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Antropologia della soggettività. Il destino dell’ente “patico” e l’uomo

Autore


Vallori Rasini

Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

Indice


  1. Medicina e pensiero positivistico
  2. Il soggetto nelle scienze antropologiche e biologiche
  3. Il patico e la crisi
  4. L’antilogica del vivente e la condizione umana

 

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S&F_n. 03_2010


 

  1. Medicina e pensiero positivistico

 

Con l’affermarsi del pensiero positivistico, nel corso del XIX secolo, la medicina ottiene il riconoscimento pieno di scienza naturale. L’imporsi dell’idea di progresso ne favorisce una trasformazione profonda, potenziando la fiducia nella ricerca e aprendo ampiamente le porte ai metodi del meccanicismo mentre, al contempo, essa si allontana progressivamente dalla speculazione e in generale dalla riflessione filosofica. Si deve a questo processo la nascita della clinica come laboratorio scientifico e centro di sperimentazione. Il padiglione clinico costituisce un moderno laboratorio in cui effettuare la valutazione del decorso della malattia e degli effetti della terapia; in questa struttura, l’osservatore raccoglie dati oggettivi, può adeguatamente registrare le fasi successive dell’affezione, separarle e studiarle in relazione ad altri dati esistenziali, con lo scopo di ordinare e classificare le modificazioni che si determinano rispetto a un andamento “normale” degli eventi. La malattia è sostanzialmente considerata come una deviazione momentanea da un percorso corretto, un “errore biologico” da sanare al più presto recuperando condizioni precedenti; è una degenerazione dannosa e priva di senso dalla quale l’organismo va liberato con il ripristino dello stato di cose perduto. Gli istituti di osservazione favoriscono l’isolamento e la descrizione delle patologie, e consentono, nella nuova epoca industriale, una più facile applicazione delle innovazioni farmacologiche e tecniche.

L’insorgere di un dislivello funzionale tra laboratorio clinico e padiglione ospedaliero è il sintomo più evidente della perdita di una continuità terapeutica. L’imporsi del pensiero fisiopatologico favorisce i progressi conoscitivi al prezzo di un allontanamento del medico dal paziente. In questo modo si determina una vera e propria frattura tra teoria medica e terapia concreta. Se prima il medico rappresentava una figura di riferimento indispensabile nella vita della famiglia, colui che cura l’uomo nella sua totalità, fatta di eventi e affetti, e che dunque merita la fiducia di un confidente e di una guida esistenziale, ora si fa strada una nuova tipologia di medico, che nel distacco dell’osservazione trova lo strumento principale per lo svolgimento della propria professione. Per cogliere dati oggettivamente validi, questa nuova figura deve limitare quanto più possibile l’interazione con il paziente e presentarsi nella veste di ricercatore neutrale. Nella Germania dell’Ottocento, l’adozione del latino durante la consultazione scientifica dinanzi al paziente è emblematica di questo atteggiamento, che deve demotivare qualunque partecipazione e promuovere un trattamento più “scientifico” dei dati[1].

Quando Viktor von Weizsäcker, allievo del noto fisiopatologo Ludolf Krehl di Heidelberg, propone il suo principio di “introduzione del soggetto nella biologia” si trova dinanzi a una situazione irrigidita, parzialmente infruttuosa sul piano scientifico e professionalmente fuorviante. Egli non è di per sé contrario all’applicazione delle scienze naturali nell’ambito medico, ma considera inappropriato il riduzionismo rigido che certo positivismo ostenta. Sedotto dall’ideale romantico della unione essenziale di uomo e natura, e dall’idea di una ricaduta sul soggetto e sulla consapevolezza di sé di ogni atto di conoscenza del mondo, Weizsäcker intende promuovere una rivoluzione nel rapporto tra medico e paziente, tra sapere antropologico e pratica terapeutica la quale, recuperando l’individualità della relazione che si è instaurata, renda possibile nuovi sviluppi scientifici, impensabili nell’ambito dell’impostazione positivistico-meccanicistica della medicina ottocentesca.

