonostante deve essere conservato, con la sua intera funzione[28].

 

Come opportunamente fanno notare Sokal e Bricmont, Lacan confonde qui i numeri irrazionali con quelli immaginari, oltre a cedere alla mera suggestione terminologica nell’opposizione reale-immaginario. Non basta dire che si tratta di una pura immagine metaforica: per conservare la sua efficacia, la metafora deve infatti sostituire un termine con un altro che ne conservi il valore e la funzione, seppur con accento espressivo. Ma se si tralascia il significato del termine sostitutivo, la frase che ne risulta è del tutto priva di senso. È questo un perfetto esempio di quelli che Sokal e Bricmont ritengono “abusi” del linguaggio scientifico, trapiantato a forza in altri campi. Non è possibile, infatti, risalire a un qualunque significato della frase che definisce la vita umana come «calcolo nel quale lo zero sia irrazionale», e ciò perché, in termini matematici, la proposizione non ha alcun senso. Come affermano gli autori in un altro punto del volume, l’opera di “decostruzione” ha l’obiettivo di «dimostrare che, se i testi paiono incomprensibili, è per l’eccellente motivo che non vogliono dire niente»[29].

Una battaglia, quindi, contro l’irrazionalismo della cultura postmoderna che mostra, però, anche una via di critica a testi del passato. Non a caso, tra gli esempi storici, Sokal e Bricmont sottopongono ad analisi proprio Durata e simultaneità di Bergson, e il loro invito non cade nel vuoto se nel 2005 Enrico Bellone dà alle stampe il suo La scienza negata[30]. Pur non citando esplicitamente il precedente, l’intento di Bellone è proprio quello di smascherare le influenze culturali che, nel nostro paese, hanno via via condizionato la politica della scienza, esaltando molte forme di irrazionalismo. Il percorso di Bellone è più ampio in termini spazio-temporali e meno di dettaglio di quello proposto da Sokal e Bricmont poiché lo storico è soprattutto interessato a rintracciare alcune motivazioni alla base del discredito di cui la scienza soffre oggi in Italia. Vi si trovano, tuttavia, considerazioni acute e analoghe a quelle dei due fisici e, in qualche caso, anche una sovrapposizione dei “bersagli” (ad esempio Deleuze e Latour).

Tornando a Imposture intellettuali, possiamo allora affermare che si tratta di un’operazione riuscita di “pulizia epistemologica”? In parte sicuramente sì, poiché affronta con nettezza il problema e chiarisce sin dall’inizio l’intento non puramente critico verso l’interdisciplinarietà, ma volto a determinare relazioni e confini più definiti nei transiti attraverso i diversi campi del sapere. Ma c’è un ma. Non vogliamo qui soffermarci sulle numerose critiche mosse al saggio, peraltro facilmente consultabili in rete[31], che si concentrano soprattutto sul ruolo della filosofia nei confronti della scienza[32]. Ci preme invece far notare che, dalla rassegna della “cattiva interdisciplinarietà”, è del tutto assente il contributo degli scienziati. Se, infatti, è condivisibile la critica a un certo uso disinvolto della scienza nell’ambito della cultura umanistica, dovrebbe esserlo a maggior ragione il condiscendere a questo gioco da parte degli stessi scienziati.

Questa omissione porta a strani esiti. Introducendo l’analisi dei testi di Julia Kristeva, Sokal e Bricmont scrivono:

L’obiettivo dichiarato di Kristeva è di costruire una teoria formale del linguaggio poetico. Questo obiettivo è però ambiguo perché, da un lato, ella asserisce che il linguaggio poetico è “un sistema formale la cui teorizzazione può essere basata sulla teoria [matematica] degli insiemi”, dall’altro lato precisa in una nota a piè di pagina che questa “non è che metaforica”[33].

 

E, concludendo il medesimo capitolo, affermano:

(…) il problema principale di questi testi è che l’autrice non si sforza di giustificare la rilevanza di tali concetti matematici nel campo che si prefigge di studiare (…) e ciò, a nostro avviso, per l’ottima ragione che rilevanza non v’è[34].

 

Ora, osservazioni analoghe le abbiamo fatte a proposito dell’applicazione alla linguistica della teoria delle catastrofi di Thom, che ha forse aperto la strada a queste indagini pseudoscientifiche sul linguaggio[35]. Omettere questo passaggio non aiuta a chiarire le reciproche responsabilità e nasconde in parte le origini delle distorsioni che i fisici vogliono – giustamente – denunciare. In questo caso sembra prevalere una sorta di interesse di casta che però non giova alla riflessione sull’interdisciplinarietà.

