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Abstract
This paper, by way of the destiny of Diderot’s Paradox of the Actor, aims to describe the framework of the question of affective dimension in the late 19th Century, investigated in its scientific, physiological, clinical and philosophical implications. A sort of hyperbole where the excessive sensibilities of hysterics, maybe simulated in dramatizing acting, were obliged to fall asleep, to be removed in order of being replaced by a different sensibility “performed” in virtuoso sounds.
- Paradossi
Storia davvero paradossale quella del Paradosso sull’attore di Diderot: l’assenza di sensibilità ingiunta all’attore che voglia essere grande attraversa il tempo fino al Novecento inoltrato, e risuona come se fosse stata teorizzata il giorno prima[1].
La pubblicazione molto tardiva del testo, avvenuta solo nel 1830[2], lo condanna da subito, invece che all’indifferenza e all’oblio, ad una sorta di vitalità perversa: il Paradoxe non cessa infatti, nel corso di tutto l’Ottocento, di essere discusso, approvato e respinto, ma del tutto al di fuori del discorso filosofico di Diderot. Sono gli attori, soprattutto, a mantenerlo in vita, richiamandone quell’unica tesi centrale con inevitabile parzialità all’interno di riflessioni e ripensamenti sull’arte della recitazione[3]. Due attori drammatici francesi, Talma e Coquelin, sono forse i più celebri ad essersi pronunciati sulla tesi diderottiana: Talma, nel 1825, esprimeva un parere contrario[4], Coquelin molti anni dopo, a favore[5].
Fu anche un attore drammatico, Henry Irving, a scrivere la prefazione alla prima traduzione inglese del Paradoxe, nel 1883; prefazione che mostrava in più punti, insieme ad una parzialità quasi animosa nella lettura del testo diderottiano, una sorta di confusione di ambiti: il “principio” dell’assenza di sensibilità, infatti, si trovava ad essere discusso e stigmatizzato ora sul terreno dell’arte della recitazione, ora su quello psico-antropologico, e perfino morale. Già le prime affermazioni sono in questo senso indicative: Diderot, si dice, dopo essersi persuaso che la sensibilità non deve avere posto alcuno nella pratica attoriale, si dispone «a provare che essa è una delle disgrazie, addirittura uno dei vizi della mente umana»[6]. «Non è affar mio», dice Irving poco dopo, «prendere le difese della natura umana contro la fantasia del filosofo»[7]. Benché Diderot avesse la più alta opinione dell’arte della recitazione, la figura dell’attore che sbalzava dalle sue pagine era «una creatura senza valore, senza carattere né individualità, e totalmente priva di senso morale». Forse erano gli attori del tempo di Diderot ad essere così privi di sensibilità non solo sul palcoscenico ma anche nella vita, certamente non si poteva pretendere che fosse vero ai tempi di Irving[8]. Era anzi ipotizzabile e auspicabile che un attore dotato di estrema sensibilità riuscisse a dominarla e a trasfonderla sulla scena[9].
Ma dopo aver chiamato a sostegno delle sue tesi le testimonianze di più di un attore, Irving concludeva abbandonando, inaspettatamente e improvvisamente, animosità e toni polemici: «Forse rimarrà sempre una questione aperta fin dove arte e sensibilità possano fondersi in una stessa mente. Ogni attore ha il suo segreto: potrebbe scrivere volumi di spiegazioni e la questione rimarrebbe un paradosso. […] L’esaltazione della sensibilità nell’arte può essere difficile da definire, tuttavia è reale per tutti coloro che abbiano sentito il suo potere»[10].
Queste pagine potrebbero rimanere un episodio marginale nella lunga “fortuna” del Paradoxe, segno semplicemente della scarsa “competenza”, per così dire, di un attore peraltro benemerito nella promozione della cultura teatrale e nella diffusione di testi[11]. Ma pochi anni dopo, nel 1888, compariva un libro destinato ad avere grandissima risonanza, che raccoglieva e in qualche modo rilanciava le confuse critiche di Irving: Masks or Faces? A Study in the Psychology of Acting, scritto da William Archer, attore e critico teatrale. Il testo si proponeva di affrontare in modo “scientifico” e definitivo la questione sollevata dal Paradosso di Diderot, che l’aveva fondata su prove troppo esili, pochi aneddoti di interpretazione incerta. Una discussione davvero utile sull’argomento avrebbe dovuto svolgersi non tra un Primo «dogmatico» e un Secondo «docile», come nel dialogo costruito nel Paradoxe, ma tra uno psicologo esperto ed un attore anch’egli esperto e versatile. Archer si dichiarava null’altro che uno «psicologo dilettante», ma, persuaso che si dovesse finalmente tentare un’indagine accurata sulla questione, vi si cimentava: certo il suo libro avrebbe potuto in più punti aver bisogno di una revisione, diceva, ma almeno egli aveva raccolto una massa di dati e testimonianze di gran lunga più ricca di quanto fosse stato fatto fino a quel momento[12].
