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Scimpanzé, lunatici e poeti. Il contributo di Gregory Bateson alla psichiatria

Autore


Maria Betteghella

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Intro
  2. Le radici epistemologiche della schizofrenia
  3. Il doppio vincolo e le sue implicazioni terapeutiche
  4. Il caso Perceval

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S&F_n. 14_2015

Abstract


The contribution of Gregory Bateson to psychiatry starts through the joint research, developed together with Jurgen Ruesch, on the psychiatric communication structure. After this initiation, Gregory Bateson will develop his studies towards the rethinking and the revision of schizophrenia, prioritizing the epistemological approach to the psychotic phenomena. Between 1949 and 1962, Bateson will construct a theory on schizophrenia known as “double-bind”, based on the observation of the communication habits and logical structures of the psychotic patients and their relations with the family environment. His last contribution to psychiatry is the treat of the publication of Perceval Narrative, an autobiographic novel written in 1830 by an English gentleman recovered from a schizophrenia episode.


Non cesseremo di esplorare

e alla fine dell’esplorazione

saremo al punto di partenza

sapremo il luogo per la prima volta.

Per il cancello ignoto e noto

quando l’ultima terra conosciuta

è quella del nostro principio

T.S. Eliot, Quattro Quartetti

 

  1. Introduzione

Che Gregory Bateson avrebbe vissuto, durante la propria esperienza esistenziale e accademica, un’attrazione fuori dal comune verso l’esplorazione, il viaggio, la sperimentazione e la contaminazione tra saperi, è forse uno dei pochi dati di fatto su cui gli studiosi, i collaboratori e i critici di Gregory sarebbero d’accordo[1].

Gli ambiti accademici cui Bateson approda durante il suo viaggio intellettuale sono molteplici: dall’antropologia alla cibernetica, passando per l’etologia. Eppure, uno dei contributi per cui Gregory viene maggiormente ricordato – probabilmente suo malgrado – è quello che diede alla psichiatria attraverso i suoi studi sulla schizofrenia.

Nel 1949 Bateson viene assunto come collaboratore antropologo presso una clinica di San Francisco dove lo psichiatra svizzero Jurgen Ruesch ha intenzione di condurre uno studio sulla comunicazione psichiatrica. Questa collaborazione dura dodici anni, periodo in cui Bateson riceve anche la nomina di “consulente etnologo” del Veterans Administration Hospital di Palo Alto e di professore presso la Standford University. Grazie a due borse di studio – la prima della Fondazione Rockfeller, la seconda, nel ‘54, da parte della Macy Foundation – e a successivi contratti del Foundation’s Found for Psichiatry e del National Institute of Mental Health, Bateson approfondisce le ricerche in direzione della schizofrenia, assieme a un gruppo di collaboratori riuniti attorno a lui nel cosiddetto “gruppo Bateson”. Gli studi della scuola di Palo Alto – nome con cui è conosciuto il gruppo di ricerca di Bateson – riscuotono un discreto successo in ambito accademico e ispirano numerose ricerche.

Tuttavia, una frattura con i colleghi psichiatri portò Bateson dapprima a rifiutare una collaborazione con il centro di studi sulla psicoterapia sistemica costituito da Jackson nel ‘59, e successivamente allo scioglimento, nel 1962, del gruppo di ricerca. Bateson era convinto che il Mental Research Institute di Palo Alto di Jackson – che sarà un riferimento per lo sviluppo della “terapia familiare” – tradisse le teorie elaborate dal gruppo nel corso del lavoro di ricerca dei dieci anni precedenti, travisandole strumentalmente ai fini di una forzata applicazione terapeutica.

Bateson uscirà così profondamente deluso dall’esperienza con la psichiatria, anche a causa della pubblicazione, da parte dei suoi colleghi, di un’opera in cui si sarebbero appropriati di numerose sue idee, divulgandole subito prima di un tentativo di pubblicazione, da parte di Bateson, di un manoscritto sulla schizofrenia[2].

A ogni modo, gli anni che Bateson dedicò allo studio dei pazienti schizofrenici e delle loro famiglie, e all’affiancamento terapeutico dei casi psicotici, offrono un lucido contributo alla concettualizzazione tanto della condizione schizofrenica, quanto di una terapia in grado (o meno) di affrontarla.

