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Filosofia e scienza cognitiva oltre la Philosophy of mind?

Autore


RAFFAELE ARIANO

per singolarecomune https://singolarecomune.wordpress.com/

Indice


Reportage del convegno: Che cos’è un soggetto? Ontologie della soggettività, tra singolare e comune  (Cremona, 18 febbraio 2011)

  1. Introduzione: filosofia continentale e scienze cognitive
  2. Spirito, natura, soggetto: da Cartesio alla nuova scienza cognitiva
  3. Neuroni specchio, simulazione incarnata, cognizione grounded
  4. Tra singolare e comune: il potere della negazione

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S&F_n. 05_2011


  1. Introduzione: filosofia continentale e scienze cognitive

È stato un convegno singolare, quello che si è tenuto lo scorso 19 febbraio nella Sala Puerari del Museo Civico di Cremona. Quattro relatori di calibro, due filosofi (Massimo De Carolis e Paolo Virno) e due psicologi cognitivi (Vittorio Gallese e Anna Borghi), sono stati chiamati a cimentarsi, in un contesto e dinnanzi a un pubblico di non accademici, con il tema Che cos’è un soggetto? Ontologie della soggettività, tra singolare e comune. La giornata è stata organizzata da singolarecomune, associazione culturale di self education di estrazione spiccatamente non accademica che si prefigge di promuovere attività di studio e divulgazione sul territorio cremonese. Di fronte a un pubblico folto e variegato, che ha potuto contare sull’ampia partecipazione di studenti delle scuole medie superiori (una volta tanto, singoli volontari anziché gruppi cooptati per blocchi di trenta!), i relatori sono riusciti, a nostro avviso egregiamente, nel compito di rendere appetibili, senza per questo svilirle in presentazioni dal tono pop, tematiche di stringente attualità per la ricerca nel campo della filosofia e delle scienze cognitive, ma che sono nondimeno caratterizzate da un certo quantum di specialismo. Insomma, non era un’aria da festival quella che si respirava a Cremona, quanto piuttosto quella tipica dei convegni ad alto tasso di multidisciplinarità, nei quali ciascun relatore accetta di buon grado l’onere di tradurre i tecnicismi della sua disciplina in un vocabolario che sia comprensibile ai più, poiché spera che dall’interazione possa nascere la scintilla per qualcosa di nuovo.

Certo, il dialogo tra filosofia e scienze cognitive non è, di per sé, una novità. Tutt’altro. Il convegno cremonese, a ogni modo, sembra rendere leggibile una nuova e significativa linea di tendenza. Alla philosophy of mind classica, afferente in senso lato alla tradizione filosofica analitica, figlia dell’esperienza chomskiana[1] e centrata, a vario titolo, sul paradigma teorico del funzionalismo computazionale – di cui Jerry Fodor ha dato la formulazione più nota nel suo The Language of Thought[2] – , sembra sostituirsi un approccio differente, che tenta di far dialogare le nuove acquisizioni delle scienze cognitive, e segnatamente quelle che derivano dalla scoperta dei neuroni-specchio e dalle concezioni embodied e grounded della cognizione che da essa hanno ricevuto impulso, con una filosofia di matrice spiccatamente “continentale”. Che nella denuncia del solipsismo “cartesiano” della filosofia delle scienze cognitive classica si trovino concordi un filosofo come Paolo Virno e uno scienziato cognitivo come Vittorio Gallese, o che nella relazione di quest’ultimo si trovino citati piuttosto filosofi come Heidegger, Martin Buber o René Girard, che i più canonici Putnam, Searle o, appunto, Fodor, è certamente cosa non priva di rilevanza.

«Negli ultimi decenni – ha scritto Massimo De Carolis annunciando il convegno in un articolo sul Manifesto – il confronto tra la filosofia “continentale” e le nuove scienze della cognizione è stato afflitto da una palpabile diffidenza reciproca, che raramente ha lasciato spazio a un dialogo costruttivo». Eppure, queste due tradizioni di ricerca possono, se adeguatamente ripensate e fatte dialogare, condividere un obiettivo di massima: «quello di aprire la strada a una conoscenza rigorosa dei fenomeni più propriamente umani – quelli, cioè, definiti dal linguaggio, dalla cultura o dalla storia – lasciandosi alle spalle ogni residuo dell’antica distinzione metafisica tra spirito e natura»[3].