 

  1. Il soggetto nelle scienze antropologiche e biologiche

Il medico ha a che fare con un ente che non è paragonabile a un oggetto fisico qualunque. L’oggetto che quotidianamente gli sta dinanzi, con il quale si confronta senza poter evitare lo scambio, ha in sé un soggetto; e questo non si può ignorare. L’essere umano è un soggetto in quanto ente vivente. Allo stesso modo, il biologo ha a che fare con un oggetto in cui abita un soggetto[2]. L’introduzione della soggettività nelle scienze ha in primo luogo il valore di una massima da applicare alla ricerca sull’essere organico in generale, e non solamente in campo medico e antropologico. L’affermazione di questo principio rende impossibile una scissione netta tra un ambito soggettivo – quello dell'osservatore, collocato di fronte o di contro a qualcosa da osservare – e un ambito oggettivo della ricerca. Il rapporto tra osservatore e osservato è qui un rapporto tra soggetti, la cui distanza non ha il senso della estraneità reciproca, ma implica, al contrario, un coinvolgimento di entrambi.

Che la scienza biologica sia una scienza particolare è questione assai nota e discussa[3]. E la causa delle sue difficoltà teoriche e metodologiche risiede nella differenza specifica del suo oggetto, non omologabile a quello delle altre scienze. La fisica e la chimica possono affidarsi alla premessa dell’indipendenza dell’oggetto di conoscenza dal soggetto conoscente; non è così per le scienze del vivente:

mentre secondo il postulato della fisica l’oggetto esisterà senza variazioni anche indipendentemente dall’io – afferma Weizsäcker – l’oggetto della biologia è pensabile in generale solo se entriamo in uno scontro con esso; non si può presupporre una sua esistenza indipendente. Nella fisica si lascia che l’oggetto produca una affezione nella conoscenza; essa ne deriva di conseguenza. Il biologo, al contrario, si immedesima nel proprio oggetto e lo esperisce attraverso la propria vita[4].

 

Nella ricerca sull’essere vivente – non importa a quale regno esso appartenga – si può quindi ottenere vera conoscenza soltanto tramite un approccio speciale: solo partecipando alla vita la si può intendere; solo il vivente può cogliere il vivente, evitando di renderlo un semplice oggetto. Sottraendogli l’elemento soggettivo, l’oggettivazione riduce il vivente a un non vivente; così facendo lo spoglia di ciò che lo contraddistingue e priva il sapere della “relazione con la vita”. Se la fisica è soltanto oggettiva, «la biologia è anche soggettiva»[5]; e da questo dato non può e non deve prescindere. La ricerca sul vivente è dunque vincolata al principio della similarità tra conoscente e conosciuto e alla loro dipendenza da un fondamento comune.

Ma c’è di più. In ogni atto biologico, in ogni evento vitale, bisogna riconoscere un inscindibile legame – una “mistura” dice Weizsäcker – tra elemento soggettivo ed elemento oggettivo. Del resto, ciò che è soggettivo si afferma e si riconosce come tale solo nell’incontro con l'oggettivo, fuori di sé come all'interno di se stesso. Nell’incontro con l’ambiente, l’organismo afferma e dimostra la propria soggettività sotto forma di contrasto con l’altro; nei fenomeni organici della crisi e della ripresa il soggetto trova la propria identità grazie all’opposizione e alla discontinuità del proprio essere: si tratta dell’“antilogica” che regola il dominio del vivente. Ogni singolo atto di vita rappresenta un cambiamento improvviso, che non testimonia una costanza di funzioni ma al contrario la loro perpetua trasformazione[6]. Si può individuare in uno stimolo, in un istinto o in un oggetto il motivo di un singolo atto, tuttavia, quello che solitamente non possiamo sapere «è perché proprio ora, perché qui, si sia data questa azione»[7]. Caratteristica di ogni atto biologico è la capacità, nel rapporto al mondo, di superare le limitazioni imposte dal funzionamento organico attraverso la modificazione della forma delle risposte. Improvvisazione e cambiamento qualitativo dimostrano l’indipendenza dell’organismo dal proprio ambiente e sono una prova della soggettività del vivente, non meno di quanto lo sia la libertà di un’azione volontariamente compiuta[8].

