Autore
Indice
- Memoria/Afasia
- W W di Winckler: i personaggi. Una fotografia
- (…) W: la perversione dell’ideale olimpico
- Mémoire fictionelle
S&F_n. 07_2012
Non sono pervaso dalla collera furiosa di Achab, bensì dal candore sognante di Ismaele, dalla pazienza di Bartleby. A loro chiedo, una volta ancora, di essere le mie ombre tutelari.
Georges Perec, W o il ricordo d’infanzia
- Memoria/Afasia
In Di alcuni motivi in Baudelaire[1], Walter Benjamin faceva notare come lʼesperienza letteraria di Proust e quella filosofica di Bergson rinviassero a due diverse concezioni della memoria: mémoire pure e mémoire involontaire. Se nel filosofo francese il fatto di volgersi allʼattualizzazione intuitiva del flusso vitale sembra essere una questione di libera scelta, in Proust, viceversa, il ricordo volontario non conserva nulla del nostro passato e tutti gli sforzi che compiamo per evocarlo sono vani. Il passato si sottrae a ogni nostra intenzione, che esso si mostri o meno dipende dal caso. Accade così che un luogo o un oggetto divengano improvvisamente epifanici: «le goût de la petite madeleine mʼavait rappelé Combray»[2]. Allo stesso modo la formula anaforica «Je nʼai pas de souvenirs dʼenfance», reiterata ossessivamente lungo tutto il racconto autobiografico di W o il ricordo dʼinfanzia, dà inizio alla narrazione perecchiana. Essa scava nella lingua una specie di lingua straniera, disinnesta il meccanismo Sinn/Bedeutung e consente la fuoriuscita dei ricordi dʼinfanzia nel momento in cui dichiara candidamente di non possederne alcuno, come una remissione dei peccati a seguito di una confessione dʼinnocenza. W nasce da unʼassenza, da un vuoto, da un buco: una vocazione destinale dal momento che il cognome Perec è la naturalizzazione francese del polacco Peretz che in ebraico significa per lʼappunto “buco”. In questo modo la scrittura di Perec stringe l’assenza, descrive lo spazio letterario non ancora abitato da grafia. W dà voce a quella fantasia infantile, quel fantasma ricorrente (Perec dichiarerà alla fine del libro di aver disegnato per anni sportivi dai corpi rigidi e dai tratti disumani), mediante il quale riappropriarsi di un passato obliato, altrimenti irrecuperabile, sedimentato nei fondali della memoria, «so di poter, oggi, raccontando W, raccontare la mia infanzia»[3]. E tuttavia il motivo autobiografico non esaurisce la ricchezza euristica del racconto di Perec, per due ragioni: in primo luogo perché la memoria del narratore è afasica, governata da leggi plastiche, e sfugge a una rappresentazione organica, accogliendo frammenti mnemonici altrui, come per lʼepisodio del braccio fasciato[4]; in secondo luogo la memoria autobiografica sʼintreccia con quella collettiva, la storia personale con «unʼaltra storia, la grande storia, quella con la s di “scure”, […] la guerra, i campi di concentramento»[5]. Il sentimento dell’ineluttabilità di cui Perec è testimone e non attore, «non sono lʼeroe della mia storia»[6] dichiara nel primo capitolo, è restituito anche da unʼaltra scena dʼinfanzia:
A scuola ci davano dei punti premio. Erano dei cartellini gialli o rossi su cui cʼera scritto: 1 punto, con una ghirlanda intorno. Se nel corso della settimana accumulavamo un certo numero di punti avevamo diritto a una medaglia. Desideravo una medaglia e un giorno la ottenni. La maestra me lʼappuntò sul grembiulino. Allʼuscita, per le scale, ci fu un parapiglia che si ripercosse di gradino in gradino e di bambino in bambino. Io ero a metà della scala e feci cadere una bambina. La maestra credette che lʼavessi fatto di proposito, si precipitò su di me e, nonostante le mie proteste, mi strappò la medaglia. […] mi sento ancora fisicamente quella spinta sulla schiena, prova inconfutabile dellʼingiustizia, e la sensazione cinestesica di una perdita dʼequilibrio causata da altri, arrivata dallʼalto e ricaduta su di me, è rimasta così fortemente impressa nel mio corpo che mi domando se quel ricordo in realtà non nasconda lʼesatto contrario: non il ricordo di una medaglia strappata, bensì quello di una stella appuntata[7].
