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Indice
- L’antropogenesi e la questione dell’origine del linguaggio
- Il selvaggio parla? Se non è sordo, perché non parla? L’enfant sauvage dell’Aveyron
- La lingua mozzata del selvaggio Venerdì
- Il bisogno dell’origine
S&F_n. 10_2013
Abstract
In this essay we analyze more philosophico the impact of the research on the origin of human verbal language. Starting from suggestions deriving from the work of Agamben and Lévi-Strauss, two discontinuists, we face a double contradiction. The first relates to the inability to define the birth date of human language and of human world. This consideration makes us suspect that behind the passion for this issue there is a hidden need. The second concerns the mix of fascinans and tremendum linked to human mutism, which suggests, from the dominator point of view, an attitude to human animalization, and, from the dominated point of view, a form of resistance or survival instinct. Under these lenses we will read the enfant sauvage by Itard and the Foe by Coetzee. Finally we will discuss the issue of the need for origin as modern mankind melancholia and as unresolved tension towards the future.
Le gatte (Alice lo aveva già notato) hanno una pessima abitudine: qualunque cosa si dica loro, per rispondervi fanno sempre le fusa. «Se solo facessero le fusa per dire “sì” e miagolassero per dire “no”, o se seguissero una regola del genere, in modo tale che fosse possibile fare conversazione con esse! Ma come si può parlare con qualcuno che risponde sempre alla stessa maniera?». Questa volta la gatta nera si accontentò di fare le fusa; e fu impossibile indovinare se voleva dire “sì” o “no”.
Lewis Carroll
- L’antropogenesi e la questione dell’origine del linguaggio
Agamben, nel suo libro Il sacramento del linguaggio, si inserisce all’interno della tradizione (che si può far risalire fino ad Aristotele e, ovviamente, ancora più su) che legge come momento fondamentale dell’antropogenesi la nascita del linguaggio. Nulla di nuovo, se fosse soltanto questa l’idea del filosofo. E invece Agamben costruisce un’archeologia del meccanismo del “giuramento” volto a mostrare come il fondamento del linguaggio umano sia da ritrovarsi in quello speciale giuramento (che fonda la possibilità di qualsiasi altro atto di parola) che “giura” sul fatto che tra le parole e le cose che esse “evocano” e chiamano sulla scena del mondo c’è una corrispondenza. La filosofia si posizionerebbe proprio nell’alveo di questa corrispondenza, o, per meglio dire, nel differenziale di questa corrispondenza. In più la filosofia si accompagnerebbe già sempre al Platone del Cratilo, laddove il filosofo, un po’ a malincuore, compie un atto di rinuncia nei confronti di una possibile corrispondenza tra significante e significato.
Ciò su cui vogliamo fermare l’attenzione è proprio quella particolare relazione tra bios e logos che si istituisce nell’atto di parola. Come sottolinea Agamben il linguaggio «considerato in se stesso […] non è più bello del canto degli uccelli, non è più efficace dei segnali che si scambiano gli insetti, non più potente del ruggito con cui il leone afferma la sua signoria»[1], e, soprattutto, la “potenza” antropogenetica del linguaggio non si determina soltanto in quanto strumento degli strumenti, strumento culturale par excellence della grandezza umana e del dominio sul mondo. La “potenza” antropogenetica del linguaggio mette già sempre in campo la distanza della vita dal logos che la rappresenta, e diviene, nel suo atto di nascita, un giuramento etico. Etico ancor prima che teoretico, fondante dunque la possibilità non soltanto dell’analisi onto-logica del vero e del falso, ma anche dell’approccio “etico” alla realtà, fondante insomma la stessa possibilità del diritto, della religione e di tutti le altre istituzioni culturali umane. In poche parole «l’uomo è quel vivente che, per parlare, deve dire “io”, deve, cioè, “prendere la parola”, assumerla e farla propria»[2]. E potremmo aggiungere con Foucault, il quale soprattutto negli ultimi due corsi al Collège de France ha studiato proprio il meccanismo linguistico della parresia[3], che la dimensione etico-politica del linguaggio è già sempre imbrigliata nella dimensione della menzogna costitutiva, la menzogna stessa della parola nei confronti della cosa, per cui l’esigenza del vero è in primo luogo un atto di coraggio nei confronti degli Altri, una testimonianza che tra il proprio bios e il proprio logos non vi sia “differenziale”. La verità riguarda la parola non soltanto nella dimensione onto-logica, ma anche (e, forse, più originariamente) in quella etico-politica. Anche per Foucault, più che la parola in se stessa, è il “differenziale” tra parola e cosa a produrre il mondo umano.
