Autore
Luca Mori
Università di Pisa
svolge attività di ricerca presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa e per il Laboratorio filosofico sulla complessità Ichnos (Rosignano M.mo/Pisa)
Indice
- Estensioni e traslazioni dei limiti del pensabile
- L’esperienza estetica come fenomeno “incarnato”
- Filosofia, esperienza estetica e mirror neurons
- In prospettiva
S&F_n. 07_2012
- Estensioni e traslazioni dei limiti del pensabile
Nel 1690 John Locke asseriva che «[…] è altrettanto impossibile concepire che mai una semplice materia non pensante produca un essere pensante intelligente, quanto che il nulla possa produrre da sé la materia»[1]. Pur nel quadro di concezioni gnoseologiche ed epistemologiche differenti, Descartes e Leibniz abbracciarono sostanzialmente lo stesso punto di vista. Sono passati ormai tre secoli dalla pubblicazione del Saggio sull’intelletto umano e l’idea che la mente possa essere emersa dalla materia non è più inconcepibile come lo era per Locke, che dovette fare appello in ultima istanza all’azione divina. Certo già nel XVII Secolo ci fu chi, come Thomas Hobbes, aveva tentato di dar conto dei processi dell’immaginazione e del pensiero in relazione alla materia e al movimento del corpo; ma è soltanto negli ultimi decenni che la nozione di embodied mind è entrata a far parte – in modi anche molto diversi – di progetti di ricerca sempre più articolati e complessi, sostenuti da rilevanti innovazioni sul piano degli strumenti d’osservazione e da importanti scoperte empiriche.
L’avanzamento della ricerca scientifica sembra così sollecitare, in modo pressoché irresistibile, la naturalizzazione delle domande e delle nozioni filosofiche, alimentando una tendenza già individuata da Charles Darwin quando annotava che, una volta mostrata l’origine naturale dell’uomo, «colui che comprende il babbuino contribuirà alla metafisica più di Locke» (Notebooks M and N, 16 agosto 1838)[2]. In una nota successiva del 3 ottobre 1839, lo stesso Darwin trasse in modo ancora più esplicito le implicazioni filosofiche della sua posizione:
studiare la metafisica come è sempre stata studiata mi sembra come rompersi la testa sull’astronomia senza l’aiuto della meccanica. L’esperienza dimostra che il problema della mente (mind) non può essere risolto attaccando la cittadella direttamente. La mente è funzione del corpo. Dobbiamo avere una qualche solida base da cui derivare l’argomentazione[3].
Le righe precedenti possono essere considerate esemplari di come, già a partire dal diciannovesimo Secolo, la nascita di nuovi filoni di ricerca e la correlata ridefinizione dei campi disciplinari provocasse un ripensamento della divisione degli ambiti di competenza tra intuizione filosofica e teorie scientifiche. Considerando che nel frattempo le tecniche per l’indagine della natura si sono estremamente arricchite e diversificate – al punto da generare nuove dispute relative all’interdisciplinarietà anche all’interno del campo delle scienze – forse ormai di tutta la filosofia si può dire ciò che Darwin diceva della metafisica, cioè che studiarla «come è sempre stata studiata» è come «rompersi la testa sull’astronomia senza l’aiuto della meccanica»?
Se così stanno le cose, che ne è della filosofia? La domanda fu formulata già da Martin Heidegger, quarant’anni dopo Sein und Zeit, in una conferenza tenuta il 30 ottobre 1965 su La fine del pensiero nella forma della filosofia[4]: il filosofo prendeva atto dell’apparente dissolversi della filosofia in scienze autonome – come logica, semantica, psicologia, sociologia, antropologia culturale, politologia e poetologia – e notava che alla filosofia non restava che fare «un passo indietro», per interrogarsi nuovamente sulla «cosa» del pensiero, mentre una nuova scienza, la cibernetica, sembrava sottrarle persino la funzione unificante rispetto alle diverse scienze.
