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Web, bosoni e mendaci neutrini. Lezioni epistemologiche dal tempio della comunicazione totale

Autore


Pietro Greco

Fondazione Idis - Città della Scienza

Indice



  1. I primati del Cern
  2. L’invenzione del web
  3. La scoperta del bosone di Higgs
  4. Il caso dei neutrini più veloci della luce
  5. Il valore epistemologico di un cavo avvitato male

 

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S&F_n. 09_2013

Abstract


The European Laboratory for Particle Physics (CERN) in Geneva is the world biggest physics laboratory. But CERN is a communication laboratory, too.  At CERN twenty years ago it was created the web. Today in CERN physicists are testing science communication in original situation: both in cases of successful researches (as the recent discovery of “Higgs boson”) both in case of “salutiferi errori”, providential errors, (as the recent saga of “neutrino faster than light”).


  1. I primati del Cern

Il CERN di Ginevra vanta molti primati. Il primo – è, forse, il meno noto – è che il Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire (CERN, appunto), fondato nel 1954, è stata la prima istituzione europea. Il primo esempio di quell’Europa che, dopo due terribili conflitti, decide di «mettersi insieme», di iniziare a pensarsi e ad agire come un’unione di popoli fratelli e costruire così una pace duratura.

Il più grande laboratorio di fisica sperimentale al mondo, ecco il secondo primato, nasce dunque come un operatore e, per certi versi, come un generatore di pace.

Un terzo primato assoluto è quello di ospitare, nel suo sottosuolo, la più grande e potente macchina mai costruita dall’uomo: il Large Hadron Collider, LHC. L’acceleratore che un anno fa, o giù di lì, ha catturato il «bosone di Higgs».

Un quarto primato è quello di essere il più grande laboratorio di scienza di base al mondo. Ovvero di quella scienza che cerca di produrre nuova conoscenza sul mondo rispondendo a domande fondamentali dettate dalla sola curiosità dei ricercatori (curiosity-driven), senza porsi il problema di una qualche immediata applicazione. Il CERN è, in qualche modo, il tempio della «conoscenza pura». Dove si celebra ogni giorno il valore in sé della conoscenza.

Nel conquistare e per conquistare questi primati la comunità scientifica che lavora al CERN è nata e si è sviluppata nel corso di sessant’anni «abbattendo il paradigma della segretezza», come avrebbe detto Paolo Rossi, il grande storico delle idee.

Un atto profondamente europeo. Che è all’origine e caratterizza la «nuova scienza» nata, appunto, in Europa nel XVII secolo assumendo come valore quello di «comunicare tutto a tutti». Un valore, a ben vedere, niente affatto scontato. E che al CERN trova una sua rinnovata e formidabile espressione, con connotati sia sociologici (la trasparenza come collante di una comunità) sia epistemologici (la nuova conoscenza viene prodotta attraverso la comunicazione trasparente).

Gli esempi che accreditano il CERN come tempio della «comunicazione totale» davvero non mancano. Ne possiamo indicare tre, presi a prestito dalla cronaca: l’invenzione del web; la scoperta del «bosone di Higgs» e la scoperta, errata, del «neutrino più veloce della luce».

 

  1. L’invenzione del web

Il World Wide Web, più semplicemente il web, è la tecnologia informatica che è, ormai, alla base della comunicazione su internet. Ebbene questa tecnologia, dal valor pratico così devastante – questa vera e propria rivoluzione tecnologica – è nata a Ginevra, nel tempio della conoscenza pura, nell’ottobre 1990 grazie all’idea di un ricercatore inglese, Timothy John Berners-Lee.

È nata da un’esigenza di comunicazione. Una nuova domanda che è emersa come espressione di una nuova organizzazione del lavoro degli scienziati che è stata definita Big Science. In pratica – e il CERN ne è, appunto, la massima espressione – dopo la seconda guerra mondiale una parte della comunità scientifica ha compreso che le risposte ad alcune domande fondamentali possono trovare soddisfazione solo lavorando insieme, in grandi progetti comuni. Proprio come era successo nel corso del Progetto Manhattan, quando circa 6.000 tra ricercatori e ingegneri, con oltre mezzo milione tra tecnici e operai, avevano, appunto, lavorato insieme per produrre i prototipi di una nuova arma, atomica. L’obiettivo fu raggiunto in appena tre anni.