Archer, a tal fine, aveva proposto a grandi attori domande che non lasciassero spazio all’ ambiguità o ad interpretazioni soggettive[13]. Non quindi domande generali come: «Lei prova sentimenti [Do you feel] quando recita? », «Si identifica con i personaggi che interpreta?», «Pensa che la sensibilità sia un vantaggio o uno svantaggio?»; sarebbe stato necessario un intero trattato solo per definire con precisione il significato di queste domande, e ci si sarebbe affidati troppo alle capacità di introspezione degli attori. Si poteva sperare di giungere a risultati concreti limitando le domande ai soli «sintomi esterni [outward symptoms]», riservandosi il compito dell’interpretazione; «una lacrima, un rossore, un tremito sono fatti esteriori, visibili, sensibili», suscettibili di osservazione e descrizione come ogni altra azione: su questi «particolari esterni» quindi Archer aveva deciso di concentrare l’attenzione[14].
Il testo che ne deriva è bizzarro e complesso, scandito in capitoli ciascuno dei quali, nell’intenzione dell’autore, tratta la questione proposta in una delle domande; i capitoli sono gravati da un’ampia messe di citazioni, in cui l’«interpretazione», che Archer aveva conservato per sé, irrompe a sprazzi, brevemente e spesso in modo criptico, ripetendo in più punti l’attacco a Diderot. Che Archer fosse a favore delle tesi dette «emozionaliste» sembra non esserci dubbio, più oscuro resta il principio “psicologico” sotteso a questa presa di posizione. L’apertura del cap. X dà però, in questo senso, un’indicazione preziosa: «Il vero paradosso della recitazione […] – si dice - si risolve nel paradosso dello sdoppiamento della coscienza. Se fosse vero che l’attore non può provare un’emozione senza abbandonare ad essa l’anima intera, la teoria di Diderot, benché comunque un tantino esagerata, sarebbe giusta nell’essenziale. Ma la mente non è costituita a questo modo»[15].
Sembra chiaro qui che ad essere inaccettabile è l’abbandono totale all’emozione, l’esserne completamente posseduti. Si chiarisce anche l’equivoco sulle tesi diderottiane, manifestato già, nel testo, quando Archer, prima di dare inizio al resoconto della sua indagine, discuteva la definizione di sensibilità proposta da Diderot; concludendo, citava un passo del Paradoxe: «La sensibilità […] è, mi pare, quella disposizione compagna della debolezza dell’organismo, effetto della mobilità del diaframma, della vivacità dell’immaginazione, della delicatezza dei nervi, che inclina a […] a perdere la ragione, a esagerare, a disprezzare, disdegnare, a non avere alcuna idea precisa del vero, del buono e del bello, a essere ingiusti, a essere folli»[16]. Archer dichiarava che allora, secondo questa definizione, «la sensibilità è uno stato morboso del corpo e della mente». Supponendo poi che una sola causa possa provocare una tale moltitudine di effetti, «possiamo chiamare sensibilità quella causa? Un nome sicuramente molto più adatto per quella malattia è isteria. Sostituendo questo termine, allora, possiamo leggere così la tesi di Diderot: “Il grande attore non deve essere isterico”. D’accordo, ma dov’è il paradosso?»[17].
Anche Irving, nella sua Prefazione, aveva detto che, per proporre il suo paradosso, Diderot doveva supporre che la sensibilità fosse «un’emozione selvaggia e ingovernabile, assolutamente fatale ai nervi di coloro che ne sono afflitti»[18].
Trascuravano, sia Irving che Archer, il contesto in cui Diderot aveva collocato la sua definizione di sensibilità: la dichiarata necessità, per l’attore, di «riprodurre tutte le nature, anche le nature feroci», dunque anche quelle lontanissime dal proprio vissuto e dalla propria “sensibilità”, anche «le carneficine di Shakespeare»[19]. «L’uomo sensibile – diceva ancora Diderot – è troppo in balia del suo diaframma per essere un grande re, un grande politico, un grande magistrato, un uomo giusto, un profondo osservatore, e di conseguenza un sublime imitatore della natura, a meno che non riesca a dimenticarsi, a distrarsi da se stesso, a crearsi mediante una forte immaginazione, e a mantenere fissi nella memoria, dei simulacri che gli servano da modello; ma allora non è più lui che agisce, è lo spirito di un altro che lo domina»[20]. E questo, certo, non poteva piacere né ad Irving né ad Archer[21].
