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Indice
- Entrée
- Umana vergogna
- Rivoluzioni non solo industriali
- Infine (The day after)
S&F_n. 08_2012
Abstract
At present, it is justified to talk about Apocalypse or even “Apocalypses”, in the plural form. The current situation - with the ecological crisis on one side, and the atomic threat on the other side - needs serious, deep, reflection. Günther Anders, one of the greatest German thinkers of the contemporary age, has devoted his attention precisely to this theme. He considers man to be inevitably slipping towards total destruction, both of humanity and of the world. At the basis of this idea there is the predicament of a man who has lost his humanity. He considers machines as an ideal and technology as the perfect form of existence. He feels inadequate and outdated, and abdicates his dignity and his responsibility towards himself and the world.
- Entrée
Non è esagerato parlare oggi di apocalisse. Anzi, pare persino necessario esprimersi al plurale: “odierne apocalissi”. Peccato che questa idea non incontri buona accoglienza: segno che il cuore di un positivismo, radicato e persistente, continua tuttavia a pulsare[1]. E nonostante che gli allarmi e le rivoluzioni in corso in vari ambiti della nostra vita reclamino urgente considerazione, un’inestinguibile fiducia (o speranza) nel progresso del genere umano e nelle sue mirabolanti imprese trattiene dall’affrontare i sintomi del degrado occidentale, sviando l’attenzione su quanto rende leggera e godibile l’esistenza. Non è un caso che, persino per imbattersi nel tema, si debba approfittare delle mode. E dire che la necessità di parlare di apocalissi sussiste da tempo e si rafforza di giorno in giorno; la “questione ecologica”, la “questione climatica”, la “questione tecnologica” (o la più generale “questione antropologica”) ne sono possibili articolazioni; ma si preferisce ancor sempre considerarle – senza la minima urgenza – come questioni tra le altre. D’altronde – si sa – i giornali hanno bisogno di notizie, e ogni giorno ne inventano una…
Eppure – come Günther Anders insegna – a volte le parole significano proprio ciò che dicono e – che ci piaccia o no – possono anche avere una corrispondenza col reale[2]. Così, se oggi sui mass media si discute (o, come forse è più probabile, si finge di discutere) di crisi ecologica globale o di pericolo atomico latente, potrebbe anche essercene motivo. Il nostro sguardo però raramente supera i confini dell’interesse privato e attuale, e il lettore comune, chiuso il giornale, ripone il problema: “il destino dell’umanità non è affare mio”, sembra dire tra sé e sé.
È a partire da questo genere di premesse che Günther Anders si impegna ad affrontare la questione del “destino dell’umanità”. Non del destino nel senso teleologico che ha ispirato in vario modo le religioni positive o naturali, prevedendo per l’uomo il compimento di un percorso stabilito da altro o da altri (la Natura o un Dio); né nel senso squisitamente morale di un presunto “fine supremo” comune all’umanità (come inteso, ad esempio, da Fichte o da Kant). Qui, si tratta del destino come evento “innescato” dall’uomo e già in atto; si tratta di un presente colpevole e delittuoso; che dà luogo non a “un fine” ma a “una fine”, preterintenzionalmente causata.
Per via dell’agire umano (e il concetto di “azione” gioca qui un ruolo essenziale), la faccenda del destino si scandisce attraverso tre distinti livelli. Al culmine troviamo profetizzata la fine fisica (e definitiva) dell’umanità e dell’intero mondo vivente, il concreto «annullamento del mondo» in un «ultimo bang»; questo momento però è preceduto – logicamente e teoreticamente (ma anche cronologicamente) – da altri due «livelli destinali»: la fine delle ere vivibili per l’uomo e dunque la fine del «divenire umano», dal punto di vista esistenziale; e la fine dell’umanità dell’uomo, il codardo abbandono di una posizione «umanamente dignitosa».
- Umana vergogna
Da quando l’uomo ha affidato alla tecnica i maggiori successi del cambiamento (vale a dire del progresso, secondo le note aspettative positivistiche), sembra essersi determinata un’inversione di posizione: non è l’essere umano a dirigere le macchine e a decidere che cosa serva alla propria esistenza, ma è la tecnica (un “apparato generale”, una “sovra-macchina” o semplicemente la necessità della persistenza delle macchine) a stabilire come l’uomo debba vivere, cosa gli serva e come debba comportarsi, anche nei confronti delle macchine. È in corso, insomma, una nuova “rivoluzione copernicana”, all’insegna della riverenza a sua maestà la produzione. Ma partiamo dal principio.