Da allora è trascorso mezzo secolo e la discussione sui rapporti tra filosofia e scienze appare interminabile: la domanda sul futuro della filosofia non può prescindere dal considerare tali rapporti, che inevitabilmente evolvono nel tempo, parallelamente al ridefinirsi di sovrapposizioni e intersezioni tra i campi della stessa ricerca scientifica. In questo articolo mi concentro in particolare su come filosofia e neuroscienze si stanno confrontando sull’empatia e sulle risposte emotive all’esperienza estetica: benché circoscritto, il caso di studio è significativo perché interseca il dibattito sul mind-body problem in una questione che coinvolge un campo di ricerca in rapido sviluppo (quello delle neuroscienze), dove sono comparsi approcci controversi per gli stessi neuroscienziati (neurofilosofia, neuroetica, neuroestetica e così via).
- L’esperienza estetica come fenomeno “incarnato”
Philosophy for the Future è il titolo di un libro curato da Sellars, McGill e Farber nel 1949[5]: filosofi e scienziati furono chiamati a collaborare a una riformulazione del materialismo, partendo dall’assunto che «la configurazione (pattern) inorganica della materia è antecedente agli organismi viventi, dotati di mente e di intenzioni, i quali emergono (arise) gradualmente e soltanto come risultato di uno sviluppo evolutivo complesso»[6]. Il confronto tra filosofi e scienziati era motivato dall’annuncio di un inedito scenario di pensiero: se la filosofia moderna aveva prevalentemente considerato mente e materia come due «cose» separate e se nel quadro dell’idealismo la natura era stata concepita come tappa della storia dello Spirito, la filosofia del presente (e del futuro) avrebbe dovuto pensare l’emergenza dei fenomeni mentali dall’evoluzione della materia non vivente. Assumendo tale compito, la filosofia doveva necessariamente confrontarsi con i programmi di ricerca delle discipline scientifiche.
Il recente tentativo di riferirsi alle ricerche sui mirror neurons per trattare le basi corporee dell’empatia e dell’esperienza estetica costituisce un ulteriore capitolo nella storia della naturalizzazione del discorso sull’embodied mind, non sussumibile però, in quanto tale, alle controverse (anche tra neuroscienziati) pretese delle discipline contrassegnate dal prefisso “neuro”.
Il progetto di neurofilosofia proposto da Patricia Churchland fin dal 1986 – in un saggio concepito come «introduzione alle neuroscienze per filosofi e introduzione alla filosofia della mente per neuroscienziati» – si basava sulla convinzione che i temi cruciali della filosofia della mente dovessero essere discussi a partire dalle osservazioni empiriche sui fatti empirici relativi al funzionamento del cervello, abbandonando l’idea della filosofia come «disciplina a priori»[7] a favore di una ricca e reciproca alimentazione fra strategie top-down (filosofia, psicologia cognitiva e ricerca sull’intelligenza artificiale) e strategie bottom-up (neuroscienze). Al comparire di questo e di altri programmi di ricerca contraddistinti dal prefisso “neuro”, su temi come il desiderio, la felicità, la morale e l’estetica[8], il filosofo può rivendicare una posizione privilegiata, forte del carattere fondativo delle proprie domande o della distinzione tra questioni concettuali e questioni empiriche[9], mentre lo scienziato può ritenere di sottrarre finalmente i problemi alla vaghezza e alle secche delle metafore a cui certa filosofia autoreferenziale è costretta. Indifferenza e pretesa di sostituzione sono due modalità del mancato riconoscimento tra filosofia e neuroscienze.