Seguendo Agamben (e in un certo senso anche Foucault), il movimento di ritorno all’origine del linguaggio significa cercare il momento esatto in cui è sorta ogni attività umana. E questo perché l’atto di parola rappresenta la fondazione della possibilità teoretico-pratica di dominio del mondo, l’atto di inizio della metafisica, ma ancor di più il momento in cui si produce la possibilità etica di relazione con il mondo e con gli altri.
Per noi, l’atto di risalire all’origine del linguaggio significa anche perdersi in una contraddizione produttiva che da un lato ha la caratteristica di rimanere per sempre e per natura insanabile e dall’altro è la rappresentazione di un bisogno profondo dell’umano abbandonato a se stesso, abbandonato definitivamente dopo che Darwin gli ha detto che la sua origine non è unica, bensì indietreggia sempre di più in un punto indistinto e irraggiungibile. E questa contraddizione ha a che vedere con la relazione tra significante e significato (un modo particolare di declinare la più originaria relazione vita/logos) da un lato e dall’altro con la stessa determinazione vitale dell’umano che si ripercuote nell’orrore coloniale di ogni mutismo.
Lévi-Strauss, come è risaputo, ha lavorato sull’etnologia e sulla mitologia seguendo il modello della linguistica strutturale, in più però ha riflettuto a lungo sulla relazione che si instaura tra significante e significato, che è già sempre nella riflessione che stiamo qui cercando di costruire la relazione tra l’elemento vivente dell’umano e l’elemento distanziato e discorsivo, in una parola: culturale. In questa divaricazione originaria, Lévi-Strauss legge il dramma della relazione tra significazione e conoscenza e così, nell’Introduction à l’œuvre de Marcel Mauss[4], costruisce una sorta di “mitologia” della nascita del linguaggio umano, la quale non può prendere le mosse se non dal fatto che «quali che siano stati i momenti e le circostanze della sua apparizione nella scala della vita animale, il linguaggio non può che nascere d’un colpo solo»[5]. Del resto Lévi-Strauss è il discontinuista per eccellenza e nella sua riflessione l’umano è tutto culturale e la natura rappresenta un pendant già sempre “preso” all’interno di un discorso, di un logos appunto, di una parola che lo determina e lo plasma. Ma il dramma mitologico della nascita del linguaggio umano si situa nel punto di tangenza tra significazione e conoscenza. Lévi-Strauss racconta, con la grandezza estetica di un raffinato narratore più che con la scientificità dell’austero e oggettivo antropologo strutturalista, il momento in cui l’universo è divenuto all’improvviso “significativo”. L’evento del linguaggio ha fatto aprire gli occhi dell’uomo sull’infinità della realtà e le sue due dimensioni, quelle del “significante” e del “significato”, sono sorte in maniera complementare, già formate nella loro struttura essenziale. Ciò significa, se si vuole seguire Lévi-Strauss, che l’evoluzione cognitiva del vivente umano ha cominciato il suo cammino nel momento in cui si è trovato dinanzi una pletora di “significanti” e una realtà improvvisamente “significativa” e ha dovuto costruire le relazioni tra questi due blocchi monolitici e impenetrabili.