 

  1. Fondamenti epistemologici della schizofrenia

L’ipotesi batesoniana muove dall’esigenza di interpretare la schizofrenia in chiave epistemologica[3]. Tale ipotesi si fonda sulla rilettura della Teoria dei tipi logici formulata da Russell e sull’applicazione di questa teoria comunicativa della logica formale all’osservazione dell’esperienza umana (e non solo umana!).

Un momento fondamentale – infatti – nella formulazione dell’ipotesi batesionana sulla schizofrenia è costituito dalla ricerca sul campo svolta allo Zoo Fleischhacker di San Francisco, nel 1952. Gregory cercava di rinvenire, attraverso l’osservazione empirica, criteri di comportamento che dimostrassero la capacità degli animali di riconoscere, almeno in parte, la valenza metacomunicativa dei segni utilizzati nella comunicazione. In altre parole, di trovare evidenze della consapevolezza (conscia o inconscia) che i segni da loro emessi fossero segnali.

Bateson considera l’esperienza allo Zoo Fleischhacker come un punto di svolta che comportò la revisione pressoché totale del suo pensiero:

Ciò in cui mi imbattei allo zoo è un fenomeno ben noto a tutti: vidi due giovani scimmie che giocavano, cioè erano impegnate in una sequenza interattiva, le cui azioni unitarie, o segnali, erano simili, ma non identiche, a quelle del combattimento, ed era evidente all’osservatore umano che, per le scimmie che vi partecipavano, questo era “non combattimento”. Ora questo fenomeno, il gioco, può presentarsi solo se gli organismi partecipanti sono capaci in qualche misura di metacomunicare, cioè di scambiarsi segnali che portino il messaggio: «Questo è un gioco»[4].

 

Il passaggio successivo a questa osservazione fu l’analisi del messaggio «Questo è un gioco», in cui Bateson dedusse che si trattava di un classico esempio di paradosso del tipo di Russell. Un messaggio paradossale di questo tipo consiste in un’asserzione negativa che contiene una meta-asserzione negativa implicita. Il messaggio «questo è un gioco» si svilupperebbe quindi nei seguenti termini: le azioni che in questo momento stiamo compiendo non denotano ciò che sarebbe denotato da quelle azioni che queste azioni denotano.

Attraverso l’esperienza allo zoo di Fleischhacker, Bateson si appropria di un’idea che sarà in seguito fondamentale per la sua ricerca sulle origini e sulla natura della schizofrenia: la natura della comunicazione è necessariamente paradossale. La comunicazione umana, in altri termini, contraddice costantemente la Teoria dei tipi logici di Russell, secondo cui esiste una discontinuità formale tra una classe e i suoi elementi, legata a una diversità di livelli di astrazione. Nell’ideale dei logici, un messaggio che tratta come sinonimi due diversi gradi di astrazione (come nel caso del messaggio «Questo è un gioco») sarebbe inammissibile.

Viceversa, Bateson sostiene che sarebbe impossibile aspettarsi di uniformare il pensiero e la comunicazione umana all’ideale dei tipi logici. In primo luogo, questo comporterebbe una misconoscimento della natura evolutiva della comunicazione stessa: si farebbe una “cattiva storia naturale”. Inoltre, si perderebbe di vista quello che per Bateson è un aspetto fondamentale per l’interpretazione della schizofrenia: la valenza creativa della comunicazione.

La nostra tesi principale può essere riassunta in un’affermazione della necessità dei paradossi dell’astrazione. L’ipotesi che gli uomini potrebbero o dovrebbero obbedire alla Teoria dei Tipi logici nelle loro comunicazioni non sarebbe solo cattiva storia naturale; se non obbediscono alla Teoria non è solo per negligenza o per ignoranza. Riteniamo, viceversa, che i paradossi dell’astrazione debbano intervenire in tutte le comunicazioni più complesse di quelle dei segnali di umore, e che senza questi paradossi l’evoluzione della comunicazione si arresterebbe. La vita sarebbe allora uno scambio senza fine di messaggi stilizzati, un gioco con regole rigide e senza la consolazione del cambiamento o dell’umorismo[5].