 

  1. Spirito, natura, soggetto: da Cartesio alla nuova scienza cognitiva

Proprio a Massimo De Carolis, docente di Filosofia teoretica all’Università di Salerno, è toccato il compito di aprire le danze, con un intervento che ha inteso fornire una contestualizzazione genealogica generale del problema del soggetto nell’ambito della filosofia moderna e delle scienze umane. La dicotomia tra spirito e natura, al cui superamento dovrebbero essere indirizzati secondo De Carolis gli sforzi congiunti delle scienze cognitive e della riflessione filosofica, trova infatti origine, nella nostra cultura, in quel “momento cartesiano” col quale è stata sancita per la prima volta la frattura irriducibile tra res extensa e res cogitans. Tale frattura, rielaborata e portata al rigore proprio dell’indagine trascendentale, è stata il perno attorno a cui si è strutturata l’impresa critica stessa di Immanuel Kant, per il quale risulta essenziale l’opposizione tra il regno della necessità naturalistico-deterministica che è proprio dei fenomeni, e quello di una libertà che, pur essendo ciò che definisce l’umano nel suo senso più proprio, può avere sede unicamente nell’ambito insondabile dalla ragione teoretica del noumeno. La definizione kantiana dell’uomo come “cittadino dei due regni” compendia, perciò, un’impronta generale del pensiero moderno, manifestandone, secondo De Carolis, la situazione paradossale: quanto nell’uomo vi è di più propriamente umano viene concepito come preda di questo spezzamento insanabile tra necessità e libertà, tra natura e spirito, e risulta perciò in ultima analisi “assolutamente inconcepibile”. La filosofia e le scienze dello spirito successive a Kant hanno posto a problema precisamente questa scissione, fornendo soluzioni che di volta in volta hanno cercato di risolverla inseguendo il progetto di una naturalizzazione totale dello spirito o, al contrario, affermando la sua radicale irriducibilità al dato naturale. La polemica che ha opposto psicologisti e anti-psicologisti nei primi anni del ‘900 è un chiaro esempio di questi sviluppi: è infatti a una riduzione dello spirito agli atti mentali, la quale preluderebbe a sua volta alla possibilità di identificare questi ultimi a stati cerebrali e, quindi, a una dimensione strettamente fisiologica, che si oppongono autori come Frege e Husserl. De Carolis si è soffermato in particolare sulla teoria fregeiana del senso, contenuta in un’opera come Über Sinn und Bedeutung, che mira precisamente a tener ferma la distinzione tra il dato psicologico costituito dalle rappresentazioni soggettive che gli individui si formano del mondo e l’elemento oggettivo e interindividuale che concerne il valore di verità degli enunciati. Un enunciato sarà vero o falso indipendentemente dalle rappresentazioni psichiche che i singoli individui se ne formano.

La lotta tra concezioni naturaliste e antinaturaliste ha continuato a segnare il dibattito filosofico e scientifico lungo tutto l’arco del secolo scorso. Tradizionalmente, però, solo il naturalismo filosofico, ha spiegato De Carolis, ha trovato una sponda salda nel campo della scienza sperimentale. Le posizioni antinaturaliste, infatti, si connettevano più direttamente a un approccio in senso lato “umanistico” e “letterario”, e suscitavano perciò la diffidenza degli scienziati di professione. Alcune novità di rilievo sembrano però cambiare oggi questo scenario, aprendo per la prima volta la possibilità di un dialogo tra i saperi sperimentali e un approccio in senso lato antipsicologista. Ma con ciò giungiamo, appunto, all’attualità del dibattito sulle scienze cognitive.