W delinea allora una nuova strategia autobiografica, obliqua, molteplice, sparpagliata, ruotante in unʼellisse i cui fuochi, da un lato la narrazione autobiografica, dallʼaltro la narrazione fantastica, non si danno lʼuno senza lʼaltro, legati in una perfetta specularità. Lʼautobiografia non sʼinterroga sulla vita ma sulla memoria, portatrice di una identità che sempre sʼinganna, si smarrisce e si riscrive. I ricordi posseggono una loro esistenza, ma ogni volta si prestano a una combinazione nuova e ciò non è imputabile unicamente alla fascinazione di Perec per le catalogazioni, per lʼinvenzione di mondi possibili, ma indica altresì il semplice fatto che il progetto di scrivere la propria storia personale si forma di pari passo col progetto di scrivere.
- W
W o ricordo d’infanzia è una struttura abilmente congegnata. Il testo è verticalmente diviso in due parti, separate dalla pagina bianca recante il segno grafico (…), e orizzontalmente diviso nella narrazione in corsivo, quella fictionelle, e in carattere tondo, quella biografica. Nella prima parte, il racconto immaginario (che segue la numerazione dispari) narra di un improbabile incontro tra Winckler/Apfelstahl/Winckler e annuncia una missione: ritrovare l’omonimo enfant perdu (che vuol dire chiaramente ritrovare lʼenfance perdu). Nella seconda parte, seguendo la numerazione pari, incomincia la narrazione dellʼisola distopica di W, delle sue leggi e dei suoi abitanti, allegoria dellʼuniverso concentrazionario. Il racconto autobiografico, invece, procede da una maggiore chiarezza e sistematicità nella prima parte (uso dei numeri pari, precisione e minuzia dei ricordi, desiderio di coerenza) allʼabbandono di ogni assetto dei ricordi nella seconda (uso numeri dispari e costruzione del senso globale per associazione di idee). La lettera W, che dà il titolo allʼopera, ne custodisce il segreto e la chiave interpretativa: W è una doppia V, come la double vie che lʼautore vive e immagina, e ogni V corrisponde ai due modi del racconto autobiografico e ai due modi del racconto immaginario che sʼilluminano reciprocamente, ma mai direttamente. Cʼè un luogo in W dove Perec compie una vera e propria esegesi del simbolo V, essa è «il punto di partenza di una geometria irreale di cui la V raddoppiata costituisce la figura di base e le molteplici combinazioni raffigurano i simboli predominanti della storia della mia infanzia»[8]. In poche mosse Perec trova una legame nascosto tra la croce uncinata, o svastica, e la stella di Davide, lʼaltro e lo stesso, il passato e il presente nel chiasmo della pagina.
W di Winckler: i personaggi. La produzione letteraria di Perec è costellata da strambi personaggi che sfidano il lettore a riscrivere le loro storie, a ricomporne i puzzle immaginari, come in una partita di scacchi governata da regole ignote ai giocatori. Così, la figura letteraria di Gaspard Winckler appare più volte nei testi dello scrittore francese; passeremo brevemente in rassegna occorrenze significative.
- Parigi, XVII arrondissement, 11 di Rue Simon-Crubellier[9]. L’artigiano Gaspard Winckler riceve gli acquarelli inviategli dal miliardario Bartlebooth, li incolla su una tavola di legno per poi farne puzzle di 750 pezzi. Bartlebooth a sua volta dedica la sua esistenza a ricomporre i puzzle cui egli stesso dà vita e, come in una mandala indiana, si premura di non lasciare alcuna traccia del procedimento. Bartlebooth non riuscirà a completare la sua impresa, votata tanto alla noia quanto alla costruzione di senso. Al momento della morte non resterà che un solo pezzo per portare a termine il 439-esimo puzzle; tuttavia mentre il pezzo mancante ha la forma di una “X”, quello rimasto tra le mani di Bartlebooth ha la forma di una “W”.
- Siamo in un paesino della Francia al confine con il Lussemburgo, Gaspard Winckler (la copia), orfano di padre, è un esiliato che vive sotto falso nome. L’incontro con Otto Apfelstahl lo muove a intraprendere il viaggio alla ricerca del modello di cui è la copia, «di colui di cui porto il nome»[10]; il viaggio esteriore di Gaspard (c) è costruito in analogia al viaggio interiore, a ritroso nella memoria, intrapreso da Perec.