 

Ulteriori esempi di atti comunicativi in cui interviene una pluralità di tipi logici che trasgredisce la discontinuità formale tra diversi livelli di astrazione sono, secondo Bateson, la fantasia, il sacramento, la metafora poetica, il sogno, l’arte in generale.

Bateson considera la comunicazione umana come necessariamente e originariamente paradossale. Dal momento in cui l’uomo mangia il frutto dell’Albero della conoscenza, si apre una strada senza ritorno: egli sa di sapere. Ne deriveranno il linguaggio, la possibilità dell’empatia, dell’identificazione o della smentita; e quindi la consapevolezza della differenza tra segni e segnali, intenzioni e messaggi, metacomunicazioni o proiezioni. In sostanza, la possibilità dell’utilizzo congiunto di molteplici livelli di astrazione attraverso una costante trasgressione di quella regola di base della teoria comunicativa dei Tipi logici: il paradosso è il fondamento costitutivo della comunicazione umana.

Da questa premessa epistemologica alla formulazione di una teoria sull’origine e sulla natura della schizofrenia il passo è breve. Infatti, secondo l’ipotesi batesoniana, la condizione di insorgenza dei sintomi della patologia schizofrenica sarebbe una certa caratterizzazione formale all’interno della relazione madre-figlio di tale trasgressione dall’ideale di discriminazione tra tipi logici.

 

  1. Il doppio vincolo e le sue implicazioni terapeutiche

Bateson analizza la schizofrenia in chiave sistemico-relazionale, per usare una categoria propria della psicoterapia moderna, ovvero interpreta il presentarsi dei sintomi patologici legati a questa malattia come il risultato di un’interazione familiare. Viene definita “doppio vincolo” la serie di sequenze esterne – caratteristiche della relazione familiare – individuate come il contesto di insorgenza dei sintomi della schizofrenia.

Il doppio vincolo è un paradosso comunicativo: una situazione in cui si sovrappongono due ordini di messaggi diversi e contrastanti tra loro. Bateson ammette l’ipotesi che a molti di noi possa essere capitato di trovarsi in una situazione siffatta, reagendo – è di facile intuizione – in maniera difensiva, dal momento che il doppio vincolo costituisce una trappola logica all’interno della quale, per la vittima, ogni mossa è perdente. Viene identificata – come pregresso della schizofrenia – una situazione familiare in cui l’esperienza comunicativa incoerente del doppio vincolo diviene abituale, attraverso la riproposizione costante del paradosso logico nell’esperienza infantile. Il doppio vincolo verrebbe quindi interiorizzato dal soggetto pre-schizofrenico, fino a diventare l’unica modalità conosciuta di relazione con il mondo. Il soggetto affetto da tale disturbo continuerebbe a riproporre all’esterno quella primaria quanto fondamentale relazione instaurata con la madre, e la schizofrenia sarebbe sostanzialmente un disturbo epistemologico, provocato da abitudini comunicative familiari patologiche e imprigionanti.

Bateson e i suoi collaboratori elaborano una descrizione formale delle sequenze di esperienze definite come “doppio vincolo”, che per verificarsi avrebbe bisogno di alcune condizioni necessarie: la presenza di due o più persone – una delle quali è indicata come la vittima, mentre la parte del “carnefice” che pratica il doppio vincolo viene identificata non solo nella madre, ma anche nel padre o nei fratelli – ; la ripetizione dell’esperienza, tale che la struttura del doppio vincolo diventi oggetto di attesa abituale; un’ingiunzione primaria negativa; un’ingiunzione secondaria in conflitto con la prima a un livello più astratto (e di solito espressa attraverso il linguaggio non verbale: atteggiamenti, intonazione della voce, gesti, implicazioni celate in un commento verbale).

Attraverso l’esame di rapporti scritti e verbali di psicoterapeuti impegnati in casi di schizofrenia, di registrazioni su nastro di sedute psicoterapiche e di colloqui congiunti con genitori e pazienti, Bateson fa luce sulla struttura relazionale e comunicativa in cui il bambino pre-schizofrenico si trova incastrato dalla madre (o dal nucleo familiare). Attraverso questi documenti, Bateson e i suoi collaboratori attingono a una serie di casi esemplari da cui estrapolano un’ipotesi di descrizione della situazione familiare dello schizofrenico.