Il Progetto Manhattan può essere considerato, a giusto titolo, il primo esempio di Big Science. E pur avendo prodotto qualcosa di non propriamente desiderabile, un’arma di distruzione di massa, aveva indicato un nuovo percorso nel modo di lavorare degli scienziati.

Non a caso sono stati i fisici – gli scienziati protagonisti del Progetto Manhattan – ad acquisire per primi la nuova organizzazione del lavoro e ad applicare il modo della Big Science, grandi gruppi per grandi progetti, alla ricerca civile e di base della fisica delle alte energie. Proprio la fisica che si realizza al CERN.

Nel grande laboratorio di Ginevra ci sono gruppi di lavoro formati da centinaia – ormai, da migliaia – di fisici, alcuni dei quali delocalizzati. Nel senso che lavorano, almeno in parte, fisicamente lontani dal laboratorio e persino da Ginevra. Sparsi per il mondo. Il problema che avevano i membri di questi gruppi, almeno fino alla fine degli anni ’80, era come trasferirsi l’un l’altro informazioni – spesso grandi pacchetti di informazione – in tempo reale. Come comunicare, appunto, «tutto a tutti».

Timothy John Berners-Lee risolve il problema al CERN, inventando il World Wide Web. La tecnica che consente di connettere i computer di tutti con tutti. La tecnica che, come abbiamo detto, è alla base del sistema di comunicazione via internet. Questo del web è forse l’esempio più clamoroso degli effetti imprevedibili apriori ma, appunto, eclatanti che produce, direttamente o indirettamente la scienza di base. Ma è anche un esempio che gli inediti problemi di comunicazione di nuove comunità scientifiche che hanno necessità di «abbattere il paradigma della segretezza», almeno al loro interno, produce nuova conoscenza e nuova tecnologia.

Ma non è finita. Perché il 30 aprile 1993, per decisione della direzione del CERN e in ossequio al principio della comunicazione totale, la tecnologia web viene resa pubblica e accessibile a tutti. In pratica, non viene brevettata. Ha così avuto una diffusione tanto rapida e capillare a livello globale da costituire un autentico record nella storia delle comunicazioni di massa. La trasparenza ha prodotto un bene comune di inestimabile valore.

 

  1. La scoperta del bosone di Higgs

Il 4 luglio 2012 l’italiana Fabiola Gianotti annuncia con una conferenza pubblica nell’aula magna del CERN, che i fisici di due collaborazioni, ATLAS e CMS, hanno trovato indicazioni, con una significatività statistica di 5 sigma, che nel gergo dei fisici significa «scoperta», dell’esistenza di una particella di massa vicina a 125 GeV (giga elettronvolt). La particella ha le caratteristiche di un bosone. Una particella messaggero.

Certamente si tratta del «bosone di Higgs». Per chi avesse ancora dubbi basta che guardi le lacrime di gioia che sgorgano in diretta dagli occhi di Peter Higgs, il teorico scozzese che ha ipotizzato l’esistenza della particella quasi mezzo secolo fa, per capire che questa volta non si scherza. La scoperta è reale.

I risultati annunciati a parole da Fabiola Gianotti vengono messi per iscritto e pubblicati su ArXiv, un sito on line e open access senza peer review. Tante espressioni inglesi per indicare una nuova comunicazione diretta, che avviene in rete, in un sito accessibile a tutti e senza il preventivo esame critico da parte di colleghi esperti e anonimi.

Molti puristi della comunicazione della scienza hanno storto la bocca. Un risultato così importante avrebbe dovuto essere pubblicato in maniera canonica, e superare il vaglio critico di referees esperti, prima di essere dato in pasto a tutti.

Ma al CERN ha prevalso la logica della trasparenza totale. Abbiamo risultati eclatanti. Li abbiamo ben vagliati al nostro interno – ciascuno dei gruppi ATLAS e CMS è costituito da oltre mille ricercatori – e ora li offriamo a tutti. In modo che tutti possano farne la revisione critica.

È molto probabile che sarà questa la forma di comunicazione della scienza del futuro. Fabiola Gianotti – che a dicembre otterrà, prima scienziata italiana, la copertina di Time – e il CERN di Ginevra non l’hanno inventata. Ma, con la loro scelta, l’hanno certamente corroborata. Accettando di correre qualche rischio.