 

  1. Conclusioni provvisorie (su gravi patologie)

Tirando le somme, il punto d’arrivo di questo studio sembra un vicolo cieco: le tre tappe che abbiamo individuato indicano un profondo disequilibrio tra le aspirazioni e le realizzazioni di un approccio interdisciplinare. Ci si può quindi, legittimamente, chiedere se un tale approccio alla ricerca abbia o meno senso. Per poter fornire una risposta, seppure provvisoria, ripercorriamo velocemente la storia delle “relazioni pericolose”, cercando di enuclearne i punti realmente critici e che necessitano, quindi, di un ripensamento. La scelta delle vicende narrate nasce infatti dall’obiettivo di mettere in rilievo alcune “patologie” che ci sembrano particolarmente gravi:

  1. Incomprensione. Il primo problema, esemplificato dalla lettura bergsoniana della relatività, è anche quello storicamente più antico: la difficoltà di comprensione del linguaggio scientifico da parte di intellettuali di formazione umanistica. La scissione tra le “due culture”, le cui origini – come indicato in premessa – possono farsi risalire alla seconda metà del XIX secolo, pone lo studioso che voglia abbracciare nel suo sguardo un panorama più vasto nelle condizioni di dover ricostruire i propri strumenti d’indagine. Tuttavia lo specialismo sempre più spinto (che, soprattutto nel XX secolo, ha investito pienamente anche i settori umanistici) non permette più – salvo rarissime eccezioni – a un solo intellettuale il possesso pieno di competenze che abbraccino ambiti diversi e lontani.
  2. Tentazione dell’abuso. Le parabole degli umanisti raccolte da Sokal e Bricmont e, sul fronte opposto, la vicenda di Thom, evidenziano un secondo problema: a fronte di una sempre minore comprensione reciproca, può nascere la tentazione di abusare del linguaggio o dei concetti della scienza nell’ambito di discorsi che con essa hanno poco da spartire. Questo secondo aspetto può essere declinato, semplificando, in due forme: autoritarismo e relativismo. L’applicazione della teoria delle catastrofi alla linguistica rientra nella prima forma di abuso: Thom, forte dell’autorità riconosciuta alla scienza in termini acritici anche a causa di una sorta di “complesso di inferiorità” da parte degli umanisti, trasferisce all’analisi linguistica una teoria matematica, compiendo un’operazione della quale non si comprende il senso poiché non arricchisce né la linguistica né, tantomeno, la matematica. Strettamente legata a questa prima forma di abuso è quella dei filosofi che, intrisi di cultura postmoderna, ritengono della scienza solo gli aspetti linguistici esteriori: essa diviene una narrazione tra le altre, un bacino di metafore ardite ma svuotate di significato, uno strumento per arricchire e rendere più oscura la propria teorizzazione. Il relativismo culturale, insomma, spinto alle sue estreme conseguenze, strumentalizza il valore autoritario del linguaggio scientifico.
  3. Ideologia. Qual è l’obiettivo di un uso tanto disinvolto della terminologia scientifica? Come ben evidenziato da Sokal e Bricmont, se sotto il profilo scientifico queste costruzioni hanno poco o nullo valore, esse si propongono però come baluardi ideologici. Il relativismo culturale, coltivato in seno a una certa sinistra, vorrebbe aprire l’universo intellettuale a civiltà e orientamenti che gli sono stati estranei in passato perché marginali rispetto alla “cultura egemone” dell’occidente (ad esempio le culture del terzo mondo, ma anche gli orientamenti di genere). Questo obiettivo, pur ammirevole, è perseguito attraverso il sistematico appiattimento concettuale: se tutto è equivalente, allora la cultura greca non “vale” più di quella bantù e il metodo scientifico è analogo all’approccio magico al mondo. Eppure questa tendenza, svilendo la differenza e inibendo il giudizio, non sembra in grado di migliorare la qualità della ricerca. Un esempio, a mio avviso, lampante di “eterogenesi dei fini” riguarda l’uso del linguaggio “politicamente corretto”: nato per mettere a tacere i pregiudizi, esso arriva a tali estremi di ridicolo da farli rinascere in altra forma (e non è un caso che proprio discipline come gli studi culturali e di genere facciano largo uso delle formule del politicamente corretto).
  4. Corporativismo. Un’ultima criticità potrebbe, apparentemente, sembrare fuori luogo: si tratta degli interessi fortemente corporativi coltivati entro le comunità specialistiche. Tuttavia questa problematica tocca gli studi interdisciplinari in almeno due sensi. In primo luogo, ogni gruppo tende a chiudersi di fronte a quelle che percepisce come “invasioni di campo” da parte di studiosi privi di competenze specifiche. La chiusura ostacola lo scambio che potrebbe, invece, arricchire la ricerca interdisciplinare, ma anche ampliare gli orizzonti e costruire un contesto più ampio per la singola branca di studio. In secondo luogo, poiché ogni ricercatore – per quanto orientato all’interdisciplinarietà – è radicato entro un ambito più o meno definito, egli stesso avrà resistenze consce o inconsce rispetto alla critica mossa al proprio settore. È quanto abbiamo notato in relazione all’omissione dell’analisi di Thom da parte di Sokal e Bricmont.