Con la teoria del Gestaltktreis, concepita nei primi anni Trenta e compiutamente formulata nel 1940[9], Weizsäcker tenta di dare consistenza concettuale a queste idee, cerca di fornire una rappresentazione dell’intreccio inestricabile di soggetto e oggetto che interessa il vivente. La sua esperienza clinica, nella genesi di questa teoria, ha un ruolo determinante:

Penso che le sue origini siano particolarmente chiare e intuitive nelle esperienze e nelle asserzioni di certi malati, le quali però vengono percepite solo quando, superata la paura dinanzi al soggettivo, ci si abbandona anche alle più tenui impressioni. Di questo il clinico è meno preoccupato del ricercatore sperimentale. Egli prende le pietre per la costruzione della sua diagnosi laddove le trova, e mescola senz’altro le asserzioni soggettive del malato con i sintomi oggettivi, anche se, per la sua formazione moderna, predilige di gran lunga questi ultimi. Egli non è uno psicofisico metodico; la modalità logica secondo la quale nella diagnosi, nella prognosi e nella terapia mescola soggettivo e oggettivo è poco chiara a lui stesso; e anche se distingue tra essi criticamente, egli per così dire non ha consultato alcun codice che gli consenta di determinare il titolo e i limiti secondo i quali usare o rigettare un fenomeno o una asserzione. Non si deve tuttavia concludere che perciò quella mescolanza sia puramente casuale. Ci aspettiamo piuttosto che possa essergli utile per il fatto che in ipsa natura rerum regna un determinato ordine tra soggettivo e oggettivo. Il clinico sa solo che si sarebbe reso colpevole di negligenza se all’occorrenza non avesse utilizzato anche la più piccola manifestazione soggettiva per trovare la via del sapere in un caso oscuro. Ma già questo indica un profondo legame della soggettività e dell’oggettività[10].

 

Una simile visione delle cose comporta significative ripercussioni sul piano metodologico, modifica il senso dell’esistenza soggettiva e va a incidere inevitabilmente sul concetto di malattia.

 

  1. Il patico e la crisi

Il vivente ha come suo principale tratto la capacità di avvertire e di reagire, per questo “patisce”. Soltanto il vivente patisce; il corpo fisico inanimato non patisce e perciò non agisce realmente. La presenza del soggetto è responsabile di questo tratto ontologico, è il motivo della declinazione “sofferente” del corpo animato, che dunque si può definire ente patico: la passione ne è l’emblema e il dolore la tonalità fondamentale. Il dolore non è un semplice elemento di connotazione; è «ciò che ci risveglia dalla nostra pacifica identità col mondo»[11], e dunque ciò che distingue il soggetto dall’altro da sé, ma insieme ciò che lo unisce a esso. Produce all’interno del soggetto una scomposizione tra un io e un es e un fenomeno di autoestraneazione nel dissidio e nel bisogno di decisione. E se da una parte si vincola alla morte rappresentandone l’anticipazione, dall’altra compenetra il divenire vitale in quei momenti di rigenerazione e di sviluppo che lo confondono con il piacere. Sul piano immediato dell’impatto con esso, il dolore si dimostra stimolo e sollecitazione intersoggettiva, causa di contatto e di interazione tra soggetti[12]. Tutto il regno della vita si può considerare articolato secondo un ordine del dolore.

L’ente patico dà consistenza alla propria soggettività mediante una corrispondenza coerente, ma profondamente “antilogica”, con il proprio “altro”, in un processo caratterizzato dalla limitazione e da continue autoestraneazioni e autoidentificazioni. Si potrebbe dire che in questo modo l’ente patico dà corpo al soggetto, poiché il soggetto qui ha ed è sempre anche corpo, mobilità fisica e percezione sensibile. Per questo non si può identificare il soggetto con la psiche o la spiritualità: «la paura dinanzi al nemico nella sfera psichica esprime la stessa cosa di un’applicazione motoria nella sfera fisica e i desideri esprimono lo stesso dei movimenti coordinati della presa»[13]. Per questo la soggettività non riguarda solo l’essere umano, ma il vivente, la vita in generale.

Tutto ciò è connesso al fatto che la vita di un organismo trascorre nell’oscillazione continua, sempre a rischio di crisi e di caduta. Il fenomeno della crisi rappresenta un chiaro segnale di denuncia del soggettivo ed è un processo tipico della realtà vivente, consistente in una frattura rispetto a un andamento considerato regolare, caratterizzato dall’improvvisazione con cui si determina la svolta e dall’impossibilità di darne una spiegazione in termini causali.