- Gaspard Winckler (l’originale), è il bambino muto oggetto della ricerca di Gaspard (c), vittima di un naufragio sulle coste di W non è mai stato ritrovato il suo corpo. Gaspard (o) è un simbolo ridondante: da un lato rinvia al celebre caso di Gaspard Hauser[11], dall’altro Gaspard ha un non so che di Bartleby, muto e spettrale, scivola nei luoghi dellʼindifferenza, come il protagonista del romanzo di qualche anno antecedente: Un homme qui dort. Il mutismo di Gaspard è, con buona probabilità, lo stesso del piccolo Georges, silente anche nella memoria: «Je nʼai pas de souvenirs dʼenfance», ripete. Nel racconto immaginario della prima parte ci sono altri due personaggi degni di attenzione: Otto Apfelstahl e Caecilia Winckler. Otto, che fa incursione nella vita di Gaspard Winckler (c), sembra rimandare alla figura dello psicanalista: non a caso Gaspard s’interroga sul significato delle iniziali M. D. che seguono il nome nellʼintestazione della lettera e muove lʼipotesi che stiano per l’epiteto “Medical Doctor”. Difatti Otto è colui che dà il via allʼanamnesi, è un aiutante, «appartiene a un mondo complementare, allude a una cittadinanza perduta o a un altrove inviolabile»[12]. Egli è fuori dal tempo, tantʼè che all’incontro Gaspard (c) non può fare a meno di notare: «non si poteva dire che Otto Apfelstahl fosse in ritardo; ma non si poteva neppure dire che fosse puntuale»[13]. Come osserva acutamente Giorgio Agamben, «lʼaiutante è la figura di quel che si perde. O, meglio, della relazione col perduto»[14], così Otto rappresenta il tramite con il passato, che irrompe e scompiglia le carte, donando a Georges/Gaspard il compito di ritrovare il proprio archetipo. Caecilia Winckler è la madre del piccolo Gaspard, la sua figura letteraria rinvia simbolicamente a quella biografica della madre di Perec, Cyrla Schulewicz. Ciò che avvicina Caecilia e Cyrla è la disparition, una scomparsa. La Disparition è il titolo di un’opera di Perec del 1969 che lo consacra esponente di spicco dellʼOulipo: si tratta di un lipogramma di trecento pagine scritto integralmente senza la vocale “E”. Lʼ“Eroina” de La Disparition riappare al lettore di Perec nella dedica di W: Pour E. Se quella lettera indicasse lʼiniziale di un nome dovrebbe essere puntata, così da convenzione tipografica. Lʼassenza di punteggiatura consente unʼaltra lettura: Pour E vale come Pour eux, ossia In memoriam matris. Se W o ricordo dʼinfanzia è un discorso sulla memoria, sui suoi inganni e le sue afasie, Perec scorge proprio in questo sbiancarsi dei ricordi l'artiglio della necessità di scrivere. Lettera dopo lettera, un testo si forma, si rapprende, macchia il foglio bianco, lo annerisce dei ricordi, di inconsci notturni, di ferite e lutti; la scrittura diviene «il ricordo della loro morte e lʼaffermazione della mia vita»[15]. Cʼè un altro episodio interessante che accomuna la morte di Caecilia a quella di Cyrla; Otto racconta del potente urto precedente il naufragio:
la morte più atroce toccò a Caecilia, che non morì sul colpo come gli altri; con la schiena spezzata da un baule assicurato male, […] tentò, probabilmente per parecchie ore, di raggiungere e poi aprire la porta della sua cabina; quando i soccorritori cileni la trovarono, il suo cuore aveva appena cessato di battere e le sue unghie insanguinate avevano lasciato solchi profondi sulla porta di quercia[16].
Leggiamo nella parte autobiografica:
Più tardi sono andato con la zia a vedere una mostra sui campi di concentramento. […] Ricordo le fotografie dei muri dei forni graffiati dalle unghie delle vittime[17].
Mediante la figura di Caecilia, Perec prova a elaborare il lutto materno, a fare i conti con la sua scomparsa che troppo spesso gli appare come un fatto acquisito: «ormai rientra nell’ordine delle cose»[18].
Una fotografia.