 

  1. Il caso dei neutrini più veloci della luce

Quali rischi si corrano con una comunicazione totale e trasparente è ancora una volta il CERN, insieme al Laboratorio Nazionale che l’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) ha al Gran Sasso, a dimostrarlo. Ci riferiamo al caso dei neutrini più veloci della luce. Un caso che ha molte cose da insegnare, anche dal punto di vista dell’epistemologia e del ruolo dell’errore nella scienza.

Il primo, clamoroso annuncio viene dato nel settembre 2011 da Antonio Ereditato, l’italiano leader il gruppo OPERA. Il team sembra aver verificato che il neutrino, minuscola e inafferrabile particella, ha attraversato la roccia e ha percorso i 730 chilometri che separano il CERN di Ginevra dai Laboratori Nazionali del Gran Sasso in un tempo di 60 nanosecondi inferiore a quello che impiegherebbe la luce nel vuoto a percorrere un analogo tragitto.

Molti colleghi di Ereditato hanno storto la faccia: non si può dare un annuncio simile con una conferenza e con un articolo su ArXiv.

Poi, alla fine del mese di febbraio 2012, cinque mesi dopo, l’altrettanto clamorosa smentita, sempre a opera di Ereditato. Attenzione: nel complesso sistema tecnologico che funge da orologio e cronometra la velocità dei neutrini c’è qualcosa che non ha funzionato. Forse è per questo banale errore che abbiamo attribuito al neutrino capacità che non possiede.

Molti giornali hanno titolato: anche la scienza sbaglia.

Ma è questa del «neutrino più veloce della luce» è davvero la storia di un fallimento?

Forse no. O meglio, è certamente un errore scientifico. Ma forse non è un fallimento epistemologico. E neppure un fallimento del sistema di comunicazione. Sia come sia, quello del «neutrino più veloce della luce» è un caso di scuola. Non di junk science, di scienza spazzatura. Ma, al contrario, di scienza che funziona. Un caso che ci dice come davvero funziona la scienza. E come funziona la comunicazione della scienza, che dell’impresa scientifica è parte coessenziale.

Facciamo, dunque, parlare i fatti. Che, mai come in questo caso, sono piuttosto eloquenti. Tutto inizia nella notte tra il 22 e il 23 settembre 2011, quando i 160 fisici della collaborazione internazionale Oscillation Project with Emulsion-tRacking Apparatus (OPERA), guidati da Antonio Ereditato, pubblicano su ArXiv, il sito on line della Cornell University, il rapporto: «Misura della velocità del neutrino con il rivelatore OPERA del fascio CNGS».

A dare l’annuncio è un gruppo internazionale di scienziati. Tra i più esperti al mondo di fisica dei neutrini. Da diversi anni il gruppo studia il comportamento dei neutrini che, generati al CERN di Ginevra, raggiungono i rilevatori presso i Laboratori Nazionali del Gran Sasso, ovvero dal più grande centro di fisica del mondo al più grande centro di fisica sotterranea al mondo. Nel corso di questi anni OPERA ha verificato che i tre tipi noti di neutrini «oscillano», ovvero si trasformano gli uni negli altri, proprio come aveva previsto l’italiano Bruno Pontecorvo. Ne consegue che i neutrini hanno una massa, contrariamente a quanto previsto dal Modello Standard delle Alte Energie.

Con questi e altri risultati il gruppo OPERA si è guadagnato una notevole credibilità scientifica.

Nel corso di oltre due anni Ereditato e i suoi 160 collegi hanno incidentalmente misurato il tempo che i neutrini generati a Ginevra impiegano a raggiungere il Gran Sasso. Un tempo che, incredibilmente, risulta di circa 60 nanosecondi inferiore a quello che avrebbe impiegato la luce a percorre il medesimo percorso. Il guaio è che i fotoni luminosi, come quelli dell’intero spettro elettromagnetico, non sono particelle elusive come i neutrini e, pertanto, vengono immediatamente bloccati dalla roccia. Per poter fare un’analisi comparata non si possono far correre gli uni accanto agli altri i neutrini e i fotoni e vedere chi arriva prima. Occorre conoscere perfettamente la reale distanza tra il CERN e il Gran Sasso e verificare qual è stato il reale percorso dei neutrini.

È possibile – è anzi probabile – che ci sia un errore. Ma in oltre sei mesi di verifiche OPERA non lo ha trovato.

Il titolo dell’articolo che compare su ArXiv è piuttosto anonimo. E la forma è molto prudente. OPERA fornisce i dati, non ci si lancia in alcuna interpretazione. Ma il contenuto è comunque dirompente: perché da quella misura risulta, appunto, che il neutrino viaggia a una velocità superiore a quella della luce. Un’impresa ritenuta difficile da spiegare nell’ambito dei modelli correnti con cui la fisica spiega l’universo intorno a noi. Questi modelli, che sono in grado di fare previsioni straordinariamente precise, si fondano sulla teoria della relatività di Albert Einstein secondo cui nulla, nel nostro universo, può viaggiare a una velocità superiore a quella della luce. O, più in generale, della radiazione elettromagnetica (di cui quella luminosa è parte) trasportata da una particella, il fotone, privo di massa.

Alcuni teorici si affrettano a far notare che in realtà la teoria di Einstein prevede che ci sia un limite superiore invalicabile alla velocità con cui può muoversi una qualsiasi particella nel nostro universo. Ma non impone che questo limite debba essere la velocità della luce. La velocità limite potrebbe ben essere quella dei neutrini superluminali. Ma allora occorrerebbe spiegare come fanno, particelle dotate di massa (sia pure piccolissima) come i neutrini, a viaggiare più veloci di particelle che non hanno massa (come i fotoni).

Insomma, se dovesse essere confermata, la misura di OPERA sarebbe una delle scoperte più importanti in fisica dell’ultimo secolo. E con ogni probabilità costringerebbe i teorici a riscrivere i fondamenti della fisica moderna. Ma, come ritengono molti fisici e come sostiene lo stesso Antonio Ereditato, l’italiano docente dell’università di Berna che guida il team di OPERA, occorrono prudenza e nuove conferme, prima di darla per realizzata questa clamorosa scoperta.

Ma se occorre prudenza, perché avete pubblicato i dati, sostengono i critici? Non era meglio aspettare una verifica indipendente?

Ecco, dunque, che l’annuncio di una possibile, straordinaria scoperta, diventa un problema (anche) di comunicazione e di trasparenza.

In realtà le domande relative alla comunicazione che si trovano ad affrontare i 160 fisici del gruppo OPERA sono due. Il primo: dovevamo comunicare questi dati clamorosi al resto della comunità scientifica o era meglio attendere almeno una verifica indipendente? Secondo: come dovevamo comunicare la notizia ai nostri colleghi e al grande pubblico?

La risposta a queste domande, anche nel gruppo OPERA, non è stata affatto scontata. Se ne è discusso a lungo, dopo aver raccolto i dati anomali per due anni e aver fatto, aver rifatto i conti per almeno sei mesi e aver constatato che l’inatteso restava. Tutti erano consapevoli di camminare lungo l’incerto confine che separa la gloria dal ridicolo. Così una parte del gruppo, quella minoritaria, avrebbe voluto attendere ancora. Meglio avere una conferma indipendente. Mentre la maggioranza del gruppo ha sposato la tesi che, avendo fatto e rifatto i conti, era giusto fornire i dati al resto della comunità scientifica perché, con il solito processo della revisione critica e della riverifica empirica, potesse appurare se la misura era esatta o ci fosse qualcosa di sbagliato.

Non era facile decidere. Perché entrambe, la trasparenza e la prudenza, sono virtù del buon ricercatore. Ed entrambe, dunque, erano scelte legittime. Tuttavia quella decisa dalla maggioranza del gruppo OPERA è stata la scelta più giusta, come ha sottolineato il premio Nobel per la fisica Sheldon Lee Glashow. La trasparenza deve prevalere sulla prudenza. Il motivo è semplice.

 

  1. Il valore epistemologico di un cavo avvitato male

La scienza non consiste solo nell’«interrogare la natura», con la mera osservazione o con gli esperimenti più sofisticati. Interrogare la natura resta un atto privato se non è seguito dalla pubblicazione dei risultati dell’osservazione e/o degli esperimenti. Ce ne fornisce una plastica dimostrazione Galileo Galilei quando perfeziona un’innovazione tecnologica, il cannocchiale, e – con quello che è stato definito un atto di coraggio – nell’autunno del 1609 lo punta verso il cielo, osservando, letteralmente, «cose mai viste prima»: la superficie scabrosa che fa della Luna un oggetto «della stessa specie della Terra»; quattro lune che ruotano intorno al pianeta Giove; una quantità di stelle ben superiore a quella visibile a occhio nudo.

Mentre effettua queste osservazioni che sconvolgono un’immagine plurimillenaria dell’universo, Galileo si rende conto che esse non hanno validità scientifica alcuna se non ne rende partecipi in primo luogo «gli astronomi e i filosofi», ma anche tutti coloro che hanno «gli occhi nella fronte e nel cervello». Insomma, se non li comunica.

E, infatti, per tutto l’inverno successivo di notte Galileo osserva e di giorno scrive, in modo che alla fine del primo ciclo di ricerche sia in grado di pubblicare il suo Sidereus Nuncius, cosa che avviene puntualmente il 12 marzo 1610.

Galileo, dunque, si è reso conto che la comunicazione è l’istituzione sociale fondamentale della nascente comunità scientifica e la trasparenza assoluta è un valore fondante. È anche grazie a questo comportamento di Galileo che, come ha rilevato Paolo Rossi, la scienza moderna nasce «abbattendo il paradigma della segretezza».

Dunque, dopo attenta verifica pubblicare i dati, anche se anomali e clamorosi, è un dovere, prima ancora che un diritto, per gli scienziati. Il gruppo OPERA, con molto coraggio, ha aderito a questo valore fondante della scienza moderna. Anche a costo di esporsi al ridicolo, in caso di un banale errore di misura.

Certo, è stata meno lineare o forse solo più ingenua la comunicazione al grande pubblico dei non esperti. Il gruppo OPERA non ha compreso che, nell’agorà dei media, ogni prudenza sull’interpretazione dei dati sarebbe venuta meno. E «la misura della velocità dei neutrini» sarebbe stata immediatamente trasformata nella «clamorosa scoperta che i neutrini viaggiano a velocità superiore a quella della luce». Come è puntualmente avvenuto.

La notizia del «neutrino più veloce della luce» ha catturato immediatamente l’attenzione dei media di tutto il mondo. E sui giornali, nelle televisioni, su internet la remota possibilità è diventata certezza. Un’impressione, peraltro, corroborata da molti – fisici e non – che, come abbiamo detto, hanno iniziato a proporre varie spiegazioni teoriche dell’inatteso fenomeno.

Cinque mesi dopo, il nuovo comunicato ufficiale di OPERA. Preceduto dalla solita violazione dell’embargo: la misura dei neutrini «più veloci della luce» potrebbe essere stata il frutto di un errore. Di un errore piuttosto banale: il cattivo funzionamento di un cavo in fibra ottica che collega il sistema GPS (il sistema satellitare di posizionamento globale, che consente misure della distanza tra due punti sulla Terra molto precise perché basato proprio sulla teoria della relatività) a un computer. Era male avvitato. I sistemi di sicurezza prevedevano che, in caso di cattivo contatto, il sistema non dovesse funzionare. Invece ha funzionato alterando i dati. E dando l’impressione che i neutrini percorressero il tragitto tra il CERN e il Gran Sasso attraversando la roccia a una velocità, appunto, superiore a quella della luce.

La vicenda che si è consumata tra il CERN e il Gran Sasso fornisce un insegnamento: la comunità scientifica sa riconoscere i propri errori ed è in grado di auto correggersi.

Non sono certo mancate ingenuità e piccoli errori, oltre al grande errore. Tuttavia nella vicenda la comunità dei fisici ha dimostrato, ancora una volta, la grande forza della scienza: che non è quella di raggiungere certezze, ma di agire con prudenza nelle interpretazioni e soprattutto di cercare con onesta intellettuale l’errore. È una grande capacità di autocorrezione. Infatti è stato lo stesso gruppo OPERA a scoprire il banale inghippo e a darne prontamente conto.

L’errore, nella storia della scienza, è frequente. E, spesso, commettere un errore ha un valore epistemologico altrettanto grande del conseguimento di un risultato esatto. Gli scienziati, come tutti gli uomini, imparano anche dagli errori che commettono. Anzi, spesso un errore insegna molto di più di un risultato esatto. Basta riconoscerlo. E non è da tutti.

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