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- Ontologia, epistemologia e buon senso
«La costruzione della vita artificiale può dare un contributo generale a gettare nuova luce su ciò che sono in realtà gli organismi vivi»[1]. Claus Emmeche sostiene che la vita naturale può diventare finalmente intelligibile solo grazie alla sua copia artificiale. Per carità, tesi non particolarmente sconvolgente. Soprattutto ai giorni nostri. «Grazie alla creazione di simulacri organici e alla loro instabilità rispetto ai concetti tradizionali dei sistemi biologici concreti, la vita artificiale – continua il teorico della biologia sintetica – può contribuire a una più profonda comprensione della logica della vita […]. La vita artificiale diventa quindi una strada verso quella che si potrebbe chiamare una destrutturazione della scienza biologica, della sua sfera, del suo contenuto»[2]. Forse Emmeche non lo sa, ma la destrutturazione di cui sta parlando l’ha messa a punto il teorico della vita tout court, almeno così come oggi la conosciamo, ovvero Charles Darwin. Cosa implica, infatti, la trasfigurazione del dato organico in prodotto evolutivo se non la destrutturazione del «contenuto» delle scienze naturali? Cosa implica la storicizzazione darwiniana del sapere biologico[3] se non una destrutturazione del modo di conoscere gli «organismi vivi»? Cosa implica l’analogia epistemologica sancita da Darwin tra selezione artificiale e selezione naturale se non la destrutturazione di un rapporto sin lì fondato sulla dicotomia tra natura e artificio? Come in una sorta di teorizzazione ante litteram dell’Artificial life, Darwin fornisce tutti i mezzi concettuali affinché possa concepirsi il dato naturale sotto il vaglio della produzione e, dunque, affinché possa innescarsi quella «svolta ontologica» da tanti osservatori unicamente associata alla nascita delle biotecnologie.
Anche Keekok Lee, attenta studiosa dell’ineffabile confine che separa e unisce al tempo stesso organismi e artefatti, nel suo Philosophy and Revolutions in Genetics[4] sostiene che la natura dei viventi subisce una vera e propria «svolta ontologica»[5] solo con la scoperta del DNA ricombinante e quindi con l’avvento delle biotecnologie di nuovissima generazione. Al pari di molti suoi colleghi la Lee concede cioè una priorità di effetti alle condizioni tecniche di trasformazione dei viventi rispetto a eventuali variazioni nelle loro condizioni di conoscibilità. Dal suo punto di vista lo statuto artefattuale dei viventi viene collocato né più né meno che nella loro effettiva riduzione al livello dei manufatti.
In particolare la Lee distingue tra enti abiotici e biotici e, al loro interno, tra enti semplicemente dati e artefatti. Della prima categoria, cioè degli enti abiotici, fanno parte una pietra come, per esempio, una statua, ed è evidente che se della prima non si può dire che implementi un’attività umana, così non è per la statua, motivo per cui riconosciamo alla statua e non anche alla pietra uno status artefattuale. Per gli enti biotici è lo stesso: se dell’animale selvatico non si può dire che implementi un’attività umana, ciò è invece vero per gli animali domestici, modellati da secoli di selezioni e incroci. Questi, osserva Lee, sono organismi artefattuali perché «incorporano un’intenzione umana»[6]. Entrando ancor più nel merito di quel che viene precisato essere una «trasformazione filosofica» che ha condotto gli organismi «dallo stato di esseri naturali a quello di esseri artefattuali», Lee fa osservare che è «tuttavia nell’ultima parte del XX secolo che l’uomo, grazie alle biotecnologie, ha acquisito la capacità di creare artefatti nella forma di esseri viventi, il cui grado di artificio va molto al di là di quello ottenuto dalle precedenti tecnologie di allevamento selettivo, ovvero dalle tecnologie di ibridazione di matrice mendeliana»[7].
Grazie all’ingegneria genetica, osserva la filosofa, «l’immanente telos riscontrabile negli esseri viventi» viene sostituito da un «telos a essi estraneo, un telos imposto dall’uomo» e, cosa ancor più notevole, acquista una connotazione antropica non solo la «causa finale» ma anche la stessa «causa materiale» degli organismi. «La causa materiale di un organismo geneticamente modificato – rileva la Lee – può essere tratta da un’altra specie, appartenente al regno animale o anche a quello vegetale»[8]. L’oncomouse, per esempio, non solo «incorpora un’intenzione umana», quindi un telos a lui esterno, ma risulta antropizzato, quindi reso un artefatto, anche nella sua stessa costituzione organica, essendo dotato di un patrimonio genetico che mai avrebbe potuto ottenere allo stato naturale. Da questo punto di vista la Lee ha pienamente ragione nel dire che le «biotecnologie mostrano in modo spettacolare come gli enti biotici possano spogliarsi del loro statuto ontologico di esseri naturali»[9]. Ma qui non è certo questo punto a essere messo in discussione, che la ricombinazione genetica o addirittura la creazione di organismi interamente «laboratoriali»[10] abbia reso palesi livelli di artificializzazione del dato naturale dapprima impensabili è oggi di un’evidenza solare. Quel che invece è meno immediato è il fatto che gli enti biotici possano spogliarsi del loro statuto ontologico di esseri naturali anche a prescindere dall’intervento modificativo delle biotecnologie. Nella sua dettagliata analisi la filosofa della scienza dà sì conto delle effettive differenze di artificializzazione che un crescente potere biotecnologico può produrre nell’ontologia degli esseri viventi, tuttavia quel che omette di problematizzare è il rapporto tra status dei viventi e trasformazione delle loro condizioni di conoscibilità o, in breve, tra ontologia ed epistemologia[11]. Un rapporto che invece, a mio modo di vedere, viene profondamente chiamato in causa dalla teoria darwiniana.