Risulta evidente che la madre dell’individuo pre-schizofrenico è imprigionata in una situazione emotiva contraddittoria nei confronti del figlio: da un lato vorrebbe avvicinarsi a lui; tuttavia, nel realizzare questa vicinanza, ella si sente in pericolo, e di conseguenza si ritrae da lui. Non riuscendo ad ammettere né ad accettare questa ostilità, la madre nega il suo stesso sentire simulando affetto e vicinanza.

Il bambino, quindi, per sopravvivere all’interno della relazione è costretto a distorcere costantemente la sua percezione dei segnali metacomunicativi materni, senza possibilità di salvezza.

Il punto fondamentale della descrizione batesioniana è che tale dinamica psico-relazionale viene interpretata nella sua struttura logica formale: il comportamento affettuoso simulato dalla madre sarebbe, cioè, un «commento al suo comportamento ostile (dal momento che ne è una compensazione), e di conseguenza apparterrebbe a un secondo ordine di messaggi rispetto al comportamento ostile; è cioè un messaggio su una sequenza di messaggi»[6].

Distorcendo la comunicazione attraverso un secondo ordine di messaggi volto a negare la realtà dei messaggi di prim’ordine, la madre metterebbe quindi il bambino in condizione – se vuole mantenere la relazione – di non discriminare con esattezza tra diversi ordini di messaggi.

Il bambino pre-schizofrenico, infatti, è punito se reagisce all’affetto materno, e altrettanto punito se si ritrae percependo l’ostilità: dal doppio vincolo non vi è salvezza.

L’individuo pre-schizofrenico cresce quindi senza la possibilità di comunicare sulla comunicazione, dal momento che ogni sua interpretazione dei messaggi materni risulta erronea. Egli, per crescere, si trova costretto ad abdicare istintivamente alla possibilità di discriminazione tra tipi logici.

Secondo Bateson, la condizione caratteristica di un individuo imprigionato nella schizofrenia sarebbe l’incapacità di distinguere tra tipi logici, quindi tra ordini di messaggi diversi. L’individuo schizofrenico non è in grado di inquadrare i propri contenuti, laddove «i processi mentali somiglierebbero alla logica nell’aver bisogno di una cornice esterna per delimitare lo sfondo contro cui le figure devono essere percepite»[7].

E dal momento che i requisiti necessari per instaurare relazioni normali sono, da un lato, la capacità di interpretare il significato dei messaggi altrui attraverso le sfumature metacomunicative, e dall’altro la possibilità di esprimere in maniera diretta ciò che si intende veramente, all’individuo pre-schizofrenico – incapace di realizzare entrambe queste funzioni – sarebbero precluse relazioni sane con il mondo esterno.

Dal canto suo, il soggetto schizofrenico produce una comunicazione ad alto contenuto metaforico, di cui tuttavia egli non è consapevole, dal momento che non è in grado di discriminare tra l’ordine metaforico e l’ordine letterale dei messaggi. La metafora, infatti, per essere tale ha bisogno di un contrassegno: nel momento in cui viene meno la differenza logica tra il piano reale e quello metaforico, si annulla automaticamente la possibilità stessa di utilizzare la metafora come riferimento a qualcosa. Essa diventa, per lo schizofrenico, l’unica strada possibile, ma privata di quella controparte necessaria a ogni metafora: la realtà.

L’universo comunicativo dello schizofrenico sarebbe un costante riferimento metaforico a una realtà cui egli non ha accesso.

Bateson sostiene che il ricorso alla comunicazione metaforica costituisce una via di fuga – forse l’unica possibile – dalla condizione del paradosso comunicativo interiorizzato nel soggetto pre-schizofrenico:

Per la vittima del doppio vincolo, non solo è più salutare ricorrere a un ordine metaforico di messaggio, ma in una situazione insostenibile è meglio cambiare e diventare un altro, oppure spostarsi e sostenere di essere altrove. Con ciò il doppio vincolo non può agire sulla vittima, dal momento che si tratta di un’altra persona, e inoltre si trova in un altro posto. In altre parole, gli enunciati che dimostrano il disorientamento del paziente possono essere interpretati come mezzi di difesa contro la situazione in cui si trova. La cosa diviene patologica quando la vittima stessa o non si rende conto che le sue risposte sono metaforiche o non è in grado di dirlo: per riconoscere di aver parlato in senso metaforico, egli dovrebbe esser conscio di essersi difeso, e quindi di aver temuto l’interlocutore. Tale consapevolezza sarebbe per lui un’imputazione contro l’altro e provocherebbe quindi un disastro[8].