Il saggio sui neuroni specchio scritto da Rizzolatti e Sinigaglia nel 2006 propone un’altra modalità di collaborazione tra filosofi e neuroscienziati: in questo caso il filosofo accetta di misurarsi con problemi e punti di vista propri dalla scienza, senza temere di calarsi nella ricerca sperimentale[10]. Anche assumendo in linea di principio un atteggiamento così aperto, ci sono tuttavia molti modi di interpretarlo. Nel caso specifico dell’esperienza estetica, ad esempio, quale può essere l’apporto delle neuroscienze all’indagine e alla teorizzazione filosofica? Secondo gli assunti della neuroestetica di Semir Zeki, la classica domanda «cos’è l’arte» non ha trovato per secoli risposte largamente condivise perché si è trascurato di fare riferimento al cervello, che pure «crea» l’arte: una comprensione appropriata dell’arte dovrebbe pertanto poggiare sullo studio dei patterns di attivazione delle aree del cervello durante le esperienze fatte oggetto di indagine. La ricerca di Zeki fa ricorso in particolare alle tecniche di visualizzazione fMRI (functional magnetic resonance imaging), che rilevano l’attività del cervello in vivo, mettendo molta enfasi sulle leggi della visione, del cosiddetto visual brain. Ispirandosi a tale linea di ricerca, Onians è arrivato a proporre una rilettura della storia dell’arte correlando differenti stili alle differenti «preferenze» visive determinate negli artisti dall’esposizione a differenti ambienti[11]. L’insistenza sul ruolo del visual brain costituisce tuttavia un limite dell’approccio di Zeki agli occhi di un altro neuroscienziato, Vittorio Gallese, che tratta di empatia ed esperienza estetica a partire dalle ricerche sui mirror neurons.
Già negli anni Settanta qualcuno si era chiesto fino a che punto ci si potesse spingere, affrontando il mind-body puzzle, nei tentativi di passare da mind-body a mind-brain e quindi a mind-neurons[12].
- Filosofia, esperienza estetica e mirror neurons
In un saggio scritto a quattro mani da Vittorio Gallese e dallo storico dell’arte David Freedberg, l’attenzione si concentra sui «fenomeni incarnati (embodied phenomena)» provocati dalla contemplazione di opere d’arte: il riferimento all’esperienza estetica come a un fenomeno che riguarda il corpo complessivamente preso costituisce un elemento di distinzione sia rispetto agli approcci (anche delle neuroscienze), che tendono a ridurre l’essenziale dell’esperienza estetica al visivo, sia rispetto a una tradizione filosofica che ha privilegiato un «approccio all’estetica pienamente cognitivo e disincarnato»[13].
Riguardo al primo punto, si deve precisare che il riduzionismo è costitutivo della ricerca scientifica dal punto di vista metodologico, poiché ogni indagine scientifica non può esaminare che particolari aspetti e dinamiche dei fenomeni e dei processi che osserva e di cui costruisce modelli: a suscitare controversie ed equivoci, infatti, sono generalmente le tesi ontologiche o le definizioni concettuali generali ricavate dall’indagine scientifica inevitabilmente “riduzionistica” sul piano metodologico. Riguardo al punto (2), è il caso di aggiungere che non sono mancati in passato approcci che insistevano sul radicamento corporeo dell’esperienza estetica: si potrebbe risalire fino a Platone e Aristotele, che avevano ben presente la questione nelle Leggi e nella Poetica. Riguardo all’empatia, c’è poi una singolare coincidenza: trattandone, già agli inizi del ventesimo secolo Helmuth Plessner aveva scritto di «aree di risonanza» (Resonanzflächen) nell’uomo, mentre nel gruppo degli scopritori dei neuroni specchio, senza conoscere Plessner, qualcuno ebbe l’idea di parlare in termini di risonanza delle aree della corteccia pre-motoria coinvolte nei processi di mirroring. La novità introdotta dalle ricerche sui neuroni specchio, in questo caso, riguarda la possibilità di “attraversare” la metafora della risonanza, rileggendola ad esempio con la nozione di «simulazione incarnata (embodied simulation)», che Freedberg e Gallese definiscono così: «un meccanismo funzionale attraverso il quale le azioni, le emozioni o le sensazioni che vediamo attivano le nostre rappresentazioni interne degli stati corporei che sono associati a questi stimoli sociali, come se noi fossimo impegnati in un’azione simile o come se stessimo vivendo un’analoga emozione o sensazione»[14].