Dietro c’è scritto «Parc Montsouris 19(40)». Una grafia che mescola maiuscole e minuscole: potrebbe essere quella di mia madre, e in tal caso sarebbe lʼunico campione della sua scrittura che mi è rimasto (di quella di mio padre non ne ho). Mia madre è seduta su una sedia da giardino ai margini di un prato […] porta un gran berretto nero. […] La borsetta, i guanti, le calze e le scarpe con le stringhe sono neri. Mia madre è vedova. Il suo viso è lʼunica macchia chiara della foto. Sorride[19].
Ne La chambre claire Roland Barthes si dichiara mosso da un desiderio ontologico verso la fotografia. Quello che nota Barthes è che nella fotografia cʼè una posizione congiunta di passato e presente, essa racchiude il mistero semplice della concomitanza, rinnovando meccanicamente ciò che esistenzialmente non potrà più verificarsi. In tal senso «ha qualcosa a che vedere con la resurrezione»[20]. Quel che è stato ritorna a me nel presente, nella sua forma concreta e patetica, perché priva di avvenire. Lʼarte fotografica realizza la forma della contingenza nel suo più alto grado: essa sembra dirci è così, è proprio così e null’altro. È la parola vuota del bambino che nello stupore delle cose indica e grida: Ta Da! (il Ta Da del bambino affonda radici etimologiche nel sanscrito tathata, da cui il talis latino). Così la fotografia non può uscire dal linguaggio deittico, essa è «un certificato di presenza»[21]. Ma La camera chiara non è soltanto uno dei testi più belli ed evocativi di teoria fotografica, è anche un diario intimo che Barthes scrive all’indomani della scomparsa di sua madre. La seconda parte del libro si apre proprio dichiarando la futilità di quellʼimpresa: “ritrovare” lʼessenza materna in una foto, ridisegnarne i lineamenti, annusarne lʼodore. Fino a che Barthes non ha tra le mani una foto in particolare: Jardin dʼhiver. Non sarà avventato allora leggere Perec attraverso Barthes e le sue toccanti parole:
Così, solo nell’appartamento nel quale era morta da poco, io andavo guardando alla luce della lampada, una per una, quelle foto di mia madre, risalendo a poco a poco il tempo con lei, cercando la verità del volto che avevo amato. E finalmente la scoprii. Era una fotografia molto vecchia. Cartonata, con gli angoli mangiucchiati, dʼun color seppia smorto, essa mostrava solo due bambini in piedi, che facevano gruppo, allʼestremità dʼun ponticello di legno in un Giardino dʼInverno col tetto a vetri. Mia madre aveva allora (1898) cinque anni, suo fratello sette. […] Osservai la bambina e finalmente ritrovai mia madre. La luminosità del suo viso, la posizione ingenua delle sue mani, il posto che essa aveva docilmente occupato senza mostrarsi e senza nascondersi, la sua espressione infine, che la distingueva, come il Bene dal Male, dalla bambina isterica, dalla smorfiosetta che gioca allʼadulta, tutto ciò formava lʼimmagine dʼuna innocenza assoluta (se si vuole accogliere questa parola nella lettera della sua etimologia, la quale è “Io non so nuocere”), tutto ciò aveva trasformato la posa fotografica in quel paradosso insostenibile che lei aveva affermato per tutta la vita: l’affermazione d’una dolcezza[22].
Attraverso la fotografia, sia Perec sia Barthes si ricongiungono con il corpo materno, che, come ebbe a dire Freud, è lʼunico luogo di cui si possa dire con certezza di essere stati. Se è vero che Barthes nella prima parte prende in esame fotografie di diversi artisti come Avedon, Mapplethorpe, Nadar, Niépce, è anche vero che egli afferra l’essenza, lʼeidos della Fotografia guardandone una di famiglia. «Dovevo penetrare maggiormente dentro di me per trovare lʼevidenza della Fotografia, […]. Io dovevo fare la mia palinodia»[23].