L’idea, cara in passato, di un essere umano prometeico, padrone di sé e del proprio fare, ha subito un rivolgimento “dialettico”: «in certo qual modo Prometeo ha riportato una vittoria troppo trionfale, tanto trionfale che ora, messo a confronto con la sua propria opera, comincia a deporre l’orgoglio che gli era tanto naturale» nel XIX secolo per sostituirlo con «il senso della propria inferiorità e meschinità»[3]. Ottenuto l’imprevedibile successo dell’imperio tecnologico, prodotto – appunto – con le sue stesse mani, l’essere umano comincia a coltivare il confronto: un frutto destinato a rendergli amara l’esistenza. Nel proprio «parco macchine», l’uomo si sente «il nano di corte»[4]; e, mentre si chiede «chi sono io?», opera una fatale inversione di prospettiva: avverte ancora il profondo bisogno di farsi da sé – come un tempo il goethiano Faust –, ma in un senso profondamente mutato. L’accento cade ora sull’«essere fatto» piuttosto che sull’autonomia della creazione, perché il nuovo «selfmade man», il Prometeo dell’epoca contemporanea non si sente indignato per essere «fatto da altri» (creato da un dio o voluto da madre natura), ma «perché non è fatto per nulla»[5] e in quanto «non fatto» – vale a dire non costruito artificialmente, come lo sono le macchine – si considera minore.
La sua hybris si è così trasformata nel proprio opposto, cioè nella «vergogna prometeica»: non solo appare pavido, il nuovo Prometeo, ma soffre di un formidabile senso d’inferiorità che condiziona ogni sfaccettatura della sua esistenza. Tutto, di lui, appare inadeguato alle necessità e sostanzialmente insufficiente. Come homo faber, non ha più grande ruolo, poiché nella maggior parte dei casi la tecnica non ha bisogno di una guida: si riproduce da sé e avanza spontaneamente le proprie richieste di ampliamento e potenziamento, rendendo superflua la funzione umana. Come produttore, l’uomo dimostra imbarazzanti limitazioni e la sua costituzione organica gli apparirà presto un odioso impedimento per l’accesso alla “nuova eternità” possibile alle macchine. Eterno è oggi il costrutto meccanico, perché non perituro (può sempre essere riparato), non deteriorabile (i suoi pezzi possono essere sostituiti), non datato (è migliorabile in qualunque momento). L’ente organico è unico e irripetibile; ma anziché costituire una qualità eccellente – come appariva nella filosofia del passato – l’unicità si rivela sinonimo di difettosità. I prodotti dello sviluppo tecnologico sono efficienti, performanti e resistenti; la costituzione umana, invece, è “difettosa”: «è innegabile che, per quanto riguarda la forza, la velocità, la precisione, l’uomo è inferiore ai suoi apparecchi; e che anche le sue prestazioni mentali fanno una figura meschina in confronto a quelle delle sue macchine calcolatrici»[6].
Un ente difettoso è decisamente inutile; ma non solo: per via del suo “corpo ottuso”, l’uomo porta con sé il discredito di se stesso[7]. La difettosità, infatti, mette a rischio il resto dell’apparato, segno evidente del passaggio da una posizione di forza – in qualità di ideatore e costruttore del mondo – a quella di (almeno potenziale) sabotatore: «non perché danneggi dolosamente i propri prodotti […], ma appunto perché egli, la “creatura viva”, è rigido e “mancante di libertà”; le “cose morte” invece sono dinamiche e “libere”; perché egli, in quanto prodotto della natura, nato da donna, corpo, è troppo dichiaratamente determinato per poter partecipare ai cambiamenti del mondo dei suoi prodotti, che varia ogni giorno ed è privo di qualsiasi autodeterminazione»[8].