Qui troviamo la prima contraddizione di una ricerca sull’origine del linguaggio umano. Se c’è un dato che condividono tutti gli studiosi è che, ovviamente, non è possibile trovare alcuna traccia fossile del linguaggio parlato e che le stesse strutture fisiologiche deputate all’articolazione fonetica sono tessuti molli che non fossilizzano. Insomma, anche dal punto di vista strettamente scientifico, ci si ritrova in una immensa (se non impossibile) attività di ricerca che, però, porta in sé la dimensione della passione, come se ci fosse in ballo, in ricerche del genere, qualcosa di decisivo. C’è qualcosa nella dinamica dell’indietreggiamento all’origine che ci richiama a un bisogno, dinamica che avremo modo di approfondire. Comunque, se seguiamo da un lato Agamben e dall’altro Lévi-Strauss (due “discontinuisti”, per così dire) ci troviamo dinanzi a un terminus ante quem è impossibile risalire. Se il linguaggio produce la stessa dinamica cognitiva (e per Agamben anche quella “etica”) dell’umano, l’umano allora dal punto di vista cognitivo non può attingere a questo momento originario, al fenomeno di passaggio, al giorno che precede il primo giorno dell’alba dell’umano; nondimeno il giorno prima del primo giorno deve esserci stato, e ha condotto l’animale (quasi) umano a produrre i primi balbettamenti significanti. Questa la prima tensione contraddittoria.
La seconda contraddizione ce la suggerisce ancora una volta Agamben. Nel suo libro L’aperto[6], all’interno del quale si riflette proprio sulla relazione uomo/animale leggendola come l’evento decisivo che costantemente si ripete e da cui si produce la molteplice realtà umana, Agamben, retrocedendo agli albori della rivoluzione darwiniana, giunge proprio al problema dell’origine del linguaggio verbale umano. Comunque lo si voglia intendere, il linguaggio è ciò che determina l’umano, il mutismo (come “assenza di linguaggio verbale umano”) è ciò che determina la dimensione animale dell’uomo. E non solo: ciò che nell’uomo viene considerato (o prodotto positivamente) come animale, e in questo senso trattato, è sempre una riduzione al silenzio, una costrizione al mutismo, una lingua tagliata affinché non possa proferire parola. L’umano è sempre sulla soglia uomo/animale e l’animalità dell’uomo è sempre una forma positiva sulla quale intervenire dal punto di vista dei dispositivi di potere. Il “non-uomo”, come oggetto di intervento umanitario o di dominio coloniale (due facce della medesima medaglia), se vogliamo seguire Agamben, viene prodotto o “animalizzando l’uomo”, risalendo al momento del mutismo pre-umano e riproducendolo, o “umanizzando l’animale”, analizzando le figure del mutismo umano come resistenze e sopravvivenze di un assolutamente Altro. In questo senso si potrebbero analizzare, ad esempio, l’enfant sauvage sul quale si scervella Jean Itard o quello strano selvaggio Venerdì dello scrittore Coetzee, nella sua rilettura del Robinson Crusoe di Daniel Defoe.
La tensione che attraversa la domanda sull’origine del linguaggio verbale umano è la tensione che attraversa ogni possibile immagine dell’antropogenesi, in più si gioca costantemente tra un orrore per il mutismo e un bisogno di ritrovare l’evento originario. L’orizzonte è allo stesso tempo teoretico ed etico, ha a che vedere con la vita contemplativa e con la vita activa, o forse e ancor più decisivamente rappresenta il momento che precede la distinzione tra i due ambiti. È la ricerca dell’indistinto a partire da ciò che è già sempre e non può che essere già sempre “distinto”, separato.
- Il selvaggio parla? Se non è sordo, perché non parla? L’enfant sauvage dell’Aveyron
Il “perché non parla?” del giovane medico Jean Itard nel suo resoconto sul cosiddetto “selvaggio dell’Aveyron”[7] può essere considerato l’archetipo della domanda che avrebbe assillato la tarda modernità. Il motivo per cui si parla e quello per cui non si parla sono un’inquietudine sottile che attraversa tutta la seconda modernità e anticipa la svolta linguistica che ha caratterizzato il XX secolo.