Qui le sfumature diventano ben presto importanti e dirimenti. Consideriamo, come esempio dei risvolti del dibattito e dei possibili equivoci, la lettera di Roberto Casati e Alessandro Pignocchi[15] sull’articolo citato di Gallese e Freedberg e la risposta dei due autori chiamati in causa[16]. Casati e Pignocchi ritengono che la base neurale delle risposte empatiche sia di rilevanza marginale per il discorso estetico e insistono sul fatto che l’attivazione dei mirror neurons non è sufficiente a rilevare che qualcosa è un’opera d’arte. Concludono asserendo che la domanda se la risposta empatica sia costitutiva della risposta estetica tout court deve essere sollevata prima, e indipendentemente, dallo stabilire le sue possibili basi neurali. Gallese e Freedberg non si riconoscono nell’esposizione del loro punto di vista proposta da Casati e Pignocchi, ribadiscono che i «neuroni canonici e i neuroni specchio hanno spesso un ruolo cruciale nelle risposte estetiche – in ragione del loro ruolo in svariate forme dell’embodiment simulato che sono rilevanti considerando le risposte estetiche», e aggiungono in prima istanza che il ruolo dei meccanismi di mirroring è decisivo nella formazione del giudizio estetico, ma anche che il processo può essere precognitivo e non dipende sempre da una percezione informata da cognizione o da risorse culturali determinate e che parte dell’abilità dell’artista risiede nel saper utilizzare la propria conoscenza corporea, in modo consapevole oppure no, per rendere possibili risposte emotive e motorie.
Nell’attirare l’attenzione sul corpo e non soltanto sulla corteccia visiva, Gallese si confronta criticamente con altri approcci possibili all’interno delle neuroscienze e mostra di poter trarre ispirazione, anche come scienziato, dal contributo della filosofia: oltre a essere attento lettore dei trattati del diciannovesimo secolo sull’esperienza estetica, sono infatti molteplici i suoi riferimenti alla fenomenologia, in particolare a Husserl e Merleau-Ponty, e all’antropologia filosofica di Plessner. Il pensiero di Merleau-Ponty o di Plessner non sono traducibili nel linguaggio delle neuroscienze e lo scienziato può trovare nei loro scritti elementi d’ispirazione, idee e metafore che possono ispirare generalizzazioni e strategie euristiche, oppure fornire chiavi di lettura degli esiti delle ricerche fatte: quegli stessi scritti che oggi, retrospettivamente, possono essere letti come sorprendenti anticipazioni, avrebbero potuto essere fonti d’ispirazione per l’attuale direzione di ricerca. Quanto al filosofo, le ricerche sui neuroni specchio possono aiutarlo a cogliere e a formulare domande su rilevanti aspetti della fenomenologia della «partecipazione somatica» e dell’«imitazione interna»: riconoscere ciò non significa assumere che la neurofenomenologia del mirroring possa esaurire – ora oppure in futuro – la discussione sui limiti, sulle condizioni e sul senso dell’esperienza estetica, bensì ammettere che essa possa aiutare a vedere in modo diverso questioni molto dibattute, dando insolite sfumature a concetti e metafore in parte già circolanti, eventualmente aiutando a riformulare nodi concettuali e aporie della discussione filosofica.