Se è vero, infatti, che la pietra di scandalo che costrinse Chomsky al definitivo allontanamento dal paradigma comportamentista fu precisamente la questione della creatività linguistica – che sin da Cartesio è stata vista come dimostrazione dell’irriducibilità dell’uomo a mera res extensa – lo è altrettanto la declinazione mentalistica della scienza cognitiva che ne è seguita, per la quale ogni competenza cognitiva richiede l’esistenza di una dotazione mentale innata, non fa che riproporre in forma nuova la vecchia declinazione kantiana del problema della libertà: intesa come applicazione ricorsiva di una dotazione innata di principi e parametri riguardanti la sintassi, la creatività linguistica può certo essere posta a oggetto di un sapere scientifico qual è, ad esempio, quello della linguistica generativa; ma in quanto tale, ovvero in quanto capacità specificamente umana di creare e comunicare un senso, essa rimane, anche nella prospettiva chomskiana, un mistero, qualcosa di completamente inattingibile.

Forse, ipotizza De Carolis, già le nuove acquisizioni della pragmatica stanno contribuendo a superare quest’impasse, chiarendo in modo sempre più chiaro la centralità della relazione e del “mettersi nei panni dell’altro” nei processi della comunicazione linguistica. Ma non si può dubitare che un vero e proprio ribaltamento del punto di vista nel concepire la cognizione umana sia derivato dalla scoperta del Sistema dei neuroni specchio. Per la prima volta, la scienza sperimentale sembra suggerire la possibilità di ricondurre all’esistenza di una specifica struttura neuronale la costruzione di quel piano interindividuale che Frege chiamava “senso” e che una lunga tradizione ha scelto, come si è già detto, di nominare col nome di “spirito”, opponendo quest’ultimo alla molteplicità delle psicologie individuali atomisticamente e solipsisticamente concepite. La scoperta dei neuroni specchio, conclude De Carolis, ci consegna l’idea che il piano dell’intersoggettività «non sia solo il risultato fragile, secondario, friabile dell’incrocio e dell’intreccio tra le prospettive individuali, ma ne sia invece il presupposto».

 

  1. Neuroni specchio, simulazione incarnata, cognizione grounded

A Vittorio Gallese, Professore ordinario di Fisiologia nel dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Parma e tra i padri, insieme a Giacomo Rizzolatti e Leonardo Fogassi, della scoperta dei neuroni specchio, e Anna Borghi, Professore associato al Dipartimento di Psicologia dell’Università di Lettere e Filosofia di Bologna, è toccato quindi il compito di illustrare in concreto le prospettive aperte dalla nuova scienza cognitiva.

Nonostante il contesto originario della scoperta dei neuroni specchio sia, oramai, noto ai più, Gallese ha scelto di richiamarlo per brevi cenni. Durante uno studio condotto, all’inizio degli anni ’90, sul sistema motorio del macaco, ripetute e inaspettate anomalie nell’attivazione di alcune zone della corteccia  premotoria ventrale (conosciute come area F5), riscontrate grazie all’uso di fMRI, permisero di scoprire l’esistenza di una particolare classe di neuroni motori che si attiva non solo quando l’animale esegue determinati movimenti (nel caso particolare, afferrare degli oggetti), ma altresì quando osserva altri individui, siano essi altre scimmie o esseri umani, che ne compiono di simili. L’anomalia consisteva, per dirla altrimenti, nel fatto che alcuni neuroni motori della scimmia “scaricavano” anche in momenti in cui l’animale era perfettamente immobile. La soluzione derivò dalla comprensione che quegli stessi neuroni si attivano sia quando la scimmia compie l’azione direttamente, sia quando la vede compiere da altri. Come ha rilevato Gallese, uno degli aspetti che sin da subito resero carica d’interesse questa scoperta, fu la possibilità di identificare un meccanismo neuronale che connetteva direttamente l’esecuzione di un atto motorio e la sua descrizione sensoriale (in questo caso una descrizione di tipo visivo, ma altrettanto sarebbe stato dimostrato per quelle di tipo uditivo – udire il rumore del guscio delle noccioline che viene spezzato attiva nel macaco le stesse aree che si attivano vedendo compiere la stessa azione, o compiendola direttamente). Iniziava a farsi strada l’ipotesi che questo meccanismo neurale di accoppiamento tra cognizione e azione possa spiegare, almeno in parte, il modo in cui vengono comprese le azioni dei conspecifici, e, questo, non quanto alla loro semplice raffigurazione “esteriore”, bensì quanto al loro significato interno, quanto al loro contenuto intenzionale. La comprensione delle azioni altrui non sarebbe frutto di una semplice rappresentazione esteriore – magari formulabile, come vorrebbero i cognitivisti, nei termini di atteggiamenti proposizionali – ma della loro “riproduzione” cerebrale immediata e a-rappresentativa nel cervello dell’osservatore.