Il “perché non parla?” è la domanda che ossessiona il giovane medico Itard sin da quando ha deciso di prendere in cura (e mettere sotto un costante esame, non senza esagerazioni ma a tratti con sincero affetto) un ragazzino che era stato ritrovato nel 1798 in Alvernia e che, quasi a suggellare l’Emilio di Rousseau o il mito del Robinson Crusoe, era cresciuto da solo nei boschi in quello che, abusando (e giocando) con alcune determinazioni concettuali, potremmo definire “stato di natura”. C’è nelle pagine di Itard che descrivono il mutismo del “selvaggio dell’Aveyron” qualcosa di inquietante. L’impossibilità di articolare parole e di inserirle all’interno di una struttura sintattica significativa che il “selvaggio” mostra conduce lo studioso dinanzi a un mistero irrisolvibile, a un rompicapo capace di fargli crollare ogni certezza. Dopo anni di insuccessi il medico Itard, seguace del filosofo Rousseau, pone fine a qualsiasi mito del buon selvaggio.
Gli studi sull’origine del linguaggio verbale umano degli ultimi decenni partono da un presupposto che non può essere più messo in discussione, e cioè l’evoluzionismo nella sua forma darwiniana o in quella neodarwiniana, con tutte le distinzioni possibili tra approcci differenti ma appartenenti a una medesima visione della realtà. Fondamentalmente l’approccio darwiniano è quello che chiude ogni sorta di conto con l’eredità cartesiana, l’uomo è uno strano scimmione intelligente[8], certo uno scimmione che ha delle caratteristiche particolari, ma pur sempre uno scimmione. Con buona pace di tutti, l’uomo, anche se è stato capace di costruire le Piramidi o di dipingere la Cappella Sistina, condivide con lo scimpanzé (l’ultima biforcazione prima di giungere all’albero umano) un antenato comune databile circa 6 milioni di anni fa. In più la stessa evoluzione umana non è da considerarsi così lineare come si è pensato in passato, si tratta di una molteplicità di specie umane che spesso hanno convissuto e hanno condiviso lo stesso ambiente (il caso più clamoroso è proprio la coesistenza di sapiens e neandertaliani) con dei veri e propri vicoli ciechi evolutivi. Un cespuglio fitto e complesso. Ma se adesso sappiamo e possiamo considerare certo che l’uomo appartiene al piano immanente della natura, con il quale condivide la dimensione di casualità dello sviluppo e delle articolazioni, come mai il linguaggio assume ancor di più una valenza determinante? Probabilmente perché se è possibile pensare una soglia di “innovazione” evolutiva apportata dall’umano nella serie della natura, questa è rappresentata proprio dal linguaggio. La domanda sull’origine del linguaggio verbale umano diviene la domanda fondamentale sull’umano, l’unica forse a poterci dire in cosa consiste l’intelligenza di questo scimmione che non smettiamo di essere. Divenuta domanda fondamentale all’interno di un orizzonte darwiniano, la domanda si mostra in tutta la sua carica di bisogno.