 

Bateson riconosce l’esistenza di una trama che lega intimamente l’universo comunicativo del soggetto schizofrenico al mondo “normale”, dal momento che anche noi “altri” facciamo costante ricorso a quello strumento indispensabile dell’espressione e del pensiero che è la metafora.

L’unica differenza tra lo schizofrenico e il non-schizofrenico consiste nella modalità di utilizzo del mezzo metaforico (che l’individuo schizofrenico usa “senza contrassegno”).

L’anormalità del soggetto affetto da psicosi schizofrenica viene così completamente rivalutata alla luce dell’interpretazione epistemologica della schizofrenia, e la linea di confine tra il mondo reale e quello schizofrenico risulta incredibilmente assottigliata. L’analisi batesoniana tende a realizzare una possibilità di comunicazione autentica tra questi due universi – solo apparentemente – incompatibili.

Inoltre, si è visto come per Bateson non sussista una differenza sostanziale tra il modello comportamentale dello schizofrenico e quello del poeta, dell’artista o dell’umorista: in tutti questi casi, l’individuo ricorre ai paradossi dell’astrazione e a un’ibridazione di livelli diversi di discorso per comunicare efficacemente.

Ripercorrendo le fasi del modello teorico batesioniano è evidente che l’incapacità del soggetto schizofrenico di riconoscere la natura metaforica delle proprie fantasie dipende dalla perdita della capacità di inquadrare i propri contenuti, cioè di costruire cornici metacomunicative ai propri messaggi.

Bateson sostiene quindi che la terapia di un paziente schizofrenico dovrebbe essere concepita come un tentativo di mutare le sue abitudini metacomunicative. La psicoterapia si delineerebbe cioè come una manipolazione da parte del terapeuta degli inquadramenti logici di cui il paziente farebbe un uso anormale.

Prima della terapia il paziente decodifica ed elabora i contenuti della comunicazione secondo un sistema di regole, il cui cambiamento deve diventare oggetto di comunicazione durante la terapia, per arrivare infine a un altro sistema di regole che guiderà il paziente in un diverso processo di decodificazione ed elaborazione comunicativa post-terapeutica.

La complessità di una psicoterapia concepita in questi termini consiste nel fatto che normalmente le regole comunicative sono del tutto inconsce, e altrettanto deve risultare – durante la terapia – il processo volto a modificarle.

La terapia – come il fenomeno del gioco – farebbe quindi necessariamente ricorso ai paradossi dell’astrazione, attraverso la combinazione di tipi logici di discorso diversi tra loro. Anche il contesto terapeutico sarebbe definito, secondo Bateson, da una logica paradossale: esso si caratterizzerebbe come una continua contaminazione tra il letterale e il metaforico, e sua stessa ragion d’essere sarebbe la provocazione di quei paradossi dell’astrazione tipici dell’arte e della fantasia in cui Bateson ritrova l’aspetto meno riconosciuto dell’esistenza umana, oltre che della comunicazione, e cioè la sua potenzialità creativa e auto-riproduttiva. Fenomeni come il tranfert terapeutico dimostrano l’alta valenza simbolica della relazione che si pratica nella cornice spazio-temporale di una psicoterapia, che Bateson non si stanca di affiancare a quella serie di rimandi simbolici e paradossali dal punto di vista formale che si realizzano durante il fenomeno del gioco.

La psicoterapia – proprio come il gioco dinamico dei gatti o delle lontre – sarebbe un sistema di interazione le cui regole sono implicite ma suscettibili di cambiamento; il sistema stesso risulta quindi in evoluzione, o ancora meglio, in costante riproduzione delle propria struttura organizzativa.