Alla luce di queste indicazioni, c’è da chiedersi se la ricerca interdisciplinare abbia un senso, e quale. In particolare voglio riferirmi agli studi che tentano di indagare gli scambi tra discipline umanistiche e scientifiche, operando nel quadro di una ideale cultura unitaria. Credo infatti che il ragionamento debba inserirsi nel più ampio dibattito rispetto all’esistenza di un sostrato comune che garantisca la comprensione, il giudizio e l’azione in un determinato ambito culturale. Di fronte a una scienza che sembra allontanarsi dal mondo reale e dalla società, e a un sapere sempre più parcellizzato in ristretti ambiti specialistici, ritengo che un approccio inter o multidisciplinare non solo sia possibile, ma anche altamente auspicabile. Se, da un lato, tale approccio sembra quasi impossibile da fondare seriamente, dall’altro è chiaro che la conoscenza non può fare a meno di quelle sintesi più ampie che hanno sempre consentito di abbracciare porzioni di sapere tali da organizzare un mondo abitabile e comprensibile. Il punto è, semmai, come evitare quelle “patologie” indicate più sopra.

Ricette semplici, ovviamente, non ne esistono. Come nel caso degli esempi negativi qui riportati, esistono però modelli positivi ai quali può essere utile fare riferimento. Una prima caratteristica necessaria è comunque quella di sfuggire le scorciatoie: addentrarsi in una disciplina estranea significa procurarsi gli strumenti concettuali e tecnici necessari ad indagarla seriamente. È chiaro che non è quasi mai possibile appropriarsi di un ambito settoriale lontano dal proprio con lo stesso livello di profondità, tuttavia non è detto che sia necessario: l’importante è chiarire i limiti della ricerca e il peculiare punto di vista dal quale si osserva l’oggetto di studio. Insomma, se voglio descrivere un bosco non mi soffermerò sui nodi di un singolo albero, ma dovrò conoscere, almeno in termini generali, le caratteristiche delle diverse specie che compongono l’ambiente.

Strettamente legata a questo aspetto, e utile come antidoto contro abusi e ideologie, è la chiarezza e onestà della ricerca. Affrontare un percorso interdisciplinare significa denunciare la propria formazione specifica, che segna il punto di partenza dell’indagine e che spesso ne delimita il perimetro. Ciò non vuol dire rinunciare a priori ad approfondimenti o ampliamenti, piuttosto aprirsi al confronto e al dialogo con gli esperti di altri settori. Atteggiamento, questo, che mira a forzare quelle barriere corporative evidenziate sopra, che spesso ostacolano studi di più ampio respiro. Parlando di Leonardo da Vinci, Valéry ebbe a scrivere: «(…) deve circolare attraverso separazioni e recinzioni. Il suo compito è quello di abbatterle»[36]. Se tale compito non è, ovviamente, alla portata di chiunque, il più modesto proposito di farle emergere e di denunciarne i rischi mi pare necessario per il ricercatore interdisciplinare.

Vale la pena sottoporsi allo sforzo continuo cui una tale ricerca porta, piuttosto che rinchiudersi nei comodi recinti specialistici, ritagliarsi un proprio spazio su riviste per pochi addetti e raccoglierne i frutti in termini di carriera e prestigio? Io penso di sì. Si tratta di non rinunciare alla possibilità di un terreno culturale comune cui possano far riferimento gli scienziati come gli umanisti e di contribuire alla costruzione di quelle sintesi generali che sono di fondamentale importanza quando si voglia ripensare criticamente alle origini e all’evoluzione di una singola disciplina[37]. Seppur con le accortezze qui appena accennate, l’orizzonte di queste ricerche può essere ampio e stimolante. Uno studio interdisciplinare serio deve essere in grado di evidenziare quegli elementi che si prestano a gettare veri ponti concettuali; come una mappa, esso deve saper indicare i terreni solidi e le paludi da evitare, con l’obiettivo di dipingere una paesaggio culturale condiviso dal più largo numero di studiosi possibile.