Nell’era della tecnica, dunque, l’uomo è prigioniero, non libero; è irretito dalla superiorità tecnologica, schiavo del proprio essere antiquato; e la fatica psicologica dell’inadeguatezza genera il desiderio di sfuggire alla calamità. Ecco, allora, che lo Human engineering viene in suo soccorso, offrendo al povero essere umano una chance al suo senso di inferiorità. Non si tratta, forse, di un perverso riconoscimento alla “legge dell’efficienza”? La macchina è il modello da eguagliare perciò l’uomo, come un pioniere alla conquista di nuove terre, «sposta i propri confini sempre più in là»[9], varca i limiti congeniti alla sua specie, inoltrandosi «nel regno dell’ibrido e dell’artificiale»[10]. Gli esperimenti ai quali sottopone il proprio corpo, come gli interventi diretti sulla propria carne (o sulla struttura genetica), devono rendere la dotazione organica sempre più simile e al passo con le macchine con le quali convive; efficienza, potenza, resistenza: le parole d’ordine da esse dettate.
Insomma, non ne va più dell’antico ardire spavaldo da eroe impavido e imbattibile. Forse l’uomo cerca ancora l’eternità e aspira a identificarsi con un dio; ma la divinità a cui guarda è cambiata, e tra il Faust goethiano e il nuovo mutante biotecnologico si è prodotta una “inversione pratica”: l’uomo non cerca più di affermarsi come uomo, ma di annullarsi come organismo. La sua rinascita, l’attenuazione della vergogna che – più o meno consapevolmente – lo attanaglia, passa attraverso l’ibridazione: l’io cerca un nuovo statuto ontologico e la “reincarnazione industriale” (evidente sintomo di turbamento dell’identità)[11] gli offre una nuova fede.
- Rivoluzioni non solo industriali
Il processo di evoluzione – in un senso certamente darwiniano – ha a che fare con la trasformazione dell’ambiente innescata dall’azione dell’uomo stesso. L’ambiente umano (e l’ambiente in generale) è oggi sostanzialmente “tecnico”, al punto che – sostiene Anders – «non possiamo più dire che, nella nostra situazione storica, esiste tra l’altro anche la tecnica, bensì dobbiamo dire: la storia ora si svolge nella condizione del mondo chiamata “tecnica”; o meglio, la tecnica è ormai diventata il soggetto della storia con la quale noi siamo solo “costorici”»[12]. L’evoluzione trascina con sé l’azione come l’inazione, la volontà di partecipare al progresso tecnologico come la passività di chi si limita a seguire i tempi; persino i tentativi, consapevoli e riottosi, di chi tenta di contrastarla rimangono inevitabilmente travolti dal suo corso. Uno dei fenomeni più significativi è dato certamente con la trasformazione del vecchio homo faber in homo creator e con la sua funzione materiale: il primo “mostruoso” fatto[13] – dice Anders – concerne la capacità non più solo di creare dalla natura ma di creare “della” natura; così che l’espressione “seconda natura”, abbondantemente utilizzata dagli studiosi contemporanei dell’antropologia filosofica, non ha più soltanto un valore metaforico[14]. Oggi esistono pezzi di natura prodotti interamente solo grazie all’attività creatrice dell’uomo; essi non sono cioè dovuti a interventi artificiali su enti naturali, oppure alla sostituzione di alcune parti naturali, ma sono “essenti artificiali” ex novo; in altre parole, non sono varianti «di un tema già dato in precedenza», ma rappresentano «un nuovo tema»[15], sono prodotti di genere assolutamente inedito. Il riferimento è anzitutto ai prodotti della manipolazione genetica e alla clonazione, da cui si possono generare specie organiche inaudite e non prevedibili.
Sia chiaro che lo sconcerto e l’atteggiamento ostile manifestati da Anders non hanno nulla a che vedere con la difesa di una “natura essenziale” e tanto meno con la salvaguardia di una posizione dell’uomo nel cosmo fondata teisticamente o teleologicamente. Il fatto è che, nella condizione in cui è venuto a cacciarsi, l’uomo favorisce una precisa evoluzione della specie: la trasformazione di “una natura che non ha alcuna natura” – era questa la posizione raggiunta al tempo degli studi di antropologia filosofica[16] – in una natura “geneticamente determinata”, programmata e definita quanto più possibile in laboratorio. E non importa se questo non si realizza di fatto sempre e sistematicamente: l’istituirsi della possibilità che una simile cosa accada porta già con sé una vera e propria “mutazione ontologica”.