Le osservazioni preliminari che Bateson formula sull’applicazione terapeutica del doppio vincolo – e il modello teorico che immagina per illustrare la vicenda terapeutica – dimostrano la sua sensibilità per le idee del movimento cibernetico[9]. Si può tuttavia ampliare ancora di un passo la comprensione del pensiero batesoniano scommettendo sul fatto che tale sensibilità per la cibernetica fosse a sua volta motivata dai risvolti epistemologici che Bateson intuiva nelle teorie legate a questo movimento.

In quella che potrebbe essere percepita – e probabilmente lo fu, per buona parte della sua vita, a Bateson stesso – come un’opera intellettuale incredibilmente variegata e frammentata, a momenti precaria e spesso incompresa e incerta; una ricerca che procedette a singhiozzi, interruzioni e riprese, caratterizzata da salti prospettici e tematici (e assieme geografici); in un percorso intellettuale altamente creativo, troviamo come Magnum opus un testo – Mente e natura[10] – in cui Bateson sistematizza l’epistemologia dei sistemi viventi, autentico risultato di una vita dedicata alla ricerca.

La dedizione totale verso la comprensione della “struttura che connette” è il contesto in cui deve essere interpretato anche il contributo di Bateson alla psichiatria, che si delinea come un tentativo di riconnettere il dramma comunicativo del soggetto schizofrenico con la struttura – assieme mentale e naturale – in cui tutti gli organismi sono inseriti, sia dal punto di vista epistemologico, sia dal punto di vista organico (speculari nel pensiero batesoniano).

La stessa ricerca sulla schizofrenia costituisce quindi un contributo alla costruzione di un punto di vista sistemico sull’individuo e sulla realtà, missione che ispirò Bateson durante tutta la sua esistenza, nella convinzione che fosse l’unica risposta possibile alle sfide della società contemporanea.

 

  1. Il caso Perceval

Nel 1935, di ritorno da uno dei suoi viaggi in Nuova Guinea, Bateson si imbatte in un Racconto a due volumi. Si tratta di un libro autobiografico in cui John Perceval offre una narrazione della propria psicosi e un’indagine introspettiva dei deliri da cui fu affetto e da cui, dopo tre anni di internamento, miracolosamente guarì. Un quarto di secolo dopo aver comprato – e stipato – questi volumi, Bateson ne cura la pubblicazione, proprio negli anni in cui i suoi studi sulla schizofrenia e la sua collaborazione con il gruppo di ricerca di Palo Alto volgevano al termine.

John Perceval è il quinto figlio del primo ministro inglese Spencer Perceval, che per ironia della sorte fu ministro di Giorgio III, il re dichiarato pazzo a seguito di numerosi crolli psicotici. Perceval padre fu ministro del Mad King George proprio durante l’ultima crisi, nel 1810, dalla quale il re non si riprese più. E forse ancor più ironicamente, il pomeriggio di lunedì 11 maggio 1812 Spencer Perceval fu ucciso a colpi di pistola nella Camera dei Comuni da un presunto psicotico, impiccato pochi giorni dopo. Su voto della Camera dei Comuni, la famiglia dello scomparso primo ministro ricevette un’indennità di 50.000 sterline. Anche grazie a questa indennità, quando il giovane Perceval fu colpito da follia la sua famiglia poté permettersi il lusso di incarcerarlo – contro la sua volontà – in quella che era considerata la miglior casa di cura per lunatici d’Inghilterra.

Bateson trova nell’autobiografia di Perceval una miniera di riferimenti e di conferme alle idee che da anni sosteneva sulla condizione schizofrenica, e la pubblicazione del Racconto coronò, in un certo senso – forse anch’esso ironicamente conclusivo – il decennio durante il quale Bateson fu prestato alla psichiatria. Il racconto che Perceval fa dei propri deliri – e soprattutto il suo sforzo nel cercare di capire e spiegare a posteriori la propria follia – affascinano molto Bateson, che vi trova – oltre che una conferma alla sua tesi sulla schizofrenia – la dimostrazione della possibilità di remissione spontanea da parte del soggetto psicotico, aspetto, questo, fondamentale per la concezione batesioniana incentrata su una visione non patologica della schizofrenia. In uno dei passaggi del libro, Perceval scrive:

Ho il sospetto che molti dei deliri che mi tormentavano, e che affliggevano molti altri pazienti, derivino dall’interpretazione letterale d’una forma poetica o figurativa di comunicazione[11].