- Tertium datur
Con Darwin assistiamo a quella che si può legittimamente considerare come una «svolta ontologica» nello status dei viventi. A partire dall’Origine il consolidato gioco di antinomie tra natura e artificio, tra ciò che è naturale e ciò che è selezionato, perde ogni senso. Darwin inventa un tertium datur e per mezzo dell’attività naturale della selezione apre alla possibilità di introiettare nella natura il lavoro costruttivo, produttivo e interamente artificiale degli allevatori. Secondo Darwin, infatti, non può farsi valere alcuna discontinuità sostanziale tra le artificiali genealogie prodotte dagli allevatori e le naturali discendenze riscontrabili in natura: tra gli animali «artificiali» e quelli «naturali» sussiste una medesima ontologia. Un’ontologia artefattuale.
Per farsene un’idea basta riflettere sul passaggio centrale della sua teoria. La selezione naturale è per Darwin una sorta di imitazione della selezione artificiale e, viceversa, quest’ultima appare a sua volta come una sorta di imitazione della selezione naturale. La prima ha lo scopo di incrementare l’adattamento degli organismi «naturali» al loro ambiente non ancora umanizzato, la seconda ha lo scopo di incrementare l’adattamento degli animali «artificiali» al loro ambiente domestico. Tra le due selezioni, come osserva Kenneth Waters, c’è una «relazione isomorfa»[12], sussistono cioè medesimi meccanismi di variabilità, ereditabilità e irreversibilità.
Facciamo ora un passo ulteriore e vediamo come tale isomorfismo finisca per investire il cuore stesso dell’idea di natura. Se, come dice Darwin, bisogna riconoscere la selezione come la «potenza principale» della natura[13], ne consegue che ciò che più di ogni altra cosa contraddistingue la natura è un’attività di costruzione (Darwin, a proposito della selezione naturale, parla di «produzione» e «formazione») e non di preservazione. In Darwin la selezione è creazione e, pertanto, la natura che ospita la selezione, la natura che nelle sue forme testimonia questa perenne attività selettiva, non può che essere una natura radicalmente nuova rispetto a quella fin lì concepita dal pensiero biologico. A partire da Darwin la natura, da collezione di tipi e prototipi, diventa un laboratorio di forme sperimentali, cioè un luogo di incessante costruzione di entità di volta in volta nuove. Si potrebbe in un certo senso dire che con Darwin la natura diventa una realtà artefatta, ovvero una realtà attraversata da una ricorsività di processi selettivi, produttivi e fabbricativi.
Mettere la selezione al centro della natura e fare della selezione qualcosa di più di un semplice «setaccio», come invece la concepiva Herbert Spencer, è quindi un’operazione epistemologicamente traumatica, equivale infatti a legittimare una visione costruttiva della realtà naturale rispetto a cui non pare più tracciabile alcuna distinzione tra «ciò che è dato» e «ciò che è prodotto». Certo, Darwin non penserà mai all’esistenza, in natura, di un Designer in grado di assemblare materiali in vista di uno scopo, tuttavia ciò che la sua visione della natura ci restituisce è un insieme di enti naturali pensabili come l’esito di un determinato processo di produzione. In altri termini, la biologia darwiniana ci restituisce degli organismi assimilabili a enti naturalmente prodotti.
[1] C. Emmeche, Il giardino nella macchina. Della vita artificiale (1994), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 169.
[2] Ibid. (corsivo mio).
[3] A dispetto del nome, fino a Darwin la “storia naturale” di storico ha ben poco. Cfr. E. Mayr, L’unicità della biologia. Sull’autonomia di una disciplina scientifica (2005), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2005; si veda anche R. Pollack, I segni della vita. Il significato del DNA (1992), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 162.
[4] K. Lee, Philosophy and Revolution in Genetics. Deep Science and Deep Technology (2003), Palgrave Mcmillan, New York-London 2005.
[5] Cfr. ibid., pp. 16-34.
[6] Ibid., p. 17.
[7] Ibid., p. 21.
[8] Ibid.
[9] Ibid., p. 214.
[10] Craig Venter, autore della prima mappatura del genoma umano, sta conducendo ricerche in tal senso molto significative. La sua equipe sta infatti lavorando all’obiettivo di creare la prima forma di vita artificiale, cioè completamente costruita in laboratori, e i successi delle ultime sperimentazioni genetiche sul DNA del Mycoplasma Genitalium, non a caso ribattezzato “Mycoplasma Laboratorium”, lasciano pensare che il traguardo non sia affatto lontano. Cfr. C. Lartigue et al., Creating Bacterial Strains from Genomes That Have Been Cloned and Engineered in Yeast, in «Science» (Published Online August 20, 2009,
Science DOI: 10.1126/science.1173759).
[11] Sull’importanza di tale rapporto si veda E. Casetta, La sfida delle chimere. Realismo, pluralismo e convenzionalismo in filosofia della biologia, Mimesis, Milano 2009, p. 70.
[12] C. Kenneth Waters, Taking Analogical Inference Seriously: Darwin’s Argument from Artficial Selection, in «Proceedings of the Biennial Meeting of the Philosophy of Science Association», vol. 1, The University of Chicago Press on behalf of the Philosophy of Science Association, Chicago 1986, p. 507.
[13] C. Darwin, Variazione degli animali e delle piante allo stato domestico (1868), tr. it. sulla 2° ed. inglese col consenso dell'autore di Giovanni Canestrini, Unione tipografico-editrice, Torino 1876, p. 508.