Nel libro di Diderot, comunque non privo di ambiguità, non c’è timore degli eccessi, sulla scena e nella vita, purché l’eccesso sia “naturale”. E c’è, quanto all’arte della recitazione, una netta separazione tra palcoscenico e platea: l’attore deve imitare al meglio le passioni perché il pubblico possa avvertirle e sentirle nella loro pienezza. Lo spettatore può attraversare, grazie alla rappresentazione teatrale, tutta la gamma delle passioni più estreme e più remote da sé, proprio perché l’attore si serve non della sua limitata sensibilità, ma di un’arte senza limiti[22]. Sebbene Diderot faccia più di una volta riferimento alla sensibilità come debolezza dell’organismo, non c’è traccia, nella sua caratterizzazione, di accenti che richiamino un ambito “morboso” o “patologico”: «perdere la ragione», «essere folli», è, nella vita, pienamente legittimo, come legittimi e vitali sono tutti gli «effetti» della sensibilità che in parte Archer aveva tagliato nella sua citazione del Paradoxe: compatire, fremere, ammirare, temere, turbarsi, piangere, svenire, soccorrere, fuggire, gridare.
- Mimetiche meccanizzate
Al fondo del Paradoxe, com’è ovvio, lavora tutt’altra “psicologia” rispetto a quella degli ultimi decenni dell’Ottocento, quando scrivono Archer e Irving, quando Archer azzarda la sua indagine psicologica: una psicologia che insegue a tappe forzate, proprio in quegli anni, una “scientificità” nuova, ed incrocia su questo percorso, intricato e multiforme, l’arte mimetica dell’attore.
Archer, in verità, citava assai poco psicologi che non fossero, come lui, “dilettanti”[23]; richiamava invece, più volte, il testo di Darwin comparso nel 1872, L’espressione delle emozioni. Del tutto indifferente all’ipotesi evoluzionistica che ne era il fondamento, ricorreva al testo darwiniano come ad una testimonianza “neutra”, “oggettiva”: l’aumento della traspirazione, ad esempio, quando si è in preda a forte dolore o paura; la gestualità che intensifica l’emozione[24]. Che Darwin parlasse indifferentemente di emozioni e traspirazione in uomini, cavalli o rinoceronti sembrava, per inciso, non turbarlo affatto. Fedele alla sua intenzione originaria, quella di attenersi nella sua indagine ai soli sintomi esterni, corporei, Archer evidentemente considerava il lavoro di Darwin del tutto affidabile; l’espressione degli attori, in cui Archer cercava i segni di una sensibilità “equilibrata”, è anche quella di tutti gli uomini.
Darwin aveva, di fatto, costruito e offerto alle ricerche psicologiche di quegli anni una nuova fisiognomica, in un momento in cui lo studio e la comprensione della dinamica emozionale passava di necessità attraverso lo studio delle espressioni, dei movimenti del volto e del corpo[25]. Nell’Introduzione a L’espressione delle emozioni, Darwin aveva lamentato la scarsa utilità dei più celebri trattati di fisiognomica pubblicati tra il 1600 e l’inizio del 1800 – Le Brun, Camper, Lavater – e aveva invece indicato come riferimenti importanti studi che, nel corso dell’Ottocento, avevano stabilito un nesso fondante con la fisiologia: Anatomy and Philosophy of Expression di Charles Bell, ad esempio, e The Physiology or Mechanism of Blushing di Burgess. Ma dichiarava un debito particolare con il medico Duchenne, il quale gli aveva permesso di riprendere tutte le fotografie che desiderava dal suo trattato Mécanisme de la Physionomie Humaine, pubblicato nel 1862[26].
La fotografia era infatti elemento indispensabile della nuova “oggettività” garantita dalle indagini fisiologiche; di più, essa aveva promesso, fin dal suo nascere, di «cambiare il volto» della ricerca scientifica, consentendo l’esercizio del metodo induttivo, l’osservazione e l’esperimento, come mai prima[27]. Ma il circolo virtuoso che, nelle intenzioni degli scienziati del tempo e dello stesso Darwin, si stabiliva tra la fisiologia delle emozioni e la sua rappresentazione fotografica “oggettiva”, incontrava, proprio nel momento dell’osservazione, il difetto della rappresentazione fittizia, il vizio della simulazione.