 

Perceval visse agli inizi dell’ ‘800, e fu internato come lunatico in un istituto manicomiale in linea con le tendenze più moderne dell’epoca, dal momento che coniugava metodi coercitivi – camicie di forza, bagni freddi e isolamento – al cosiddetto trattamento morale. Per la prima volta, infatti, si faceva strada in quegli anni la convinzione che bisognasse intervenire non solo sul fisico del malato, ma anche sulla sua volontà.

In linea con le posizioni anti-psichiatriche di Foucault e Laing, anche Bateson ritiene che le cure istituzionali di inizio Ottocento non facessero altro che aggravare la condizione dei pazienti, e il racconto di Perceval fornisce ulteriori prove a questa visione critica. Nel racconto del giovane ex-schizofrenico, infatti, Bateson trova una testimonianza di quanto i medici e le loro istituzioni possano ostacolare la guarigione degli internati, riproponendo a questi ultimi dinamiche e schemi patologici attraverso metodi – ora anche moralmente – punitivi.

Tuttavia, la lettura batesoniana del caso di Perceval si spinge oltre la critica radicale dell’istituzione manicomiale.

Bateson è infatti convinto che uno degli aspetti più interessanti della schizofrenia sia il fatto che essa sembri presentare, da sola, delle proprietà curative.

Dopo aver identificato nel rapporto con la famiglia le cause condizionanti per la follia di Perceval, Bateson definisce come cause precipitanti della sua psicosi il contatto di quest’ultimo con le dottrine degli Irvingiti, un culto evangelico estremo i cui adepti parlavano in un idioma inintellegibile ed erano molto interessati al problema della sincerità spirituale. E se da un lato dichiara che le cause condizionanti di una psicosi sono sempre da considerarsi nefaste, Bateson accoglie viceversa come le “benvenute” quelle cause precipitanti che determinano nel soggetto la deflagrazione della follia. Quest’ultima è, per Bateson, un evento energeticamente liberatorio con funzione risolutrice e curativa per un sistema malato, il quale contiene in sé una tale forma di saggezza da arrivare a creare un attacco a se stesso pur di escogitare una maniera di sopravvivenza. La schizofrenia, quindi, conterrebbe in sé non solo l’elemento patogeno, ma anche quello curativo, e il caso di Perceval fornisce a Bateson un esempio della sua idea che la follia assomigli a un viaggio di scoperta che si conclude solo al ritorno nel mondo normale. La psicosi avrebbe, agli occhi di Bateson, un proprio corso regolato da processi endogeni, assieme alla capacità di curare il sistema che, al contempo, sembra distruggere.

Piuttosto, strano sarebbe il caso di coloro i quali intraprendono il viaggio della schizofrenia senza riuscire a tornare indietro. Possibile – si chiede Bateson – che nella famiglia o nelle cure istituzionali costoro incontrino «circostanze così gravemente proibitive che nemmeno l’esperienza allucinatoria più ricca o meglio organizzata riesca a salvarli?»[12].

D’altronde, fu proprio la rabbia che Perceval dimostrò nei confronti dei medici e degli infermieri che si presero cura di cui negli anni di internamento che lo instradarono verso la sua stessa riabilitazione, iniziando quella disobbedienza alle voci interiori che determinò la sua remissione spontanea.

La lettura che Bateson fa del caso di Perceval segna una chiara de-patologizzazione della schizofrenia e un definitivo abbandono della psichiatria, la quale trova pur sempre la propria ragion d’essere nell’ammissione di una condizione di malattia[13].

Non sorprendono quindi, alla luce di queste convinzioni, il distacco che Bateson dovette sentire nei confronti dei propri colleghi psichiatri di Palo Alto, né tanto meno la sua reazione nel vedere le proprie teorie utilizzate in maniera strumentale in un centro di psicoterapia.

Per Bateson, che non distingueva dal punto di vista epistemologico tra schizofrenia e modelli di comportamento affini (come il poetico, l’artistico o il comico), il dialogo con la psichiatria poteva forse considerarsi fallito in partenza.

Eppure, la benevolenza di Bateson verso le “cause precipitanti” della schizofrenia non è solo motivata dalla necessità di contestualizzare epistemologicamente il discorso dei casi psicotici. O meglio, il discorso epistemologico in Bateson è anche discorso ontologico, a patto di utilizzare quest’ultima categoria in una forma eco-logica.