Studi successivi hanno in seguito dimostrato che anche negli esseri umani agiscono meccanismi di “risonanza motoria” e “rispecchiamento” del tutto analoghi a quelli riscontrati nelle scimmie. Anche gli uomini, per dirla altrimenti, sono dotati di un Sistema dei neuroni specchio, il quale, a quanto sembrano dimostrare numerosi esperimenti che non ci è qui dato di rievocare in dettaglio, riguarderebbero non solo le azioni di mani, piedi e bocca, ma altrettanto le emozioni, le sensazioni di piacere e dolore e il linguaggio stesso.

Vittorio Gallese dà a tutto questo il nome di simulazione incarnata (embodied). La molteplicità dei sistemi di neuroni specchio disseminati nel cervello umano starebbe cioè alla base di un meccanismo cognitivo generale che reggerebbe insieme le capacità d’imitazione, di empatia e di attribuzione d’intenzioni significanti ai nostri simili, il quale funzionerebbe sulla base di simulazione motoria interna di natura automatica, irriflessiva e non proposizionale degli stati altrui. Sappiamo comprendere che cosa provano e quali intenzioni hanno i nostri simili non in base a un calcolo esplicito di tipo inferenziale – nella forma, tipica della scienza cognitiva classica, di una computazione su rappresentazioni – bensì in base a un rispecchiamento immediato operato dal nostro corpo. L’esistenza di uno spazio noi-centrico condiviso, per usare ancora una volta l’espressione di Gallese, sembra essere insomma la precondizione della comprensione che ciascuno di noi ha dei propri simili, tanto a un livello pragmatico quanto a quello emotivo e linguistico. L’intersoggettività è insomma una sorta di dato originario, che trova radicamento in ciò che Gallese ha definito intercorporeità.

Numerosi sono i suoi richiami espliciti alla filosofia continentale: a Edith Stein per il concetto di empatia, a Martin Heidegger per quello di Zuhandenheit (utilizzabilità), a René Girard per la teoria del desiderio mimetico; e ancora a Husserl, Patočka, al Martin Buber di Ich und Du. In chiusura del suo intervento, Gallese si è affidato alle parole di Helmuth Plessner: «La sfera in cui veramente il tu e l’io sono connessi nell’unità della vita e l’uno guarda direttamente in volto l’altro è riservata però all’uomo; è il mondo comune in cui non soltanto dominano le relazioni comuni, ma in cui la relazione comune è divenuta la forma costitutiva di un mondo reale del noi evidente che unisce io e tu»[4].

Dovremo per necessità richiamare in modo più rapido l’interessante intervento di Anna Borghi, che ha scelto di addentrarsi in maniera ancor più approfondita di Gallese nell’evidenza sperimentale più recente, allo scopo di illustrare quella che ha definito una prospettiva embodied e grounded sulla cognizione. Rispetto alla visione delle scienze cognitive tradizionali, che sembrano postulare una sorta di linearità unidirezionale che condurrebbe insensibilmente dalla percezione alla cognizione, e da quest’ultima all’azione, l’approccio embodied crede di poter dimostrare l’esistenza di una circolarità innata tra percezione, azione e cognizione. Centrale, tra quelle menzionate da Borghi, è senza dubbio la nozione di affordance. Prove tanto neurali quanto comportamentali sembrano attestare che quando osserviamo un oggetto si attivano nel nostro cervello le aree motorie deputate alle azioni che potremmo compiere con esso; come se la mela che abbiamo di fronte o il martello che scorgiamo sul tavolo “si offrissero” (to afford) originariamente, ossia già nel primo istante della percezione, all’interazione con noi, al toccare, al mordere, al raccogliere, al colpire. L’atto stesso della percezione di un oggetto, per dirla altrimenti, attiva in noi la simulazione delle azioni che potremmo compiere con esso. Un altro tassello della concezione cognitivista classica, per la quale era fondamentale la metafora che assimila la mente umana a un calcolatore, sembra in tal modo andare in crisi: anziché calcolare come computer, già nel percepire noi agiamo; percezione e azione sono indissolubilmente legate, e a loro volta intrecciate con processi della cognizione che solo in piccola parte possono essere considerati alla stregua di computazioni su rappresentazioni.