Accade […] che il corso di determinate disposizioni venga interrotto più o meno bruscamente a causa della comparsa di un avvenimento affatto impetuoso; con esso e attraverso di esso è possibile giungere a un nuovo e diverso quadro, dalla struttura evidente, che può essere spiegato tramite analisi causale. Ma non si riesce a dedurre semplicemente questa nuova condizione dalla precedente. Per questo, così sembra dalla successione temporale, sarebbe necessario spiegare esattamente in che modo la crisi si colloca come un elemento posto tra la prima e la terza condizione, ma è proprio ciò che non si riesce a fare[14].

 

La crisi non rispetta il rapporto tipico del processo deterministico: la derivabilità di un effetto dalla causa. Lo stato di crisi non è un semplice effetto, ma un nuovo avvenimento che irrompe in modo improvviso e imprevisto nel corso del processo vitale. Sono principalmente le sensazioni soggettive del malato a testimoniare il carattere di frattura interiore, di salto, rispetto al precedente corso delle cose. La lettura che di esse si deve dare testimonia l’abbandono della continuità soggettiva, uno strappo interno al soggetto. Questa frattura interviene sull’identità soggettiva, che ora si perde in un nuovo corso, non riuscendo momentaneamente a ritrovarsi. Ma il soggetto non ha la propria essenza nella quiete della stabilità. È il divenire a scandire l’essere specifico del vivente e la soggettività non può che costituirsi nell’inquietudine di una ricostituzione continua:

Si può dire che notiamo positivamente il soggetto solo quando minaccia di scomparire nella crisi. A certe cose si crede solo quando non le si ha più. Il soggetto non è un possesso stabile. Lo si deve conquistare continuamente per possederlo[15].

 

La sua unità, l’integrità soggettiva si costituisce proprio in un processo dominato dalla instabilità delle crisi. La sua minaccia non è sempre palese, ma le conseguenze diventano manifeste nel crollo, e la ripresa dalla fase critica segna sempre un nuovo orientamento, dimostrando la grande forza del soggetto, le sue variegate risorse e la sua versatilità: la crisi è anche un banco di prova.

 

  1. L’antilogica del vivente e la condizione umana

L’antologica non è […] una caratteristica contingente – dice Weizsäcker negli Anonyma del 1946 – ma una conseguenza necessaria e un contenuto costitutivo di un mondo che include più di un essere vivente o anche di un vivente che muta nel mondo»; e aggiunge: «si possono raccogliere i due casi nell’unica frase secondo cui un mondo in cui vi sia un soggetto deve essere antilogico. Se si nega il soggetto non si perviene a questa conoscenza. Essa è necessaria quando si “introduca” il soggetto nel mondo, o meglio quando si riconosca il soggetto[16].

 

La vita, implicando la soggettività, si qualifica come profondamente antilogica: non rispetta il principio del terzo escluso (un artificio puramente razionale) e contempla la contraddizione, il paradosso, l’assurdo tra le sue modalità d’essere più essenziali. In un saggio del 1950 Weizsäcker scrive: «chiamo antilogica la gaia libertà della vita di usare la ragione solo nella misura in cui è ragionevole farlo, per il resto di gettarla dalla finestra»[17]. La vita si può definire antilogica non perché sia “contro”, ma perché è “oltre” la logica. Nel perseguire i suoi fini, si serve infatti di mezzi estremamente variabili e sostituibili improvvisamente, imprevedibilmente; solo in questo senso essa è contraddittoria. Il principio antilogico definisce il reale come non sistematizzabile, giacché l'opposizione insita nella vita non si può ingabbiare in un sistema che ne consenta la “soluzione”: ogni passaggio antilogico rappresenta un salto, un momento di discontinuità; ogni posizione – cioè ogni verità – apre un baratro e implica un non sapere. L'antilogica ha il significato della possibilità sempre aperta della posizione dell'altro. Qui si trova la base della concezione dell'organico in generale e di ogni antropologia.