In questo senso, alcune delle annotazioni del medico parigino Itard possono essere estremamente interessanti. Egli sottolinea proprio il bisogno e la necessità che questo ragazzo selvaggio, proprio in quanto umano e non animale, apprenda il linguaggio verbale umano sia nella sua forma fonetica sia nella sua forma scritta e sintattica. Una delle prime cose che nota Jean Itard in connessione con i primi fallimenti cui va incontro il suo metodo “pedagogico” «è la facilità, che il giovane selvaggio possiede, di esprimere l’esiguo numero dei suoi bisogni attraverso mezzi che non sono quelli della parola»[9]. Ciò che stupisce ancor di più il buon medico parigino è che questo selvaggio usa una forma di comunicazione da un lato estremamente chiara, dall’altro la chiarezza della comunicazione non verbale è ottenuta senza l’utilizzazione di alcuna convenzione. Il buon medico parigino è convinto che, quando il buon selvaggio dell’Aveyron avrà maturato bisogni nuovi che soltanto il vivere civile può far sorgere, allora si renderà conto dell’esigenza di dover inventare nuovi segni e che quindi avrà buon gioco a insegnargli quelli del verbo umano convenzionale e consolidato. Ancora più interessante, poi, è vedere cosa succede dopo alcuni anni. La seconda parte del resoconto di Itard è di circa sei anni successivo, quando il ragazzino è divenuto oramai un giovane uomo. Il medico parigino si arrovella ancora sul fatto che il “selvaggio dell’Aveyron” proprio non riesce a imparare a parlare. Non soltanto non riesce ad articolare le parole ma soprattutto non riesce ad attivare alcune funzioni fondamentali della capacità d’astrazione umana. Quando il medico, dopo un lungo addestramento tra il suono della parola e la cosa indicata, tra significante e significato, insegna la parola “libro” al ragazzo selvaggio e la pronuncia, il ragazzo corre a prendere il libro. Poi il medico fa una scoperta angosciosa, il ragazzo selvaggio non possiede l’universale, e così quando in un esperimento successivo cambia il libro a cui si riferisce con la parola “libro”, il selvaggio non corre a prenderlo. In poche parole il selvaggio coglieva la relazione tra segno e cosa, soltanto che però sia la cosa sia il segno erano individuali, era soltanto quel libro là in connessione a quella emissione di voce là, non il libro in generale. In poche parole il selvaggio non conosceva gli universali logici. Al Nietzsche di Verità e menzogna[10] sarebbe piaciuto questo episodio e chissà se non avrebbe provato simpatia per questo selvaggio, dal momento che sembrava non conoscere la menzogna costitutiva dell’umano, quella dell’universalizzazione. Ma Jean Itard non si arrende e cerca di insegnare l’universale al selvaggio. Dopo avergli insegnato che si chiama “libro” tutto ciò che è formato da più fogli di carta, quando gli si pronuncia la parola, il selvaggio porta di volta in volta un giornale, un opuscolo, un registro, qualsiasi cosa trovasse che fosse formata da fogli di carta. Il resoconto si conclude con l’ammissione di impossibilità che il selvaggio possa parlare. Un fallimento su tutta la linea e un’angoscia per il mistero del mutismo. Il rovesciamento della domanda “perche non parla?” in “perché io, invece, parlo?”. Questo ci apre all’orrore del mutismo e alla produzione coloniale dell’animale nell’Altro.
- La lingua mozzata del selvaggio Venerdì
L’inquietudine per il mutismo del “selvaggio” si trova anche in un romanzo di Coetzee. Lo scrittore sudafricano, nei suoi romanzi, lavora spesso sulla soglia tra umano e animale inserendola all’interno di un orizzonte che, senza forzature teoretiche, potremmo definire post-coloniale. Nei suoi romanzi si intreccia sempre la complessità della relazione con l’Altro, gli scontri, l’animalità e l’angoscia per il mutismo. Meccanismi di animalizzazione e processi di soggettivazione. Riduzione dell’Altro al silenzio “animale”. In uno dei suoi romanzi più complessi (forse, proprio per questo, meno riuscito dal punto di vista narratologico) dal titolo Foe, Coetzee attua un’originale rilettura (e riscrittura) del Robinson Crusoe di Defoe. La prima parte racconta di una donna che, partita alla ricerca della figlia, si trova a naufragare proprio sull’isola dove Robinson Crusoe