 

 

 

  1. Appendice: i gemelli Bogdanov e il professor Stronzo Bestiale

Un discorso a parte meriterebbero le distorsioni che l’eccesso di specialismo ha portato anche all’interno dei confini disciplinari. Si colloca qui il caso dei gemelli Bogdanov (l’uno matematico, l’altro fisico teorico ed entrambi noti in Francia come conduttori di una fortunata trasmissione televisiva di divulgazione scientifica) che, tra il 2002 e il 2003, pubblicarono, su prestigiose riviste peer review, articoli di gravità quantistica rivelatisi – a un successivo esame – del tutto privi di senso scientifico. Non è qui possibile addentrarsi nel contenuto (ipotetico) di tali articoli, che si concentrano sulla singolarità spazio-temporale precedente il Big Bang. Tuttavia essi videro la luce su riviste anche molto prestigiose («Classical and Quantum Gravity», «Annals of Physics», «Nuovo Cimento»), ed è importante sottolineare che, in almeno cinque occasioni, superarono l’esame dei redattori e dei revisori[38]. Tale vicenda ha provocato perplessità in merito all’incapacità di trovare esperti realmente in grado di valutare lavori in ambiti di specialismo spinto e ha messo in discussione l’intero sistema di pubblicazione attraverso la revisione cieca[39]. D’altro canto già in passato la presunta obiettività del sistema di revisione ormai quasi universalmente accolto ha sollevato questioni e problemi. Un esempio di scarsa attenzione da parte dei revisori e redattori è la storia del “professor Bestiale”, assurta alle cronache dei giornali generalisti italiani. Nel 1987 il «Journal of Statistical Physics» pubblicò un articolo dal titolo Diffusion in a periodic Lorentz gas[40], e dal contenuto serio, a firma di tre ricercatori: i ben noti Bill Moran e William G. Hoover, e il fantomatico Stronzo Bestiale, dell’altrettanto fittizio “Institute for advanced study” di Palermo. Il professor Bestiale aveva già firmato altri articoli, nonché sottoscritto la sua partecipazione a congressi. Qui, più che altro, importa sottolineare come la rivista non si sia minimamente resa conto della beffa che stava subendo, non solo in merito all’identificazione del ricercatore, ma anche rispetto alla sua affiliazione a un’istituzione insesistente[41]. Ma c’è di più: nel caso Bogdanov si intuisce il sintomo di una recente “malattia” della fisica: la perdita del contatto con le proprie basi empiriche (basti pensare alla teoria delle stringhe, che impegna una vasta comunità di fisici dagli anni ’70 del Novecento e che non ha alcuna base sperimentale, né può averla); non a caso a questa storia Peter Woit ha dedicato un intero capitolo del suo libro Neanche sbagliata. Woit, interrogandosi su come sia stato possibile che le riviste abbiano accettato gli articoli dei gemelli, afferma:

Un motivo risiede senza dubbio nel fatto che molti fisici non ammettono di buon grado di non capire qualcosa. Messi di fronte a una gran quantità di riferimenti a settori della fisica e della matematica di cui non sono esperti (…) i revisori decisero che dovevano per forza contenere qualcosa di interessante, e li accettarono con commenti minimi[42].

 

Lo stesso sarebbe potuto accadere, a mio parere, in qualsiasi contesto specialistico. Laddove manca ormai un linguaggio comune, ciascuno può elevarsi a massimo esperto di un microsettore, rendendo complicato, se non impossibile, un giudizio di merito sul proprio lavoro.


[1] Cfr. A. Pais, “Sottile è il Signore…” – La scienza e la vita di Albert Einstein (1982), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 538.

[2] In G. Polizzi (a cura di), Einstein e i filosofi, Medusa edizioni, Milano 2009, pp. 83-85 (corsivo mio).

[3] Ibid., p. 89.

[4] Ibid., pp. 89-90.

[5] H. Bergson, Durata e simultaneità (1922), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2004, p. 72.

[6] Ibid., p. 74.

[7] Ibid., p. XVIII.

[8] Ibid., p. XV (il corsivo è nell’originale).

[9] Ibid., p. XX.

[10] B. Fantini, La nuova biologia, in L. Geymonat (a cura di), Storia del pensiero filosofico e scientifico, volume settimo, Il novecento (2), Garzanti, Milano 1976, p. 414.

[11] R. Thom, Modèles mathématiques de la morphogenèse, Union Générale d’Editions, Paris 1974, p. 25 (tutte le traduzioni sono mie).

[12] Cfr. Ibid., p. 24.

[13] La teoria è infatti, come ammette lo stesso Thom, puramente qualitativa e la sua applicazione alle scienze quantitative non è immediata. Cfr. ibid., pp. 86-88.