- (…)
Al centro esatto di W troviamo il dispositivo dʼinversione, una pagina in bianco recante unicamente tre puntini di sospensione racchiusi da parentesi tonde. Ha inizio la palinodia, ovvero il canto alternato. La parola è composta infatti dell’avverbio πάλιν (pálin, sia “di nuovo” sia “allʼindietro”) e dal sostantivo ᾠδή (ōdé, “canto”), e consente di fare in avanti ciò che si è fatto all’indietro. Come in Jʼavance masqué il narratore raccontava almeno tre volte di seguito la sua vita in tre narrazioni tutte ugualmente false[24], così in W, attraverso lʼartificio letterario della ripetizione, il narratore salda fantasia e memoria, si specchia nel suo fantasma letterario, ritrova lʼorigine come un qualcosa che è da venire, da riconquistare. Prende avvio la narrazione dellʼisola di W, al largo della Terra del fuoco. Possiamo pensare che sia la terra dove è naufragato il piccolo Gaspard, o che sia stato raggiunto dall’altro Gaspard; ancora, si può immaginare che la copia si sia unita col suo modello. In ogni caso, resta il fatto che il lettore non avrà più notizie né di Gaspard (o), né di Gaspard (c), né di Caecilia, né di Otto.
W: la perversione dell’ideale olimpico. Una perversione è la distorsione di un valore universalmente riconosciuto come tale. Più grande è la stima del valore, più eclatante sarà lʼeffetto parodico. Allʼingresso dellʼisola di W campeggia una scritta: FORTIUS ALTIUS CITIUS. “Arbeit macht frei” non aveva forse la stessa carica parodica, non si radicava nellʼideale condiviso del “lavoro che nobilita lʼuomo”? In W lo sport, simbolo di pace, uguaglianza, correttezza e benessere, si rovescia nei suoi contrari: disuguaglianza, sadismo, scorrettezza, malessere, andando a delineare, mano a mano che si procede della lettura, un universo disperato governato da leggi feroci e incomprensibili. Gli atleti di W non vanno solo incontro a premi e riconoscimenti, ma anche a punizioni in caso di sconfitte: «Gloria ai vincitori! Guai ai vinti!»[25]. I primi vengono invitati a banchetti degni di un re, i secondi, invece, vanno incontro al digiuno. Ancora gli atleti non hanno nome, ma solo titoli guadagnati o persi in base alle varie competizioni. Nessun nome è per sempre. Nelle gare viene tuttavia garantita unʼassoluta imparzialità tramite lʼesercizio di unʼingiustizia sistematica, organizzata, istituzionale. «Bisogna che perfino il migliore non abbia la certezza di vincere; bisogna che perfino il più debole non abbia la certezza di perdere. Bisogna che entrambi si mettano in gioco allo stesso modo, che guardino alla vittoria con la stessa assurda speranza, con lo stesso indicibile terrore della sconfitta»[26]. La legge a W è tanto atroce quanto indecifrabile: «la Legge è implacabile, ma la Legge è imprevedibile. Non ammette ignoranza, ma è inconoscibile»[27]. E la fortuna a W è parte della grazia, non basta essere il migliore per vincere, la vittoria cade sulla testa degli atleti al ritmo di una filastrocca. I giudici si riservano il potere di mutare la Leggi a proprio piacimento, di punire un vittorioso e risparmiare uno sconfitto, «per ricordare a tutti che lo Sport è una scuola di modestia»[28]. Non cʼè lieto fine per il bambino di W:
Allʼinizio non capirà. […] Come spiegargli che quello che sta scoprendo non è qualcosa di spaventoso, non è un incubo da cui tuttʼa un tratto si sveglierà, che potrà cacciare dalla propria mente, come spiegargli che quella è la vita, la vita reale, che è quello che vivrà tutti i giorni, che esiste solo quello e nient’altro […][29].
Le atrocità dell’isola di W sono quelle di Ausch(W)itz dove la madre di Perec fu deportata lʼ11 febbraio del 1943 e «morì senza capire perché»[30].
- Mémoire fictionelle
«Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere»[31], ammonisce Wittgenstein. Su ciò di cui non si può parlare si può inventare una storia, facendogli eco. Una scrittura fictionelle è in grado di restituire un passato così atroce da situarsi alle soglie dell’indicibile. Attraverso la storia di W Perec lascia che il passato si mostri da sé senza che sia narrato direttamente; esso fa capolino dalla pagina letteraria, fino a che grafia in tondo e grafia in corsivo non diventano tutt’uno. La scrittura allora:
confonde il tempo ritrovato col tempo perduto; il tempo si aggrappa a questo progetto, ne costituisce la struttura e la costrizione; il libro non è più restituzione dʼun tempo passato, ma misura del tempo che scorre; il tempo della scrittura, che fino ad oggi era un tempo per niente, un tempo morto, che si fingeva dʼignorare o che si restituiva solo arbitrariamente, che rimaneva sempre accanto al libro, qui diventerà l’asse essenziale[32].