La riflessione sulla contraddizione e la dialettica nella vita – tra ragione e passione, razionale e spirituale nell'ambito dell'esperienza quotidiana – conduce Weizsäcker a pensare alla vita umana in termini drastici: «nel salto, che eternamente precipita nell'abisso o mantiene sospesi su di esso esistiamo nel nulla»[18]. Non vuole trattarsi di un vero trionfo del negativo; anche se questo riconoscimento prepara il terreno al dissidio più estremo al quale è destinato l’uomo, il soggetto autocosciente, che nella perdita di se stesso ritrova il vuoto spessore dell'inconsistenza esistenziale fino al momento della morte.

L’esistenza umana è condannata all'inquietudine; un tema ricorrente negli scritti di Weizsäcker, che afferma: «il fondamento più profondo dell'inquietudine patica sta nel fatto che un vivente non è nella stasi; esso è insieme se stesso e qualcosa che si modifica, quindi un'essenza diveniente»[19]. E l’uomo, in particolare, sperimenta l’evolversi del reale colorandolo sentimentalmente. Per potersi ritrovare, egli deve come invertire il senso di marcia, e tornare a guardarsi, cercando il proprio fondamento: un fondamento che tuttavia non potrà mai trovare. Per uno strano destino, la ricerca di sé nasconde ciò da cui essa distoglie lo sguardo anche solo momentaneamente e l’io, mentre si guarda, perde una parte di se stesso. Ma proprio in questo percorso si rivela la natura umana: «in ciò sperimentiamo anche qualcosa sul fondamento dell'inquietudine, che è chiaramente il fondamento della natura contraddittoria della nostra esistenza: il fondamento di entrambe – della contraddizione e dell'inquietudine – è nell'ascosità reciproca delle nostre esistenze nel Gestaltkreis», il quale «si deve percorrere, e si devono soffrire i suoi contrasti, in un continuo perder-di-vista e in un sempre nuovo perdere-effetto, al fine di ottenere qualcosa di nuovo»[20]. Così, la ripetizione della perdita – e della crisi – è condizione di possibilità del ritrovamento identitario.

 

 


[1] T. Henkelmann, Viktor von Weizsäcker. L'uomo e la sua opera, in V. Von Weizsäcker, Filosofia della medicina, tr. it. a cura di L. Bottani e G. Massazza, a cura di T. Henkelmann, Guerini, Milano 1990, pp. 17-75 e p. 23.

[2] Si veda V. von Weiszäcker, Der Gestaltkreis. Theorie der Einheitvon Wahrnehmen und Bewegen (1940), in Gesammelte Schriften IV, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 186 sgg., p. 295.

[3] Si veda ad esempio E. Mayr, L’unicità della biologia. Sull’autonomia di una disciplina scientifica, tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2005.

[4] V. von Weiszäcker, Der Gestaltkreis (1940), cit., p. 295 [le traduzioni dall’opera Der Gestaltkreis sono mie].

[5] Ibid.

[6] Ibid., p. 304.

[7] Ibid., p. 302.

[8] Ibid., p. 306.

[9] Prima di pubblicare il volume del 1940, Weizsäcker aveva enunciato le sue tesi principali in un saggio comparso qualche anno prima in rivista, dal titolo Der Gestaltkreis, dargestellt als psychophysiologische Analyse des optischen Drehversuchs, in «Pflügers Archiv der gesamten Physiologie des Menschen und der Tiere» 231 (1933), pp. 630-66, ora in Id., Gesammelte Schriften, IV, cit., pp. 23-61.

[10] Id., Der Gestaltkreis,(1940), cit., p. 296.

[11] Id., Il dolore in Id., Filosofia della medicina, cit., pp. 97-117, p. 102.

[12] Ibid., p. 99.

[13] Id., Der Gestaltkreis (1940), cit., p. 313.

[14] Ibid., p. 297.

[15] Ibid., pp. 300-301.

[16] Id., Anonyma, in Gesammelte Schriften VII, cit., pp. 43-89, p. 51 (tr. it. Filosofia della medicina, p. 181, traduzione modificata).

 [17] Id., Das Antilogische, in Gesammelte Schriften VII, cit., p. 317.

 [18] Id., Begegnungen und Entscheidungen, in Gesammelte Schriften I, cit., p. 372.

 [19] Id., Anonyma, cit., p. 53 (traduzione modificata, p. 183).

 [20] Ibid., p. 55 (traduzione modificata, p. 184).

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