Duchenne, che era tra gli artefici di questa profonda innovazione, aveva infatti offerto una mimesi meccanizzata delle passioni umane, o, per meglio dire, elettrificata. Come annotava l’introduzione anonima alla seconda edizione del Mécanisme de la Physionomie Humaine, prima di lui Le Brun, Camper, Moreau e perfino Bell avevano trattato il ruolo dei muscoli nell’espressione della fisionomia, ma senza grandi risultati, perché non avevano fatto uso dell’elettricità. Duchenne invece, utilizzandola per «far parlare ai muscoli del volto il linguaggio delle passioni», aveva compiuto un’indagine di importanza epocale, nella quale, fra l’altro, aveva mostrato «una singolare attitudine all’osservazione psicologica» [28]. Ma Duchenne aveva provocato le espressioni facciali con l’applicazione di piccole scosse elettriche calibrate – pur sempre fastidiose, ammetteva – e poi le aveva offerte, con la fotografia, all’osservazione. Pur essendo persuaso che l’anima fosse la sorgente dell’espressione, che fosse l’anima a mettere in moto i muscoli, a far loro «dipingere sulla faccia [...] l’immagine delle nostre passioni»[29], egli si sostituiva a questa fonte interna forgiando dall’esterno quella che chiamava l’«espressione sintomatica delle passioni»[30]. Certo, al contrario di coloro che l’avevano preceduto negli studi fisiognomici, Duchenne avvertiva la necessità di afferrare l’estrema mobilità dell’espressione: voleva offrire dunque alla scienza quello che chiamava con orgoglio «un nuovo tipo di anatomia», «un’anatomia animata»[31]; toglieva però all’”animazione” – troppo volatile e fuggevole per essere osservata – ogni spontaneità, di fatto ogni carattere espressivo: la linea che corre tra l’emozione e la sua espressione rimaneva tutta, nelle sue “osservazioni”, sulla superficie del volto, nel gioco dei suoi muscoli. Duchenne però non aveva alcun dubbio sull’utilità di questa nuova «fisiologia muscolare del volto umano», sul suo intimo legame con la psicologia[32]; ne faceva quindi derivare una nuova classificazione delle emozioni e delle loro espressioni, schema in cui, teneva a dire, aveva inserito soltanto «le espressioni […] ottenute artificialmente, e […] fissate, per la maggior parte, con l’aiuto della fotografia»[33]. Non lo si sarebbe potuto accusare di aver «censito» le passioni umane «arbitrariamente – come invece hanno sempre fatto i filosofi –, perché esse sono la riproduzione di quelle che l’anima stessa ha dipinto sul volto dell’uomo»[34]. All’anima però non era possibile – come invece aveva sostenuto Descartes – nascondere o simulare le sue passioni. «È vero - ammetteva Duchenne – che certe persone, soprattutto gli attori, possiedono l’arte di simulare passioni che esistono realmente soltanto sulla loro fisionomia o sulle loro labbra. Creandosi una situazione immaginaria, essi possono, in virtù di un’attitudine speciale, fare appello a emozioni artificiali [artificielles]». Tuttavia, aggiungeva, gli sarebbe stato facile dimostrare «che non è dato all’uomo simulare o dipingere sul suo viso certe emozioni, e che un osservatore attento può sempre smascherare un sorriso bugiardo»[35].
C’era stato però un momento, nell’enorme lavoro di “produzione” e riproduzione dell’espressione delle emozioni, in cui Duchenne aveva ceduto alla tentazione di approfittare dell’arte mimetica dell’attore, della sua capacità di simulare, e lo aveva fatto, paradossalmente, solo laddove aveva avvertito la necessità di un’incursione nella “naturalità” dell’espressione.
Duchenne aveva utilizzato, per “rappresentare” e poi fotografare la maggior parte delle espressioni sotto stimolazione elettrica, un vecchio sdentato, non bello, ma provvidenzialmente quasi insensibile alle piccole scosse che gli venivano somministrate; era quasi, diceva, come un «cadavere ancora irritabile». Le sue espressioni indotte erano sì artificiali, ma non «catturavano meno la verità»[36]. E tuttavia «la dimostrazione dei fatti messi in luce dalla sperimentazione elettro-fisiologica non poteva essere completa senza che fossero rappresentati per mezzo della fotografia i movimenti espressivi naturali [naturels], a paragone con quelli prodotti tramite l’elettrizzazione localizzata»[37]. Duchenne non spiegava di più, la sua sembrava essere semplicemente un’esigenza di completezza. Individuati quindi i muscoli che muovono le sopracciglia come quelli che, tra tutti i muscoli espressivi, obbediscono di meno alla volontà, quelli che possono essere mossi parzialmente solo dall’ «emozione dell’anima», Duchenne si trovava però sprovvisto di un “modello” adatto a “rappresentare” questi movimenti indotti dall’emozione: il vecchio utilizzato come «cadavere ancora irritabile» era «troppo poco intelligente e troppo poco impressionabile per rendere lui stesso le espressioni» che Duchenne aveva «riprodotto sulla sua faccia»[38]. Era necessario un soggetto attivo e sensibile, ma anche abile simulatore: un «caso fortunato» aveva fatto incontrare a Duchenne un «artista» che era arrivato ad avere, dopo lungo esercizio, ampio dominio sui movimenti delle sue sopracciglia; un artista di talento ma anche un «anatomista», curioso di fare questo studio su se stesso. «Facendo appello ai suoi sentimenti [sentiments], egli rende spesso con perfetta verosimiglianza la maggior parte delle espressioni proprie di ciascun muscolo delle sopracciglia». L’«artista» non solo aveva acconsentito ad essere fotografato in questi “atteggiamenti”, ma si era anche prestato ad una sorta di conferma empirica del dato acquisito: si era sottoposto, cioè, alla «faradizzazione [faradisation]» dei muscoli che muovevano le sue sopracciglia, e Duchenne aveva potuto constatare che «i movimenti artificiali erano simili ai movimenti espressivi [expressifs] che erano provocati dai suoi sentimenti»[39].