Come afferma Deleuze in Marcel Proust e i segni la ricerca del tempo perduto «non è semplicemente uno sforzo per ricordare, una esplorazione della memoria»[33], essa è piuttosto la narrazione di un apprentissage: in questo tempo per niente ciò che si ricerca è nientʼaltro che la verità. Essa «non è mai il prodotto di un buon volere preliminare, ma il risultato di una violenza nel pensiero»[34]; la “buona volontà” è incapace di afferrare alcune realtà come il corpo, lʼinconscio, il gioco. Chi vuole la verità la desidera in quanto costretto, soggiogato dall’incontro col segno, allora vuole interpretare, decifrare, tradurre, trovare il senso del segno e questa spiegazione si confonde con l’evolversi del segno, per questo la ricerca è sempre temporale, condizionata dal tempo. Così, da egittologi, viene in mente unʼultima esegesi del simbolo W: le due V che la compongono unite per i loro vertici danno origine a una X che ha una forma straordinariamente simile alla prima lettera dell’alfabeto ebraico: lʼảleph (א). E il luogo borgesiano dove ogni cosa è infinite cose, «in cui il mondo intero è simultaneamente visibile» – nota lʼesploratore di inconsci notturni, botteghe oscure chiuse a chiave, e di isole distopiche, al largo delle fantasie infantili – «che altro è se non un alfabeto?»[35].
[1] W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire (1939), ora in Angelus Novus, tr. it. Einaudi, Torino 1962.
[2] M. Proust, A la recherche du temps perdu - Du coté de chez Swann.
[3] G. Perec, Sono nato, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 54.
[4] Nel capitolo quindicesimo Perec narra di essersi fratturato una scapola mentre pattinava, ricordando minuziosamente il sistema di contenzione che bloccava il braccio dietro la schiena impedendo ogni movimento e la buffa sensazione suscitata dalla manica vuota e il suo penzolare nell’aria. Aggiunge poi che la zia, la sua madre adottiva, e la cugina non hanno alcun ricordo di questa frattura per lui fonte di una “felicità indicibile”. Poche righe più avanti si scoprirà che lʼepisodio era effettivamente accaduto, ma a un suo amico. «Anziché la vittima eroica, io fui soltanto un testimone», Cfr. G. Perec, W o ricordo dʼinfanzia, tr. it. Einaudi, Torino 2005, p. 93.
[5] G. Perec, W o ricordo dʼinfanzia, cit., p. 8.
[6] Ibid., p. 6.
[7] Ibid., p. 63.
[8] Ibid., p. 89.
[9] La via immaginaria dove troviamo collocato l’immobile di La vie mode dʼemploi.
[10] G. Perec, W o ricordo d’infanzia, cit., p. 28.
[11] Si tratta del ragazzino di quattordici anni e cresciuto in totale isolamento che fa la sua comparsa in un una strada di Norimberga nel 1828; muto dalla nascita egli è un enigma, come la sua morte: misteriosamente assassinato nel 1833. Il curioso caso di Gaspard Hauser darà luogo a elucubrazioni senza fine, oltre che alla nota rappresentazione cinematografica di Herzog.
[12] G. Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma 2005, p. 32.
[13] G. Perec, W o ricordo d’infanzia, cit., p. 20.
[14] G. Agamben, Profanazioni, cit., pp. 37-38.
[15] G. Perec, W o ricordo d’infanzia, cit., p. 49.
[16] Ibid., p. 67.
[17] Ibid., p. 181.
[18] Ibid., p. 35.
[19] Ibid., p. 61 (corsivo mio).
[20] R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it. Einaudi, Torino 2003, p. 83.
[21] Ibid., p. 87.
[22] Ibid., pp. 69-70.
[23] Ibid., p. 61.
[24] Cfr. G. Perec, Sono nato, cit., p. 12.
[25] G. Perec, W o ricordo d’infanzia, cit., p. 102.
[26] Ibid., p. 128.
[27] Ibid., p. 134.
[28] Ibid., p. 138.
[29] Ibid., p. 161.
[30] Ibid., p. 39.
[31] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, tr. it. Einaudi, Torino 1974, p. 82.
[32] G. Perec, Sono nato, cit., p. 52.
[33] G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, tr. it. Einaudi, Torino 2001, p. 5.
[34] Ibid., p. 17.
[35] G. Perec, Specie di spazi, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 19.