La condizione schizofrenica affascina Bateson al punto da riabilitarla come una non-malattia e accoglierla come un viaggio di scoperta – piuttosto che come terribile flagello – perché in essa, come nell’arte, Bateson vede realizzarsi una tensione più complessa tra coscienza e inconscio rispetto a quello statico dominio della finalità cosciente che indiscusso impera nella dimensione interiore degli individui[14].

La crisi ecologica e umana cui Bateson tenta di dare risposta per una vita intera sarebbe fondamentalmente radicata in quel razionalismo finalistico che impedirebbe all’Io cosciente di concepire la struttura che connette. L’epistemologia rivendicata da Bateson come propriamente umana è viceversa un’epistemologia ecologica, una visione sistemica degli organismi e delle menti, un pattern che, osservato in quell’intima dimensione interiore degli individui, si realizza quando la finalità cosciente fa spazio all’irrazionalità poetica, alla creatività artistica e, perché no, al delirio schizofrenico.

La sua è una posizione vicina a quella di William Blake per la valorizzazione dell’immaginazione come condizione umana privilegiata, per l’attenzione verso le visioni intese come rivelazioni di quella verità celata che in Bateson si configura come l’unità sistemica delle parti – una complessità indagata, per altre vie, dal movimento cibernetico stesso.

In fondo, si tratta di uno scetticismo verso la condizione umana “normale”, troppo poco discussa, eppure da ripensare con urgenza per proporre modelli di pensiero autentici e dirompenti.

Siamo quindi, ci suggerisce Bateson, tutti schizofrenici nel corso delle nostre normali-a-tratti-abbaglianti esistenze. E per fortuna, forse.

Un’apologia della follia? Non proprio. Una provocazione volta a valorizzare nell’uomo quel dono di creatività che serba in ogni suo atto comunicativo? Sicuramente.


 

[1] Un passaggio di Bateson può essere di aiuto per fare luce sul suo – quasi sprezzante – spirito di ricerca: «È ora di moda pensare – e viene anche inculcato nelle università – che la Psicologia sia differente dalla Sociologia, che l’Estetica e la Critica Artistica siano cose ancora diverse, e che il mondo sia fatto di pezzetti separati di conoscenza. Il primo punto su cui desidero fare chiarezza è che il mondo non è fatto per niente così. O per essere più preciso, il mondo in cui vivo non è per niente così, per cui è affar vostro vivere nel mondo che più vi aggrada», G. Bateson, Verso un’ecologia della mente (1972), tr. it. Milano, Adelphi 1977, p. 484.

[2] Cfr. M. Deriu, Gregory Bateson, Mondadori, Milano 2000, p. 21.

[3] Cfr. G. Bateson, J. Ruesch, La matrice sociale della psichiatria (1951), tr. it. Il Mulino, Bologna 1976.

[4] G. Bateson, Una teoria del gioco e della fantasia, in Verso un’ecologia della mente, cit., p. 219.

[5] Ibid., p. 235.

[6] Id., Verso una teoria della schizofrenia, ibid., p. 258.

[7] Id., Una teoria del gioco e della fantasia, cit., p. 230.

[8] Id., Verso una teoria della schizofrenia, cit., p. 254.

[9] Bateson partecipa attivamente alla formazione del programma di ricerca del movimento cibernetico, collaborando ai seminari e gli incontri transdisciplinari che tra il 1946 e il 1953 diedero vita a questo campo studi teso a sviluppare, in una prospettiva interdisciplinare, un modello interpretativo per gli organismi viventi e le macchine basato sui concetti di causalità circolare ed auto-organizzazione.

[10] Id., Mente e natura, un’unità necessaria (1980), tr. it. Adelphi, Milano 1984.

[11] Id., Perceval. Un paziente narra la propria psicosi. 1830-1832 (1989), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. 293.

[12] Ibid. p. 17.

[13] Cfr. la nota finale di Paolo Bertrando all’edizione italiana, cit.

[14] Cfr. G. Bateson, Finalità cosciente e natura, in Verso un’ecologia della mente, cit., 1976.

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