- In prospettiva
Il confronto con la ricerca scientifica non è aggirabile dal filosofo che consideri i fenomeni mentali e sociali emergenti in rerum natura e la filosofia può trarre spunto dalle ricerche scientifiche per attraversare in modo nuovo le proprie metafore o per ripensare le proprie aporie e l’ambito di applicazione dei propri concetti. Sono peraltro riduttive e molto selettive quelle ricostruzioni della storia della filosofia che ignorano l’importanza della ricerca naturale in filosofi più frequentemente menzionati per la loro metafisica: è il caso di ricordare che la maggior parte del corpus aristotelico riguarda la biologia e altri fenomeni naturali, mentre Cartesio studiava l’anatomia e il cervello umano per chiarire il nucleo interazionista del suo dualismo.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare, per mostrare che filosofia e scienza evolvono interagendo, attraverso impredicibili estensioni e traslazioni dei limiti del pensabile: perciò oggi accade che tanto i filosofi quanto gli scienziati siano coinvolti in programmi di ricerca inconcepibili soltanto un secolo fa. I differenti punti di vista sul possibile contributo delle neuroscienze alla comprensione dell’esperienza estetica mostrano che ci sono molti modi di interpretare la naturalizzazione di domande e nozioni filosofiche classiche e che molti sono i possibili atteggiamenti tra i filosofi e tra gli stessi scienziati. Tra la posizione estrema di chi ritiene separati e intraducibili gli approcci della ricerca scientifica e della filosofia e quella, altrettanto estrema, di chi aspira alla reductio ad unum dei differenti approcci, il futuro della filosofia sembra consegnato alla regione intermedia in cui filosofi e scienziati confrontano le proprie argomentazioni e denunciano reciprocamente le proprie aporie.
[1] J. Locke, Saggio sull’intelletto umano (1690), Cap. IV, X. 10 (trad. mia).
[2] C. Darwin, Taccuini M e N, in L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872), Taccuini M e N (1838-1839), Profilo di un bambino, a cura di G. A. Ferrari, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1982, p. 29.
[3] Ibid., p. 58.
[4] M. Heidegger, Das Ende des Denkens in der Gestalt der Philosophie (1965), in Zur Frage nach der Bestimmung der Sache des Denkens, Erker-Verlag, St. Gallen 1984.
[5] R. Wood Sellars, V. J. McGill, M. Farber (eds.), Philosophy for the Future. The Quest of Modern Materialism, The MacMillan Company, New York 1949.
[6] Ibid., p. VI.
[7] P. S. Churchland, Neurophilosophy. Toward a Unified Science of the Mind-Brain, MIT Press, Cambridge-London 1986, p. 5.
[8] Cfr. T. Schroeder, Three Faces of Desire, Oxford University Press, Oxford 2004; J. Bickle (ed.), The Oxford Handbook of Philosophy and Neuroscience, Oxford University Press, New York 2009; J. Prinz, The Emotional Construction of Morals, Oxford University Press, Oxford 2007; S. Zeki, Inner Vision: An Exploration of Art and the Brain, Oxford University Press, Oxford 1999; Id., Artistic Creativity and the Brain, in «Science», 293, 5527, 2001, pp. 51-52; V. S. Ramachandran, W. Hirstein, The Science of Art: A Neurological Theory of Aesthetic Experience, in «Journal of Consciousness Studies», 6, 6-7, 1999, pp. 15-51; V. S. Ramachandran, The Emergent Mind, Profile Books, London 2003.
[9] Come suggerisce Hacker in R. M. Bennett, P. M. S. Hacker, Philosophical Foundations of Neuroscience, Blackwell, Malden (MA)-Oxford 2003.
[10] G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai, Cortina, Milano 2006.
[11] J. Onians, Neuroarthistory: from Aristotle and Pliny to Baxandall and Zeki, Yale University Press, New Haven-London 2007.
[12] Cfr. Gordon G. Globus, G. Maxwell, I. Savodnik, Consciousness and the Brain. A Scientific and Philosophical Inquiry, Plenum Press, New York 1976, p. VI.
[13] D. Freedberg, V. Gallese, Motion, emotion and empathy in aesthetic experience, in «Trends in Cognitive Sciences», XI, 5, 2007, pp. 197-203, pp. 198-199.
[14] Ibid., p. 198.
[15] R. Casati, A. Pignocchi, Mirror and canonical neurons are not constitutive of aesthetic response, in «Trends in Cognitive Sciences», XI, 10, p. 410.
[16] D. Freedberg, V. Gallese, Mirror and canonical neurons are crucial elements in aesthetic response, in «Trends in Cognitive Sciences», XI, 10, 2007, p. 411.