[14] Per quanto segue, cfr. ibid., pp. 89-126.

[15] Ibid., p.118.

[16] Nella classificazione di Thom, che prevede sette “catastrofi elementari”, si tratta della “grinza”. Vedi R. Thom, Morfologia del semiotico, a cura di Paolo Fabbri, Roma, Meltemi, 2006, p. 38.

[17] R. Thom, Modèles mathématiques de la morphogenèse, cit., p. 126 (corsivi nell’originale).

[18] In Ibid., pp. 148-177. Vedi in particolare pp. 173-175.

[19] R. Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi (1972), tr. it. Einaudi, Torino 1980, p. 362.

[20] T. Tonietti, Simpatie esterne e reazioni interne; le caratteristiche di un paradigma?, in «Quaderni del dipartimento di matematica dell’Università del Salento», Catastrofi e rivoluzioni, 4/1979, p. 10. L’intero quaderno è dedicato ad analizzare il pensiero di Thom, le sue radici storiche e le sue influenze.

[21] M. Cini, Prefazione, in T. Tonietti, Catastrofi, Dedalo, Bari 2002, pp. 7-8.

[22] In A. Sokal-J. Bricmont, Imposture intellettuali (1997), tr. it. Garzanti, Milano 1999, p. 218.

[23] Ibid., p. 240.

[24] L’intera documentazione in proposito è riportata nella pagina web appositamente creata da Sokal:

http://www.physics.nyu.edu/faculty/sokal/index.html.

[25] A. Sokal, A Physicist Experiments with Cultural Studies, «Lingua Franca», maggio-giugno 1996, pp. 62-64 (la traduzione è mia).

[26] La risposta degli editori di «Social Text» tenta di giustificare la scelta della pubblicazione dell’articolo di Sokal con motivazioni che sembrano rafforzare gli argomenti stessi del fisico. Cfr. «Lingua Franca», luglio-agosto 1996.

[27] In Italia il testo viene pubblicato nel 1999. Vedi Imposture intellettuali, cit.

[28] In Ibid., p. 37.

[29] Ibid., p.19.

[30] Cfr. Enrico Bellone, La scienza negata, Codice, Torino 2005.

[31] Una rassegna di contributi pubblicati sulla stampa italiana è consultabile al link http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/sokal.htm.

[32] Per esempio, in un’intervista rilasciata ad Anna Maria Merlo per il «Manifesto», l’esperto in informazione e comunicazione Yves Jeanneret afferma a proposito del libro: «il fisico pretende di giudicare il filosofo in nome del buon senso. È molto pericoloso» (9 dicembre 1998, http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/981209.htm). Onestamente, a me pare ancor più pericoloso che la filosofia voglia sottrarsi al giudizio del buon senso.

[33] A. Sokal-J. Bricmont, Imposture intellettuali, cit., p. 47.

[34] Ibid., p. 56.

[35] Devo l’osservazione sull’omissione e sulla sua importanza a Lucio Russo, che ne discusse con lo stesso Sokal.

[36] P. Valéry, Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci. Nota e digressione (1894, 1919, 1930), tr. it. Abscondita, Milano 2007, p. 41.

[37] Su questi aspetti cfr. L. Russo, La cultura componibile, Liguori, Napoli 2008. Non a caso l’autore, di formazione fisico e matematico, è attualmente una delle voci più importanti nell’ambito della storia della scienza antica e può rappresentare uno di quei modelli positivi di multidisciplinarietà cui si accennava sopra.

[38] Gli articoli sono consultabili al seguente link: http://inspirehep.net/search?p=find+a+bogdanoff.

[39] Per una dettagliata ricostruzione della vicenda si può fare riferimento alla pagina in inglese di Wikipedia: http://en.wikipedia.org/wiki/Bogdanov_Affair.

[40] Consultabile al link http://williamhoover.info/Scans1980s/1987-3.pdf.

[41] Non sono riuscita a sciogliere definitivamente il dubbio su chi si nasconda dietro il “professor Bestiale”. Alcuni sostengono che si tratti dello scherzo di uno degli autori ai danni di un collaboratore italiano poco affidabile, altri che dietro quel nome si nasconda un vero ricercatore italiano. Quel che è certo è che l’allora rettore dell’università di Palermo si affrettò a smentire che nel suo ateneo lavorasse un docente con quel nome: vedi http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1987/12/01/una-strana-firma-sulla-rivista.html.

[42] P. Woit, Neanche sbagliata – Il fallimento della teoria delle stringhe e la corsa all’unificazione delle leggi della fisica (2006), tr. it. Codice, Torino 2007, p. 225.

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