vive da decenni con il suo fido selvaggio Venerdì. Trascorre il tempo, la donna è sempre più angosciata sia dall’abbrutimento di Robinson Crusoe, per il quale la parola diviene sempre meno importante, sia dall’insopportabile mutismo di Venerdì, al quale qualcuno (la donna sospetta lo stesso Robinson Crusoe – l’orrore coloniale della riduzione dell’Altro ad animale muto) ha fatto tagliare la lingua. Arriva una nave, Robinson Crusoe muore durante la traversata che li avrebbe riportati a casa, la donna e Venerdì giungono fino in Inghilterra. Qui la donna entra in contatto con Foe, uno scrittore di romanzi di successo, al quale vorrebbe affidare il compito di raccontare la loro storia e farne un best-seller ante litteram. Tutto il romanzo di Coetzee è giocato sulla menzogna della parola e sull’impossibilità di superare la soglia e la frattura tra le parole e le cose. Anche Coetzee, in un certo senso, è un discontinuista. Le parole non saranno mai in grado di raccontare e denotare le cose per quello che sono e le cose resteranno per sempre lì mute, come in attesa dell’atto “arbitrario” per eccellenza che è l’atto di parola umano, l’atto di affibbiare un significante a un significato. Il racconto, la narrazione, tutto l’epos umano, nascono soltanto dalla menzogna di uno scrittore di successo (l’uomo nelle sue performance troppo umane) che plasma la realtà a suo piacimento, creando le cose con le parole. Lo scrittore Foe è immagine dell’homo loquens nelle sue prestazioni di dominio della realtà e rappresenta la colonizzazione della realtà da parte dell’umanità civilizzata. Ci troviamo in poche parole nella stessa scena descritta da Lévi-Strauss, l’universo che all’improvviso diviene significativo, e l’uomo che si trova nella duplicità di un mondo formato non più soltanto dalle cose ma anche dalle parole. Se in Lévi-Strauss la narrazione ha la potenza di un epos umano, in Coetzee lo stessa dimensione ci richiama all’angoscia costitutiva dell’umano, spaccato in due, tra un’esigenza di parola veritiera e la menzogna costitutiva del linguaggio. Tra il bisogno dell’origine del linguaggio e l’accettazione della sua menzogna strutturale, si situa la letteratura con le sue parole che plasmano cose, e all’orizzonte l’orrore del mutismo, rappresentato dal selvaggio Venerdì, alterità allo stesso tempo assoluta e prodotta dall’attitudine coloniale dell’uomo occidentale. La lingua mozzata di Venerdì è allo stesso tempo ingiunzione di esonero alla menzogna del linguaggio e moncherino significante della riduzione dell’Altro ad animale muto prima di ogni origine epica dell’umano. Il mutismo angosciante di Venerdì è il mutismo che c’è all’origine animale dell’umano e il mutismo che l’umano riproduce quando “animalizza” il diverso producendolo come “muto”. La figura del soggetto coloniale diviene l’immagine dell’animalità che l’umano non smette di produrre nell’Altro da sé per ridurlo al proprio dominio tecnico-culturale mantenendo così il mutismo e l’animalità in quell’equilibrio tra fascinans e tremendum tipico della tarda modernità.
L’intreccio allo stesso tempo teoretico ed etico-politico della questione dell’origine del linguaggio verbale umano è riassunto in questo passaggio in cui Foe racconta alla protagonista cosa significa il silenzio:
il vostro errore più grande sta nel non riuscire a distinguere tra i miei silenzi e i silenzi di un essere come Venerdì. Venerdì non ha facoltà di parola, e quindi non è in grado di difendersi dall’eventualità di essere riplasmato, giorno per giorno, in modo conforme ai desideri altrui. Io dico che è un cannibale ed egli diventa un cannibale; dico che fa il bucato ed egli diventa uno che fa il bucato. Qual è la verità di Venerdì? Voi risponderete: Non è un cannibale e non è uno che fa il bucato, questi non sono che nomi, non toccano minimamente la sua essenza, è un corpo dotato di consistenza, è se stesso, Venerdì e Venerdì. Ma non è così. Qualunque cosa sia per se stesso (ma lo è qualcosa per se stesso? come può dircelo?), per il mondo Venerdì è ciò che io faccio di lui. Quindi il silenzio di Venerdì e un silenzio che lo rende indifeso. È figlio del proprio silenzio, un figlio non nato, un figlio in attesa di nascere che nascere non può[11].