La fotografia aveva un ruolo non marginale in questo paradossale circolo vizioso tracciato tra autenticità e artificio dell’espressione delle emozioni: era uno “specchio” – così la definiva anche Duchenne[40] – che permetteva nello stesso tempo l’artificio della “messa in scena” e l’illusione di una verità oggettivata[41].
Anche Darwin, nel redigere il suo testo sull’espressione delle emozioni, cadde nella trappola illusoria della fotografia come “documento oggettivo”: non ritenendo sufficienti le fotografie di cui era in possesso, e mancandogli ancora immagini che illustrassero le espressioni degli adulti, si rivolse ad un singolare artista e fotografo, Oscar Rejlander, noto per le sue manipolazioni di negativi fotografici. Non sempre fu facile a Rejlander soddisfare le richieste di Darwin, tanto che in un’occasione gli scrisse: «è difficilissimo ottenere a comando le espressioni che voi desiderate, pochi hanno la padronanza o l’immaginazione necessarie per apparire realistici. […] Così ho provato in propria persona – mi sono perfino accorciato i baffi, per cercare di farvi piacere…»[42].
Prova modesta, ma pur sempre prova d’attore.
- Foto isteriche
«In verità io sono semplicemente un fotografo, affermo quel che vedo»[43]. Questa la dichiarazione di Jean-Martin Charcot in una delle sue “lezioni del martedì” nell’ospedale parigino della Salpêtrière, lezioni che sono forse tra gli episodi più celebri dell’intera storia della psichiatria.
In quella che è stata spesso definita come una scena, un teatro, Charcot teneva delle lezioni «pressoché improvvisate», «essenzialmente cliniche»[44], in cui esaminava malati che conosceva poco o non conosceva affatto; si disponeva dunque ad osservare ma anche a far osservare, perché le lezioni del martedì avevano un pubblico come parte costitutiva. Nonostante i casi clinici più diversi calcassero quella scena, una “malattia” è rimasta nella memoria come sua indiscussa e assoluta protagonista: l’isteria. Malattia «proteiforme», che aveva tutte le forme e nessuna, che arrivava sulla scena predisposta per lei alla Salpêtrière non con il segno dell’eccesso della follia, ma con lo stigma, il sospetto, per la sua forma sfuggente, dell’assenza di passioni e della sola simulazione di esse; lontana quindi dall’immagine ormai codificata della malattia mentale che anche Darwin testimoniava, quando riteneva opportuno – per dare alla sua indagine «un fondamento il più solido possibile», per accertare al di là dell’opinione comune «fino a che punto particolari movimenti dei lineamenti [...] siano realmente l’espressione di determinati stati mentali» – «studiare i malati di mente, dato che essi sono esposti alle passioni più sconvolgenti e le esprimono in modo incontrollato»[45]. Nell’isteria le passioni erano troppo mobili, quand’anche vi venivano riconosciute, troppo simili alle performances di grandi attori, soprattutto di grandi attrici[46]. Perché l’isteria, nonostante si fosse ormai superata, in quegli anni, l’ipotesi della sua origine uterina, continuava ad essere soprattutto donna, soprattutto quando vi si leggeva la simulazione. «Queste malate sono vere commedianti, […] mascherano ed esagerano tutti i moti dell’animo, le idee e gli atti. Ostentano sentimenti che non hanno; recitano il dolore come la gioia, l’amore come l’odio. […] In una parola, la vita delle isteriche è perpetua menzogna […]»[47]. Questo dichiarava Jules Falret, insigne psichiatra, in una seduta della “Societé médico-psychologique” del gennaio 1866. E Charles Lasègue, ancora nel 1881, presentava nella stessa “Societé” una relazione dal titolo significativo: Les hysteriques, leur perversité, leur mensonges; il suo scopo era mostrare «che le menzogne, le invenzioni delle isteriche non sono che il risultato di una combinazione: un fatto falso da un lato, e dall’altro una singolare sagacia che dà al fatto inventato carattere di verosimiglianza»[48].
La clinica di Charcot prendeva le distanze dal «pregiudizio della simulazione», «uno dei principali ostacoli in neuropatologia»[49]. Freud, nella relazione sul suo soggiorno di studio alla Salpétrière, presentata al Collegio di medicina di Vienna nel 1886, riportava, tra i contributi di Charcot allo studio clinico dell’isteria, proprio quello di aver considerato «per lo più reale» la sintomatologia isterica, «senza tuttavia trascurare l’attenzione richiesta dall’insincerità dei malati»[50].