 

  1. Tra singolare e comune: il potere della negazione

A concludere la giornata di lezioni è stato l’intervento di Paolo Virno, docente di Filosofia del linguaggio all’Università degli Studi Roma Tre. Il punto di partenza è stata una proposta di riassestamento semantico: dal punto di vista di Virno, infatti, il concetto di spazio noi-centrico, proposto da Gallese, può essere assimilato a quelli di spazio pre-individuale e di esperienza inter-psichica, ma soprattutto a quello di comune, che fa parte da tempo della riflessione del filosofo napoletano[5].  Il comune sarebbe appunto quella dimensione pubblica e originariamente condivisa nella quale ancora non si distinguono un tu e un io, che costituisce la precondizione del darsi dell’individualità di ciascuno, di ciò che Virno sceglie di chiamare singolare. L’intervento ha in seguito tentato di articolare sul primo spazio noi-centrico, di cui avevano già parlato i precedenti relatori a proposito del Sistema dei neuroni specchio e del complesso senso-motorio, l’esistenza di un secondo spazio noi-centrico, di un secondo comune: quello dato dall’esistenza di un senso linguistico. Anche il linguaggio è comune: il senso degli enunciati, come si diceva sopra, è pubblico, viene condiviso da tutti pur non essendo proprietà di nessuno. È questa la prima dimensione di ciò che Virno chiama neutralità del senso: il senso degli enunciati è neutrale rispetto agli stati psicologici ed emotivi di coloro che lo comprendono. Ma esiste una seconda è più rilevante dimensione di questa neutralità, che introduce nel simbolico una componente di inattualità, di distacco dalle cose e dal mondo che è la precondizione di quelle forme di violenza, tipicamente umane, che sono legate al mancato riconoscimento del proprio simile ma, al contempo, anche di quella capacità, anch’essa specificamente umana, di essere delle individualità irripetibili. È infatti tipico del linguaggio umano che senso e denotazione si distinguono, che le parole e le cose, per dirla richiamando il titolo della capitale opera foucaultiana, entrino in contatto solo perché sono originariamente distinte. La parola, spiega Virno, è in grado di evocare un senso, lasciando al contempo in sospeso il suo effettivo riferimento a uno stato di cose. Tre figure del linguaggio declinano questa irriducibile peculiarità dell’umano: il domandare, il possibile e la negazione. Domandando «piove?», affermando «è possibile che piova», sancendo «non piove», l’uomo si fa capace di distinguere la propria parola dal mondo, il proprio essere da quello della natura, la propria individualità da quella del suo prossimo. In tal modo, è per lui possibile guardare il suo simile e affermare «costui non è un uomo»; ma lo è altrettanto guardare il mondo in cui vive e proclamare «questo non è il mio mondo, è possibile un mondo diverso». Tanto la violenza quanto l’utopia si radicano in questa dimensione negativa che è dischiusa, per dirla ancora una volta richiamando le parole di Plessner, unicamente a quell’animale eccentrico che è l’uomo.

 


[1] Cfr. D. Marconi, Filosofia e scienza cognitiva (2001), Laterza, Roma-Bari 2008, p.56.

[2] J. Fodor, The Language of Thought, Harvard University Press, 1975.

[3] M. De Carolis, La realtà preindividuale e il linguaggio, in «Il Manifesto», 18/02/2011.

[4] H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 332.

[5] Cfr. P. Virno, E così via, all’infinito. Logica e antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 2010.

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