- Il bisogno dell’origine
Foucault, nella sua opera (nel bene o nel male) più importante e cioè Les mots et les choses, dedica uno dei paragrafi più complessi dell’intera impresa al problema dell’origine o, per meglio dire, al ruolo che l’interrogazione sull’origine ricopre all’interno di quel mondo nuovo di sistematizzazioni culturali rappresentato dalla modernità e dall’avvento della discussione sull’uomo come fulcro dell’interrogazione. Non è questo, ovviamente, il luogo per delimitare i confini dell’intrapresa filosofica foucaultiana, confini che sono spesso anche “limiti” in senso stretto, ma può essere comunque interessante, all’interno di queste brevi note sulla questione dell’origine del linguaggio verbale umano, discutere alcune posizioni teoriche che interrogano proprio il bisogno (in senso lato) di origine (in senso lato) che attraversa l’intera modernità.
Per Foucault la modernità (e per modernità bisogna intendere il XIX e il XX secolo) è «l’età della Storia», laddove per Storia bisogna intendere non tanto delle successioni temporali – la Storia in questo senso è sempre esistita anche se non è mai stata sentita come un problema – quanto il fatto che essa rappresenta «il modo d’essere fondamentale delle empiricità, ciò a partire da cui queste vengono affermate, poste, ordinate e ripartite nello spazio del sapere per eventuali conoscenze, e per scienze possibili»[12]. La Storia (utilizziamo la “S” maiuscola seguendo Foucault) non rappresenta qualcosa all’interno del quale ritrovare le successioni temporali di un dato oggetto, bensì il luogo della loro apparizione e della loro sempre imminente disparizione. Si tratta di un luogo enigmatico che conduce tutte le forme del sapere a un indietreggiamento fino alla soglia di un “impensato” e di un “impensabile”, fino a un qualcosa che assume le forme di un “assedio”, nel momento in cui, duplicando la Storia in “fatti” e “dinamiche di senso”, l’interrogazione viene condotta di fronte a un’impossibilità di pensare contemporaneamente ciò che si manifesta come contingente e ciò che risulta essere la conseguenza di un “destino” (lasciamo il termine volutamente nella sua forma “vaghissima”). Il bisogno di origine nascerebbe nell’impossibile intersezione tra un “già sempre iniziato” e “una malinconia del momento aurorale”, o, ancor meglio, dal fatto che il “già sempre iniziato” non può che portare a una “malinconia dell’aurora” e a “un’attesa del tramonto”, una dialettica in poche parole tra rivoli d’acqua costantemente contaminati dalla mota della Storia e la fonte unica da cui tutto si deve pur essere originato e verso cui dovrà pur tendere a rifluire.
Se la Storia diviene allora il diagramma attraverso il quale l’uomo analizza se stesso e la realtà, se dunque è spezzato ormai il legame tra ordine della rappresentazione e ordine della realtà (la mathesis cartesiana), se nella frattura tra la parola e la cosa si è inserita la tensione dell’origine storica come un ripiegamento in una sorta di dialettica sempre riattivantesi, è chiaro che il problema dell’origine diviene centrale, diviene il luogo all’interno del quale l’uomo rischia di trovarsi sempre dinanzi alla sua finitudine assoluta, e cioè il fatto che scopre di appartenere a una Storia che non comincia con lui, la cui origine diviene misteriosa e il luogo di un’impossibilità di pensiero, un’impossibilità di raggiungimento da parte del pensiero.
Ancora una volta – e va sottolineato (anche se Foucault non ne parla, ma per metodo non parla solitamente di nessuno) – si tratta del momento darwiniano. Darwin rappresenta realmente una soglia, un punto di non-ritorno. Per comprendere il senso della modernità serve Darwin e forse il pensiero filosofico non ha fatto ancora i conti veramente con il significato dell’opera di questo naturalista. Se spesso si è detto ironicamente “maledetto sia Copernico!”[13], forse bisognerebbe dire ancor di più (e ancor più ironicamente) “maledetto sia Darwin!”, il quale realmente ha riposizionato completamente ogni forma di possibilità di interrogazione sull’umano. Una domanda sull’uomo non può oramai sfuggire all’ingiunzione darwiniana del fluire casuale della realtà, al fatto che c’è sempre qualcosa che pre-esiste all’uomo e che, per quanto si possa andare indietro, il problema dell’origine assume sempre di più il senso (umano, troppo umano) del bisogno dell’origine. Nella prima modernità (da Descartes a Kant) l’origine era un momento più logico che ontologico, più ipotetico che reale. Era lo “stato di natura” come funzione logica (ed ideologica) per pensare la strutturazione della realtà. Nella modernità vera e propria l’origine è quel bisogno che prova chi all’improvviso si è trovato abbandonato, di chi sa che il proprio logos non ordina più il mondo, che il mondo pre-esiste e durerà anche dopo l’avventura umana, che non c’è differenza ontologica ma soltanto di grado tra l’uomo e gli altri esseri viventi.