Il paradosso però fu che le isteriche, e gli isterici, finalmente quasi del tutto liberati dal sospetto di simulazione, finirono proprio a la Salpêtrière per essere oggetto non solo di osservazione ma anche di esperimenti e di “rappresentazione”. La loro sintomatologia prodigiosa era tutta platealmente corporale, mimica: crisi, inarcamenti, smorfie, lacrime, svenimenti, grida; una tentazione troppo forte per la psichiatria di quegli anni, attenta al visibile e letteralmente «ossessionata» dalla fotografia. «Un’arte nascente aveva forse fatto capire agli psichiatri la loro insufficienza nosologica riguardo ai segni visibili delle diverse forme di follia. Il fatto è che un po’ dovunque, in Europa, i folli e le dementi dovettero posare; si fece a gara a chi faceva loro il maggior numero di ritratti» [51].
A la Salpêtrière questa ossessione fu vissuta, si può dire, senza freni: tra il 1875 e il 1888 si costruì, si arricchì più volte e più volte si pubblicò un’Iconographie photographique de la Salpêtrière[52]; principali interpreti di questo “teatro di posa” furono, naturalmente, le isteriche. Le quali non ebbero però l’occasione e la libertà di vivere e rappresentare le loro passioni, e, perché no, anche di simularle, esagerarle. Non fu lasciato molto spazio all’improvvisazione: le passioni venivano infatti provocate sulla scena fotografica, e con tutti i mezzi. Sull’immobilità letargica dei corpi e dei volti garantita dall’ipnosi e dal sonno indotto, vennero “impressi”, letteralmente, i sintomi e le espressioni più diverse[53]: con la faradizzazione, seguendo gli insegnamenti di Duchenne; con i contatti magnetici; con il suono assordante di un gong; con abbaglianti, piccole esplosioni[54].
La “rappresentazione” dell’isteria, così teatralmente curata, sembrava quasi risolvere in un’iperbole paradossale la questione proposta dal Paradoxe di Diderot: la sensibilità eccessiva e forse simulata, da “attrice”, delle isteriche, veniva addormentata, rimossa e poi sostituita da un’altra sensibilità perfettamente “recitata”, con tutti i virtuosismi delle grandi attrici[55].
[1] Notissimo il passaggio testuale: nel dialogo tra Il Primo – che esprime i pensieri dell’autore – e Il Secondo, Il Primo, accingendosi ad enumerare «le qualità fondamentali del grande attore», dichiara: «esigo che abbia molto raziocinio; voglio che quest’uomo sia uno spettatore freddo e tranquillo; di conseguenza, richiedo da lui penetrazione e nessuna sensibilità [..]», D. Diderot, Paradosso sull’attore (1830), tr. it. Editori Riuniti, Roma 2000, p. 75 (la traduzione è stata lievemente modificata: per “nulle sensibilité” nessuna sensibilità invece di “punta sensibilità”).
[2] Il testo apparve in realtà per la prima volta nel 1770, in forma ridotta e diversa dalla stampa definitiva, nel periodico «Correspondance littéraire», di diffusione molto limitata, con il titolo Observations sur Garrick. Per ulteriori notizie sulle sue vicissitudini “editoriali” si veda L’Introduzione di Paolo Alatri a D. Diderot, Paradosso sull’attore, cit., pp. 8-19.
[3] Il percorso di questa “ricezione” occupa un posto considerevole in tutte le storie della recitazione. Si vedano, solo a titolo di esempio, C. Vicentini, Teorie della recitazione. Diderot e la questione del paradosso, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da G. Alonge e G. Davico Bonino, II, Il grande teatro borghese. Settecento-Ottocento, Einaudi, Torino 2000, pp. 5-47; S. Pietrini, L’arte dell’attore dal Romanticismo a Brecht, Laterza, Roma-Bari 2009.
[4] Nei Memoires de Lekain, précédés de réflexions sur cet acteur et sur l’art théâtral, par F. Talma, dans la collection des Mémoires sur l’Art dramatique, 1821 à 1825, 14 voll., ripubblicati in Reflexions de Talma sur Lekain et l’art theatral, Auguste Fontaine, Paris 1856; alle pp. 40-44 e sgg. la «digression» a proposito di Diderot, generata dall’esame delle due qualità fondamentali dell’attore, sensibilità ed intelligenza.
[5] Cfr. C. Coquelin, L’art et le comédien (1880), 4ème édition, Libraire Paul Ollendorff, Paris 1889, pp. 27-28.
[6] The Paradox of Acting, translated with annotations from Diderot’s ‘Paradoxe sur le comédien’ by Walter Herries Pollock, with a Preface by Henry Irving, Chatto & Windus, London 1883, p. IX.
[7] Ibid., p. X.
[8] Ibid., p. XI.
[9] Cfr. ibid., pp. XIII-XVIII.
[10] Ibid., p. XX.
[11] Era stato lo stesso Irving, ad esempio, a incoraggiare, pochi anni prima, la traduzione dei Memoires di Talma, pubblicata poi anche con una sua prefazione, molto diversa peraltro da quella al testo di Diderot: breve e quasi agiografica, con la sottolineatura finale dell’importanza che i temi del teatro e della recitazione avevano assunto in quegli anni. Cfr. H. Irving, Preface to Talma on the Actor’s Art, London, Brickers and Son, 1883, pp.3-5.
[12] Cfr. W. Archer, Masks or Faces? A Study in the Psychology of Acting, Longmans, Green and Co., London 1888, pp. 3-4.
[13] Le domande sono trascritte in inglese e francese in appendice al testo, cfr. ibid., pp. 211-224.
[14] Ibid., pp. 5-6.
[15] Ibid., p.150, corsivo mio.
[16] D. Diderot, Paradosso sull’attore, cit., p. 112. Trascrivo il passo con gli stessi tagli compiuti da Archer: cfr. W. Archer, Masks or faces?, cit., p. 36.
[17] W. Archer, Masks or faces?, cit., p.36.
[18] H. Irving, Preface to D. Diderot, The Paradox of acting, cit., p. XIII.
[19] D. Diderot, Paradosso sull’attore, cit., p.112.
[20] Ibid., p. 127.
[21] Il quale, peraltro, citava il passo del Paradoxe ovviamente nella traduzione inglese di Pollock, che rendeva “perdre la raison” con “loss of self-control”, e non con “loss of reason” (Cfr. D. Diderot, The Paradox of acting, cit., p.56). E il self- control unito alla sensibilità era, per Archer come per Irving, qualità fondamentale dell’attore; entrambi opponevano all’ipotesi di un dominio totale della sensibilità sull’attore quella di una “double consciousness”: cfr. ad esempio ancora H. Irving, Preface to D. Diderot, The Paradox of acting, cit., p.XV.
[22] Cfr. Ibid., p.134.
[23] Di Pierre Janet, eminente psicologo, riferiva ad esempio solo un parere espresso su Diderot: «spirito fumoso in cui tutto ribolle e fermenta senza posa» (W. Archer, Masks or Faces, cit., p. 36).
[24] Cfr. ibid., p. 126 e 134.
[25] Si pensi, ad esempio, al posto che William James dava all’espressione corporea nella sua trattazione delle emozioni: cfr. W. James, The Principles of Psychology, Henry Holt and Company, New York 1890, II, ch. 25 (The Emotions), pp. 443-486. Il testo darwiniano è citato più di una volta, e lo stesso Archer vi gode di un riferimento (p. 465). Su questa sorta di rinascita della fisiognomica alla fine dell’Ottocento si veda M. Giuffredi, Fisiognomica, arte e psicologia tra Ottocento e Novecento, CUEB, Bologna 2001.
[26] Cfr. Ch. Darwin, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, con introduzione, postfazione e commenti di Paul Elkman e con un saggio sulla storia delle illustrazioni di Philip Prodger, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 43-48.
[27] Cfr. Ph. Prodger, La fotografia e L’espressione delle emozioni, in appendice a Ch. Darwin, L’espressione delle emozioni, cit., p. 438. Sulle pretese di obiettività della scienza ottocentesca, sostenute da nuovi mezzi tecnici come la fotografia, cfr. L. Daston, P. Galison, The Image of Obiectivity, in «Representations», 40, 1992, Special Issue: Seeing Science, pp. 81-128. I due autori hanno curato nel 2007 un volume dal titolo Obiectivity (Zone Books, New York).
[28] Cfr. G.-B. Duchenne (de Boulogne), Mécanisme de la Physionomie Humaine, ou analyse électro-physiologique de l’expression des passions, 2ème édition, accompagnée d’un atlas composé de 74 planches photographiées, de 9 planches photographiées représentant 144 figures et d’un frontespice, Libraire Baillière et Fils, Paris 1876, pp. IX-X.
[29] Ibid. (Préface), p. XI.
[30] Ibid., p. 2.
[31] Ibid., p. 15.
[32] Ibid., p. 41.
[33] Ibid., p. 48 (corsivo mio).
[34] Ibid., pp. 48-49 (corsivo mio).
[35] Ibid., pp. 51-52. Duchenne cita, di Descartes, un passo tratto da Les passions de l’âme (II parte, art. 113): «Generalmente tutti i movimenti, tanto del viso quanto degli occhi, possono essere mutati dall’anima quando, volendo nascondere la sua passione, ne immagina fortemente una contraria, di modo che ci si può servire di essi tanto per dissimulare le proprie passioni, quanto per esprimerle».
[36] Ibid., «Explication de la légende», p. 7.
[37] Ibid., «Explication de la légende», p. 8.
[38] Ibid.
[39] Ibid., pp. 8-9.
[40] Cfr. ibid., p. 65.
[41] Lo stesso Duchenne, nella lunga spiegazione premessa a ogni singola fotografia, descriveva le «scene», assai complesse in verità, che aveva voluto «dipingere», sempre con il sussidio della stimolazione elettrica: una madre, ad esempio, che aveva appena perso un figlio ma passava dalla disperazione alla gioia perché l’altro figlio, gravemente malato, migliorava (cfr. ibid., p. 159).
[42] O. Rejlander, lettera a Ch. Darwin, 30 aprile 1871, Darwin Manuscripts Collections, Cambridge University Library, vol. 176, item 115, citato in P. Prodger, La fotografia e L’espressione delle emozioni, cit., p. 447; l’intero saggio costituisce un importante contributo alla conoscenza del lavoro preparatorio de L’espressione.
[43] J.-M. Charcot, Leçons du mardi a la Salpétrière, Policlinique 1888-1889, Lecrosnier & Babe, Paris 1889, traduzione di alcune pagine in F. M Ferro. e G. Riefolo (a cura di), Figure dell’isteria. Dall’invenzione francese alla clinica psicoanalitica, Mètis, Chieti 1996, p. 164.
[44] J.-M. Charcot, Leçons du mardi a la Salpétrière, Policlinique 1888-1889, Lecrosnier & Babe, Paris 1889, p. 1 (Mardi 23 Octobre 1888).
[45] Ch. Darwin, L’espressione delle emozioni, cit., pp. 55-56.
[46] La capacità dei grandi attori di passare velocemente da un’emozione all’altra aveva offerto sostegno alla tesi di Diderot sull’assenza di sensibilità: cfr. D. Diderot, paradosso sull’attore, cit., p. 98.
[47] J. Falret, Ètudes cliniques sur le maladies mentales et nerveuses, 1890, traduzione di alcune pagine in Figure dell’isteria, cit., p. 80.
[48] C. Lasègue, Les hysteriques, leur perversité, leur mensonges, «Annales médico-psychologiques», 1881, traduzione di alcune pagine in Figure dell’isteria, cit., p. 125.
[49] J.-M. Charcot, Leçons du mardi à la Salpétrière, tr. it. in Figure dell’isteria, cit., p. 162.
[50] S. Freud, Relazione sul mio viaggio a Parigi e Berlino, Vienna 1886, tr. it. in S. Freud, Charcot, il notes magico, Padova 2012, pp. 28-29. Altro punto degno di riconoscimento nel lavoro di Charcot, secondo Freud, era la nuova attenzione per l’isteria maschile.
[51] G. Didi-Huberman, L’invenzione dell’isteria. Charcot e l’iconografia fotografica della Salpêtrière, tr. it. Marietti, Genova-Milano 2008, p. 72. Anche Darwin aveva approfittato di quest’”ossessione” fotografica della psichiatria, che del resto era stata tra le prime scienze a servirsi della nuova tecnica: uno psichiatra inglese, Browne, gli fornì infatti molte fotografie per L’espressione delle emozioni, e pareri illuminanti. Cfr. P. Prodger, La fotografia e L’espressione delle emozioni, cit., pp. 442-443.
[52] Dell’opera furono pubblicati tre volumi, tra il 1876 e il 1888, a cura di Bourneville e Regnard. Una traduzione italiana parziale, e una parziale riproposta delle planches fotografiche è in D.M. Bourneville, P.M.L. Regnard, Tre storie d’isteria, a cura di A. Fontana, Marsilio, Venezia 1982.
[53] Molte delle fotografie erano catalogate sotto il titolo di “attitudes passionelles”: ad esempio “extase”, “beatitude”, “supplication amoreuse”. Cfr. Bourneville-Regnard, Tre storie d’isteria, cit., passim.
[54] Cfr. G. Didi-Huberman, L’invenzione dell’isteria, cit., pp. 211-291.
[55] Secondo Didi-Huberman, i medici de la Salpetrière speravano, in qualche modo, di arrivare alle stesse conclusioni del Paradoxe: le isteriche, come i grandi attori diderottiani, riuscendo a recitare così bene tutte le parti che erano loro “affidate”, inducevano a sospettare della loro autenticità nella vita vera: «L’isterica declama così bene. Ma allora delle due cose una: o “compatisce” veramente la sua parte, e dunque è vero che il suo patire si rivela poco consistente? Oppure mima, interamente priva di affetto (...); il dolore che altrove proclama non è dunque, anch’esso, nient’altro che una finzione!? In breve, la sperimentazione ipnotica non avrà fatto altro che scavare un po’ di più la questione relativa al soggetto della simulazione, nel tentativo di comprendere un soggetto isterico», ibid., p. 286.