Eventi del genere si possono determinare perché l’uomo non solo si mostra creator, ma si è contemporaneamente trasformato in materia. “Homo materia” è il nome che assume una porzione di mondo (organica) tra le altre; se l’uomo costruisce usando anche materia umana, tratta se stesso come qualcosa che sta semplicemente “a disposizione” e quindi come “utilizzabile”, come materia prima. Questa non è che la conseguenza più coerente dell’idea, di origine giudaico-cristiana, che il mondo è stato originato per l’uomo ed è quindi totalmente a sua disposizione, come plastico strumento nelle sue mani; e, se anche l’uomo fa parte del mondo (come creato), il passo è breve a trattare sé stesso come materiale d’uso: «dato che il mondo è considerato principalmente come materia prima, anche il pezzo di mondo “uomo” dev’essere considerato tale, così che il principio non permetta eccezioni»[17].
Si tratta, comunque, di «una rivoluzione dentro la rivoluzione»; e più precisamente dentro l’ultimo stadio del rivolgimento industrial-tecnologico concesso all’essere umano (e al mondo). Se il concetto di “rivoluzione industriale” ha descritto sinora l’evoluzione della produzione con riferimento alle fonti di energia utilizzate, Anders trova indispensabile, allo stato attuale, proporre una nuova chiave di interpretazione – squisitamente filosofica – dei rivolgimenti verificatisi, e ne modifica alquanto portata e valore. La «prima rivoluzione» industriale diventa così l’iterazione del principio macchinale, vale a dire il momento in cui si è cominciato a fabbricare macchine o pezzi di macchina attraverso le macchine stesse; questo inizio si è trasformato in regola, grazie soprattutto all’efficacia della (ri)produzione consentita dal sistema socioeconomico. Insieme al vantaggio della velocità (produttiva), scatta il meccanismo dell’autopotenziamento del sistema macchinale; per cui esso non si limita a emettere prodotti finiti da consumare, ma richiede che questi stessi prodotti funzionino come mezzi di produzione. In che modo? Semplice: ottenendo che la loro consumazione renda necessaria ulteriore produzione. L’elemento intermedio è ovviamente lo strumento grazie a cui la prossima produzione diviene necessaria: la pubblicità. La perpetuazione (ma anche la maggiorazione, il miglioramento, il potenziamento) della produzione dipende dalla necessità; ragione per cui, per garantire la produzione futura, occorre garantire la sussistenza del bisogno. Ebbene, la pubblicità ha la funzione di produrre il bisogno di prodotti, anche quello dei più improbabili; e la cosiddetta «seconda rivoluzione industriale» coincide appunto con l’avvento dell’era di questa singolare produzione.
- Infine (The day after)
L’umanità è entrata oggi in un vicolo cieco. Per avere perso, progressivamente, la guida del suo «strumento di evoluzione», cioè della tecnologia, si ritrova in fondo al percorso del proprio sviluppo possibile, senza quasi rendersene conto. L’ingresso in una nuova, decisiva epoca tecnologica rende xdseel’essere umano un residuo organico o, se si preferisce, una «natura finale». L’ingresso in questa fase storica, fa della sua immagine odierna il «ritratto definitivo» di un ente che ha perduto qualunque chance di ulteriore cambiamento[18].
Nello stadio evolutivo attuale si assiste a «un mutamento così spettacolare della sorte dell’umanità»[19] da esserne difficile anche solo la concezione. Il fatto è che l’ebbrezza produttiva dell’homo creator ha reso possibile la costruzione di un oggetto – o meglio: di un tipo di oggetti – che determina la fine delle ere possibili, la fine dell’umanità e del mondo. «Il mezzo di produzione spettacolare a cui mi riferisco – esplicita Anders – è naturalmente quello che per la prima volta ha messo l’umanità in condizione di produrre la propria distruzione, dunque la bomba atomica»[20]. Poiché non possiamo non produrre ciò che sappiamo produrre (né possiamo lasciare inutilizzato ciò che produciamo)[21], il raggiungimento dell’era della seconda rivoluzione industriale significa già un «passaggio oltre», la proiezione in un’epoca priva di uno «sbocco ontologico». La terza rivoluzione industriale è dunque per l’umanità l’ultima era possibile: la fine dei tempi, secondo un principio di «irreversibilità entropica». E ciò vale sia che questa era abbia davvero la sua conclusione sia che perduri: «la nostra era è e rimane […] l’ultima, perché il pericolo che abbiamo provocato con il nostro prodotto “spettacolare” […] non potrà più finire, tranne che con la fine stessa»[22]. L’idea della terza rivoluzione industriale ha così tutta la portata apocalittica di una rivelazione, e più precisamente della rivelazione del potere “estremo” acquisito (suo malgrado) dall’essere umano. Si tratta di un potere infinito, difficilmente immaginabile anche dal più audace Prometeo; è il potere di creare il nulla: «al posto della creatio ex nihilo, comprovante onnipotenza, è subentrata la forza opposta: la potestas annihilationis, la reductio ad nihil»[23]. Siamo dunque divenuti dei titani, i «signori dell’Apocalisse»[24], contemporaneamente giudici e dannati, responsabili di un terribile anatema e vittime dello stesso.
Pessimismo catastrofista? Una consapevolezza catastrofista è certo inevitabile, per le questioni in gioco, ma anche per una precisa scelta metodologico-stilistica[25]. Non è tuttavia corretto considerare Anders un semplice “pessimista”; se mai è un crudo e violento “realista”, ma certamente non rassegnato. Di fronte ai preamboli concreti della fine fisica dell’umanità, dopo gli eventi di Hiroshima e Nagasaki o di Chernobyl, egli non è affatto privo di speranza. Certo, però, a chi voglia schierarsi tra le fila dei «conservatori ontologici»[26], non si addice una speranza che semplicemente spera; occorre invece armarsi di una «speranza attiva», di una disposizione sentimentale che, anziché favorire l’attesa passiva, stimoli l’azione efficace, vigorosamente e responsabilmente. Sia pure a costo di suscitare lo scandalo dei benpensanti[27].
[1] «Il concetto di progresso ci ha resi ciechi all’Apocalisse», G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. I: Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 286.
[2] Il riferimento è a una gustosa storiella dal titolo Evviva l’arte (1933) contenuta nella raccolta G. Anders, Lo sguardo dalla torre, tr. it. Mimesis, Milano 2012, p. 19.
[3] Id., L’uomo è antiquato, vol. I, cit., pp. 58-59.
[4] Ibid., p. 59.
[5] Ibid.
[6] Ibid., p. 65.
[7] Ibid.
[8] Ibid., p. 67.
[9] Ibid., p. 70.
[10] Ibid. C’è chi contesta l’esistenza di limiti antropologici “naturali”. Qui, comunque, Anders non pensa a confini ontologico-essenziali ma a capacità fisiologiche medie dell’essere umano, alle possibilità di prestazione biologica in assenza di potenti interventi artificiali (dal doping alle protesi meccaniche e oltre).
[11] Ibid., p. 93 sgg.
[12] Id., L’uomo è antiquato, vol. 2: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 3.
[13] Ibid., p.14.
[14] La corrente dell’antropologia filosofica tedesca contemporanea, avente come principali rappresentanti Max Scheler, Helmuth Plessner e Arnold Gehlen, ha utilizzato l’espressione “seconda natura” per indicare la predisposizione dell’uomo alla cultura e all’artificio.
[15] Id., L’uomo è antiquato, vol. 2, cit., p. 15.
[16] Si vedano i due saggi di G. Anders ricavati dalla conferenza del 1930, pubblicati in «Recherches philosophiques» IV, 1934-1935 e VI, 1936-1937, dal titolo Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione, tr. it. Palomar, Bari 1993; e Id., L’uomo è antiquato, vol. 2, cit., p. 18.
[17] Ibid., p. 19.
[18] Ibid., p. 3.
[19] Ibid., p. 13
[20] Ibid.
[21] Ibid.
[22] Ibid., p. 14.
[23] Id., L’uomo è antiquato, vol. I, cit., p. 251.
[24] Ibid.
[25] «Argomenti minimizzati richiedono formulazioni esagerate», ibid., p. 247.
[26] Id., Il mondo dopo l’uomo. Tecnica e violenza, tr. it. Mimesis, Milano 1993, p. 78.
[27] Gli argomenti di Anders contro il pacifismo non violento, considerato purtroppo totalmente inefficace, sono noti; allo stesso modo, egli apostrofa la speranza come inutile e perfino dannosa: «non si deve dare speranza, si deve impedire la speranza. Poiché a causa della speranza nessuno agirà. Colui che spera lascia il miglioramento a qualche altra istanza», ibid., pp. 93-94.