Allo stesso tempo il bisogno dell’origine spinge l’uomo alla ricerca di quel momento aurorale in cui può ritrovarsi e vedersi all’interno di uno specchio che gli restituisce la sua forma più pura, la sua forma più vera, la sua forma più incontaminata. L’Uomo (anche questa volta usiamo la “U” maiuscola come contrappunto alla Storia con la “S” maiuscola) dinanzi a se stesso e alla sua verità, l’Uomo come la figura inattaccabile del Medesimo e cioè la forma in cui l’Uomo può riconoscersi all’interno di un Medesimo che è prima di ogni Differenza. La Storia, come ciò che si insinua tra ordine della rappresentazione e ordine della realtà, si determina allora come la ricerca del puro e dell’incontaminato, del momento aurorale prima di ogni contaminazione storica, un momento che è già sempre sfuggente, già sempre inafferrabile e al limite impensabile, il momento da cui sgorga il vero senso dell’umano, che però è già sempre perduto nei mille rivoli della sua determinazione storica. Il bisogno dell’origine è la malinconia dell’uomo moderno ed è allo stesso tempo la tensione del suo avvenire, il compimento della ricerca della sua origine rappresenta la possibilità del compimento del senso della vita.
[1] G. Agamben, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 97.
[2] Ibid.
[3] Cfr. M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), tr. it. Feltrinelli, Milano 2009 e Id., Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri. II corso al Collège de France (1984), tr. it. Feltrinelli, Milano 2011.
[4] Cfr. Claude Lévi-Strauss, Introduction à l’œuvre de Marcel Mauss, in M. Mauss, Sociologie et anthropologie, PUF, Paris 1968, consultabile liberamente sul sito dell’Université du Québec (http://bibliotheque.uqac.ca/). Facciamo riferimento a questa trascrizione e le traduzioni sono da considerarsi nostre.
[5] Ibid.
[6] Cfr. G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
[7] J. Itard, Il ragazzo selvaggio (1801-1807), tr. it. SE, Milano 2003.
[8] Cfr. E. Boncinelli, G. Giorello, Lo scimmione intelligente, Rizzoli, Milano 2009.
[9] J. Itard, Il ragazzo selvaggio, cit., p. 46.
[10] Cfr. F. W. Nietzsche, Verità e menzogna in senso extramorale, tr. it. Newton Compton, Milano 1991, soprattutto questo passaggio: «certamente mai una foglia è del tutto uguale a un’altra, e certamente il concetto di foglia è formato attraverso il lasciar cadere queste differenze individuali ossia attraverso la dimenticanza di ciò che distingue, sicché spunta l’idea che nella natura al di là delle foglie ci sia qualcosa come la “foglia”, una sorta di forma originaria, sulla base della quale tutte le foglie sarebbero plasmate, disegnate, sfumate, colorate, dipinte, ma da mani inesperte, tanto che nessun esemplare possa riuscire corretto e sicuro come riflesso fedele della forma originaria» (p. 96).
[11] J. M. Coetzee, Foe (1986), tr. it. Einaudi, Torino 2005, p. 110.
[12] M. Foucault, Le parole e le cose (1966), tr. it. BUR, Milano 1978, p. 237.
[13] Ci riferiamo ovviamente alla famosa battuta del protagonista del romanzo Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello.