Autore
Indice
- Rottamare un filosofo?
- Tempo libero
- Voglio “di più”
- Mai e poi mai a Berlino!
- Le scarpe della contadina
S&F_n. 14_2015
Abstract
Rethinking Heidegger between his provincialism and the rejection of urban modernity seems to be a different approach to the understanding of his Nazi’s support. With some Adorno’s remarks taken from Jargon der Eigentlichkeit (1964) we try to pursue this hypothesis.
- Rottamare un filosofo?
Non è facile per coloro che hanno dedicato la vita accademica e anni di studio al pensiero di Martin Heidegger decidere oggi, con la pubblicazione dei Quaderni neri in corso, di rivedere alcune posizioni intorno al suo pensiero, o di affrontare con schiettezza i temi scabrosi ivi contenuti per ripensare e riconsiderare l’impianto teoretico, le pretese della sua riflessione, del suo linguaggio e delle sue tematiche[1]. Ormai la letteratura sull’argomento è nota e fin qui già ampia: non ci dilungheremo su questo, ma ricorderemo soltanto ai pochi che non lo sapessero che le origini del contendere intorno al “caso Heidegger” risalgono a molto tempo fa e che per svariati motivi, dovuti a buona o cattiva coscienza, le sue radici affondano in un terreno un po’ dimenticato. Queste note intendono far emergere appena qualche ramo di queste radici avendo come punto di partenza la convinzione che il “caso” non riguardi solo direttamente il “mago di Messkirch”, ma l’orizzonte degli heideggeriani nel contesto della filosofia tedesca.
In uno spazio limitato si può solo fare cenno a qualcosa e le brevi considerazioni che seguono hanno come punto di partenza alcune osservazioni compiute da Th.W. Adorno tra il 1962 e il 1964 in un testo pubblicato una prima volta nel 1964, poi ampliato e ristampato nel 1967 e tradotto in italiano nel 1989 con introduzione di Remo Bodei: mi riferisco a Il gergo dell’autenticità[2]. Il Gergo è un testo in parte sottovalutato e in parte mal compreso: in primo luogo perché è stato letto come un mero pamphlet polemico che prende di mira in particolare Heidegger utilizzando uno stile e un approccio ritenuto, colpevolmente, “più basso” rispetto al linguaggio arcanamente filosofico del suo avversario. Lo stesso Bodei, nell’Introduzione, pensa che Adorno non prenda troppo sul serio il suo avversario, quando poi di fatto ne coglie in toto la pericolosità[3]. In secondo luogo, ed è sempre Bodei a sottolinearlo, sembra che Adorno prenda gusto ad attaccare Heidegger in quei momenti in cui questi abbassa la tensione intellettuale cedendo in direzione di una minore concentrazione della coscienza[4]. Rileggendo il testo di Adorno non solo non ci pare che le cose stiano così – Adorno non approfitta mai del suo avversario colpendolo a guardia bassa perché in questo caso non godrebbe del piacere di vederlo al tappeto – ma lo stesso Heidegger non fa che ritenersi un filosofo tanto serio ed epocale che mai mostra un abbassamento della concentrazione e della tensione fino a cadere nella chiacchiera. Heidegger stesso ci invita continuamente a non considerare mai chiacchiera il suo discorso: l’importanza dei Quaderni neri sono lì a dimostrare che nelle sue intenzioni non c’è mai abbassamento della tensione intellettuale, anche là dove il genere testuale sembrerebbe suggerirlo. Proprio la parola d’ordine di smettere di filosofare per porre la domanda sul nuovo inizio va a coincidere con l’uscita dalla razionalizzazione della tecnicizzazione, dall’erudizione e dalla storia, così come dall’ontologia[5], ma soprattutto coincide con l’autocompiacimento di sé e della sua scrittura come di qualcosa che non giunge mai al di sotto del suo pensare. Lo stesso curatore dei Quaderni neri, Peter Trawny, sottolinea come essi siano avamposti invisibili del fondamentale stato emotivo del domandare costituenti un nuovo percorso espressivo di Heidegger accanto, e non sotto, quello che già conosciamo[6]. Allo stesso modo il discorso di rettorato viene considerato da Heidegger come l’enunciazione di qualcosa di essenziale[7]. Dunque, se per Heidegger non v’è mai un momento di allentamento, allora a maggior ragione è lecita la serietà della satira illuministica del Gergo[8]. Se la parola di Heidegger è sempre seria e mai chiacchiera, anche quando essa appare di un tono minore, allora è lecito prenderlo sempre sul serio e non certo a intermittenza.
- Tempo libero
D’altronde in un intervento che potremmo giudicare meno elevato e più discorsivo, tenuto alla radio tedesca il 25 maggio del 1969, Adorno ha dato implicitamente ragione alle pretese heideggeriane di costante serietà del lavoro del filosofo, pur rovesciandone la prospettiva[9]. Prendendo spunto dalla questione del tempo libero e riferendosi all’ambito dell’esperienza personale, Adorno in quella intervista dichiara di non avere alcun hobby non perché si ritiene un animale da lavoro, ma in quanto: «ciò a cui mi dedico al di fuori della mia professione ufficiale, è per me, senza eccezione, così serio, che l’idea che si possa trattare di hobby, dunque di occupazioni di cui io vada assurdamente pazzo, soltanto allo scopo di ammazzare il tempo, mi procurerebbe uno stato di choc se la mia esperienza non mi avesse reso resistente a quelle manifestazioni di barbarie che ormai sono diventate ovvietà». Adorno continua rimarcando il fatto che il suo lavoro di produzione filosofica e sociologica e quello dell’insegnamento «è stato finora per me così pieno di soddisfazioni che non potrei ricondurlo a quell’antitesi col tempo libero, che la drastica classificazione corrente esige dagli uomini». In tal modo, conclude Adorno, ogni attività non strettamente legata al suo lavoro non è affatto in contrasto con esso e, avendo il privilegio riconosciuto di poter scegliere e organizzare il lavoro secondo le proprie intenzioni, i momenti di tempo libero – comporre o ascoltare musica, andare a teatro o al cinema, o quant’altro – rientrano a loro titolo nell’ambito di ciò che, dalla situazione di privilegio, viene condotto a vantaggio di una condizione di vita unitaria.
Applicando questo criterio alle valutazioni che il Gergo fa intorno all’autenticità heideggeriana vediamo come queste confermino la pretesa di costante serietà del detto heideggeriano, anche là dove esso cade di tono; in tal modo esse legittimano non solo le scelte del Gergo, ma indicano che proprio in quei momenti appare di nuovo, forse in altra forma, il motivo dominante del lavoro e della riflessione del filosofo che non smette di esserlo anche quando esteriormente è chiamato a distrarsi, pena la rottura della continuità che lo introdurrebbe nel circolo dell’alienazione tra lavoro e tempo libero. Insomma, sarebbe la stessa pretesa di serietà che Heidegger impone a se stesso e ai suoi lettori che dà ragione ad Adorno della scelta di tono delle sue critiche, confermando con ciò l’urgenza di analizzare i lati oscuri del pensiero heideggeriano anche alla luce dei suoi scritti laterali.
- Voglio “di più”
Appurata la serietà del detto heideggeriano le domande che guidano le nostre considerazioni non sono tanto quelle che interrogano se e come è possibile che un grande filosofo sia stato un nazista e un antisemita, o se e come un nazista e un antisemita possa essere stato anche un grande filosofo – domande importanti, sia chiaro, che hanno tutto per essere gli indicatori di una riflessione – quanto quelle che si possono formulare così: come è stato possibile che il nazismo sia sorto in Germania e abbia avuto un tale consenso a tutti i livelli della popolazione? Che cosa ha a che fare il nazismo con la Germania? Che cosa ha a che fare un filosofo tedesco con il nazismo e quali sono i motivi per cui alcuni filosofi tedeschi sono stati nazisti e altri no? Non risponderemo estesamente a queste domande, ma le terremo come indicatori.
Tocchiamo alcune considerazioni di Adorno. Nel registrare il fenomeno di standardizzazione del gergo dell’autenticità, che inizialmente aveva il carattere di linguaggio d’élite e di simbolo del privilegio socializzato, Adorno ne coglie l’attuale diffusione tale che esso permea le masse che il gergo stesso ha cercato di tenere lontane: ciò è dovuto al fatto che il gergo ha perso contatto con la realtà dell’esperienza, propria e dell’alterità, sciogliendosi nella mera identità apparente tra l’autocostituzione del gergo e il suo messaggio[10]. La standardizzazione va di pari passo con il culto dell’autenticità: «L’autorità dell’assoluto viene deposta dall’autorità assolutizzata», e ciò mostra non solo come il fascismo si sia sviluppato all’interno di una forte tendenza sociale condivisa, ma che si sia presento palesemente come una salvezza.
Modello fisso di comportamento da parte dell’autenticità è il divenire il suo contrario, nel momento stesso in cui lo nega. Ciò va di pari passo con il fatto che il gergo rende superfluo il pensare, in quanto pensa al posto del pensante: esso indica, senza percorrerla, la strada verso quel “di più” che risiederebbe in un fantomatico spazio di trascendenza della verità rispetto al significato delle singole parole, uno spazio capace di costituire l’orizzonte dell’ideale entro cui l’intera filosofia ritiene di essersi ritirata[11]. Con ciò l’ipocrisia diventa l’apriori stesso: nel momento in cui non è più in grado di soddisfare il proprio concetto, la filosofia opera il suo ritiro nella sfera del “di più ideale” dalla quale riveste il non identico con parole auratiche – si parla qui e ora il linguaggio quotidiano come se fosse quello sacro. La modalità della comunicazione del gergo sta proprio in ciò, che chi pensa e parla ritiene di essere l’interezza della persona, che prende le distanze dalla massa recuperando ciò che ritiene di aver perso nel processo della comunicazione spersonalizzata. Proprio per questo, scrive Adorno, tale illusione raccoglie l’entusiastico accordo di tutti[12].
Il “di più” raccolto e offerto dall’autorità di quella interezza emerge nell’autenticità heideggeriana declinato in un gergo provincialistico la cui tematizzazione mostra quegli elementi sociali tipici del processo di standardizzazione che si illude di negare. Il valore delle cose semplici ricalca la tacita identificazione dell’arcaico con il genuino: il ritiro nella provincia carica di genuinità traccia la strada a quel pensiero omologante che, tramite l’autenticità, sale verso le vette dell’astrazione e, contemporaneamente, cade nella banalità filosofica propria di una presunta magica appartenenza all’assoluto – in questo caso all’Essere. Ecologica genuinità e metereologica disposizione mostrano la strada della vicinanza all’Essere e alla sua verità, strada che viene percorsa dal Brief über den Humanismus (1946) fino Aus der Erfahrung des Denkens (1954) senza mai prescindere dall’imperativo del “nuovo inizio” indicato dai Beiträge (1936-1938).
Scrive Adorno che, in questo caso, il pensatore autentico abbandona senza pentimento i percorsi di una cosa così moderna come la filosofia, per seguire i sentieri dove fioriscono i narcisi isolati nascosti nel prato ... o lo scampanìo delle mandrie che passano lente sui clivi ... là dove precipitano i ruscelli e la pioggia scroscia, sgorgano le sorgenti e dimorano i venti...[13].
Nel conferire un significato positivo al provincialismo, Heidegger esprime l’ideale nella figura dell’arcaico individuando in esso la vicinanza all’originario: niente di più magico che affrontare il mito avendo dismesso la filosofia, per sostituirla con una meditazione di ciò che la parola non coglierà mai – in attesa di un domandare sempre a venire![14] – e ritrovarsi, così, a subire la vendetta del mito cadendo nella banalità dell’inarrivabile.
- Mai e poi mai a Berlino!
Adorno coglie nel rifiuto di Heidegger di una cattedra a Berlino uno dei caratteri del gergo dell’autenticità. Heidegger esplicitò le motivazioni di tale rifiuto in un articolo dal titolo: Perché restiamo in provincia? Adorno riporta un passo dell’articolo in cui il domandare essenziale (in attesa del quale attende l’intero pensiero giunto al termine) si materializza attraverso il momento meteorologico tipico e prototipico della Selva Nera alemanno-sveva. Così è scritto: «Quando in una notte fonda d’inverno una tempesta di neve infuria con i suoi colpi attorno alla baita e tutto copre e nasconde, allora il tempo è maturo per la filosofia. Il suo domandare deve allora diventare elementare ed essenziale»[15]. Ora, che il domandare essenziale attenda le giuste condizioni metereologiche nel luogo adatto della Selva Nera per essere svelato e che solo colui che sa dire di “no” al richiamo dell’università metropolitana – un’università che, a detta di Heidegger, certamente soffre di essere invasa dalla scienza moderna, da un livello di tecnicizzazione intollerabile che avvelena le scienze dello spirito, da un ideale di progresso che affossa ogni autentico tentativo di pensare cedendo così al dominante elemento metropolitano piccolo-borghese[16] – possa cogliere questo “nuovo inizio” e assumerlo nella sua meditazione, appare tanto sconcertante quanto ovvio nella sua banale pretesa di genuinità.
Essere radicati nel sangue e nel suolo comporterebbe incrociare con complicità gli occhi del contadino che intimano, con sguardo sicuro e bocca rigidamente chiusa: “Non andare a Berlino!”[17]; ma allo stesso modo esso implicherebbe anche prendere le distanze dalla metropoli, dal suo frenetico intensificarsi della vita nervosa e psichica e dall’adattamento del blasé, per rifugiarsi nell’arcaicità della provincia e nei cliché più stinti dello strapaese[18].
Ma c’è di più: qui non solo si rivela la più totale incomprensione del mondo contadino dovuta all’intimo senso di superiorità del filosofo interrogante – superiorità che non viene esplicitata, ma è contenuta negli istinti ammuffiti del Kitsch tedesco piccolo-borghese e nei suoi cliché, da cui Heidegger tenta invano di prendere le distanze, e che gli impedisce di comprendere la sottrazione solo apparente che l’odierno mondo contadino ha con la società di scambio e con l’economia della produzione di merci[19] – ma emerge evidente il chiaro e netto rifiuto di quella Berlino che, analogamente, lo stesso Hitler odiava, tanto da spostare il suo QG al Berghof, sull’Obersalzberg.
Quella Berlino è la metropoli delle Berliner Straßenszenen e del Cafègarten di Ernst L. Kirchner; delle Straßen e dei Tanzsalon di Max Beckmann; delle masse di luci e colori, dei brandelli umani e delle file di finestre di Ludwig Meidner, elementi di una nuova e dirompente percezione del paesaggio urbano. È la Berlino delle folle di Piscator e delle apocalissi di Metropolis. Ma anche la Berlino delle caricature politiche di George Grosz e dei ritratti ai tavolini del caffè di Otto Dix: appunto, del Café des Westens sul Kurfürstendamm o del Romanisches Café sulla Tauentzienstraße. È la Berlino dei grandi magazzini Tietz sulla Alexanderplatz e dei KaDeWe che daranno vita alla zona del Kudamm. Berlino è la metropoli operaia di Hugo Krayn, delle scene di strada di Nikolaus Braun, così come quella della flânerie della Freidrichstraße e Unter den Linden in cui sono coglibili i minimi dettagli di una quotidianità a cui sfugge il senso complessivo e la visione d’insieme, ma non per questo rinuncia a darne un senso. Massima concentrazione e massima distrazione; lo descrive molto bene Moholy-Nagy:
Con l’eccezionale sviluppo della tecnica e delle metropoli i nostri organi di ricezione hanno ampliato la loro idoneità a una funzione acustica e ottica simultanea. Esempi di questo genere si riscontrano anche nella vita di tutti i giorni: dei berlinesi attraversano la Potsdamerplatz. Mentre conversano, essi odono contemporaneamente: lo strombazzare delle automobili, lo scampanellare dei tram, i segnali degli omnibus, gli incitamenti dei cocchieri, il sibilo della metropolitana, le grida del venditore di giornali, il suono di un altoparlante, ecc., e sanno mantenere distinte queste diverse impressioni acustiche. Invece, poco tempo fa, sulla stessa piazza, un provinciale si lasciò sconcertare talmente dalla quantità di impressioni da rimanere come inchiodato davanti a un tram che sopraggiungeva. Ovviamente è possibile ricostruire un caso analogo con le esperienze ottiche. È anche altrettanto chiaro che l’ottica e l’acustica moderna, usati come mezzi di creazione artistica, vengono recepiti e possono arricchire solamente gli uomini aperti al tempo presente[20].
Ecco: gli uomini aperti al tempo presente sono all’opposto dei provinciali il cui eloquio si immerge nella genuinità arcaica intesa come l’elemento autentico che pretende di esser colto attraverso un’esperienza originaria che non abbia nulla della mediazione culturale o della riflessione filosofica. Il disgusto per la filosofia che emerge dalle pagine dei Quaderni neri si illude di prendere le distanze da ogni mediazione culturale irretendosi di fatto nel sociale, quanto maggiore è lo zelo con il quale cerca di allontanarsi dalla società e dal suo spirito oggettivo[21]. Il rifiuto del Si impersonale e ontologizzato vorrebbe esprimere la condanna della chiacchiera, ma non della brutalità che si nasconde dietro la caduta dell’autenticità all’interno della chiacchiera stessa: “resta in campagna e vivi onestamente!” diventa il motto che accusa la società urbana di livellarsi sul piano del Si e di coltivare le dinamiche frutto della curiosità[22]. La brutalità emerge nella superbia nei confronti del meramente ontico e nei tratti del sociale conforme al fascismo proprio nella forma arcaica del provincialismo rurale che si bea delle fanfaronate sul sangue e sul suolo nel momento stesso in cui assume l’economia contadina nei rapporti di dominio dell’economia liberale di mercato: tutto questo mentre nel Terzo Reich il capitalismo industriale aveva raggiunto un livello di concentrazione massimo.
Cliché, banalità, incomprensione: ciò si rivela mentre l’adesione all’ideologia völkisch risuona nelle condizioni meteorologiche della Selva Nera: dalle illusioni dell’uomo come dominatore della natura si passa alle illusioni dell’uomo in ascolto della natura selvaggia, con la quale si è appena in accordo e con la cui complicità ci si sottrae ai valori industriali e urbani della modernità, aderendo allo stile della rivoluzione conservatrice. È George Mosse che ce lo ricorda: nella negazione dei valori moderni risiedono le aspirazioni alla vita rurale proprie dell’ideologia del Volk, in tal modo «anziché essere incoraggiato ad affrontare i problemi posti dall’urbanesimo e dall’industrializzazione, l’uomo era allettato a ritirarsi in una nostalgia arcadica. Non nell’ambito della città, ma del paesaggio, nella campagna indigena, l’uomo era destinato a fondersi e a radicarsi nella natura e nel Volk»[23].
Se con la pioggia e il vento giunge il tempo del domandare fondamentale ciò mostra l’identità, propria dell’ideologia völkisch, tra il ritmo naturale e il ritmo dell’anima umana: ma questo, sottolinea Mosse, era già contenuto nelle parole di uno scrittore come Otto Gmelin voce, tra le altre, di quel concetto di radicamento di cui si impossesserà la propaganda del BluBo (Blut und Boden).
Dobbiamo risalire a Wilhelm H. Riehl, autore di Die bürgerliche Gesellschaft (1854) e di Land und Leute (1863) per vedere espresse, nell’ideologia völkisch, le accuse verso la borghesia di corruzione dei legami storici tra natura e Volk, con la conseguente superiorità della campagna e del paesaggio sulla città[24]. L’antimodernismo è servito in salsa locale. La città è causa di tutti i mali storici, comprese le rivoluzioni del 1848, date le sue inquietudini e la mancanza di certezze; l’ambiente rurale, invece, è il modello della struttura sociale da realizzare sulla base di un ristabilimento della disparità delle classi sociali gerarchizzate secondo gli antichi stati sociali medioevali. L’ideale identità di popolo e paesaggio fa regredire le strutture sociali ai livelli di un’ecologia antimoderna e antiborghese in nome di un popolo di genuini i cui rapporti di produzione devono tornare a essere scanditi dal rincorrersi delle stagioni e dall’armonia prestabilita supposta tra le gilde medioevali restaurate per l’occasione.
Contro questo gioca la città, con le sue irrequietezze, la sua instabilità, la sua molteplicità e moltiplicazione, con lo sradicamento e la sua curiosità, il suo passeggio e il frenetico lavorìo. E, ci ricorda Mosse, l’ebreo, inquieto per sua propria natura, appartenente a «un Volk che non occupava un territorio specifico ed era quindi destinato allo sradicamento»[25]. Anche Adorno sottolinea questo elemento importante dello sradicamento proprio della figura di Asvero, l’ebreo errante: «La fortuna della mobilità diviene una maledizione per chi è senza patria.» Il carattere quotidiano del Si coincide con la sua instabilità e inautenticità: in Sein und Zeit «l’intellettuale privo di radici ha il segno giallo di ciò che è distruttivo.»[26]
Torniamo per un momento a Riehl; la città per lui costituiva una minaccia perché dominata dal proletariato alienato e dall’ebreo sradicato: l’origine völkisch dell’ideologia nazionalsocialista in ciò trova un elemento di base. Berlino come feudo degli ebrei e tomba del germanesimo, accanto a una “naturale” avversione per la metropoli, sembrano essere quei fervidi sentimenti che nobilitano le folkloristiche motivazioni del rifiuto di Heidegger a insegnare all’Università metropolitana. Ironizza Mosse, riferendosi ai bombardamenti delle città tedesche: «fu soltanto con la distruzione che le città raggiunsero, sul piano ideologico, l’uguaglianza con i radicati abitanti della campagna»[27].
- Le scarpe della contadina
Quando la contadina calza le scarpe nel campo, solo in esso esse sono quello che sono: quanto meno la contadina pensa alle scarpe, tanto più esse sono ciò che sono. Ma il carattere di mezzo delle scarpe non basta a cogliere la verità delle scarpe come mezzo: un paio di scarpe da contadina non possono essere solo un paio di scarpe da contadina. Esse sono anche l’esser-mezzo del mezzo e la contadina le custodisce nel suo mondo poiché quelle scarpe si immedesimano nella custodia di quel mezzo che appartiene alla terra. E così in quelle scarpe si palesa la fatica del cammino, la pesantezza del lento procedere sui solchi del campo battuti dal vento ostile, l’umidore del terreno che impregna il cuoio sotto le cui suole passa silenzioso il richiamo della terra insieme al silenzioso timore per la sicurezza del pane, nonché il tremore dell’annuncio della nascita e l’angoscia della prossimità della morte. L’uso non basta: la contadina porta semplicemente le sue scarpe, ma ciò riposa nell’essere essenziale del mezzo – la fidatezza (Verlässigkeit)[28]. Con questo termine, che ripropone ancora il gergo dell’autenticità, Heidegger illude di superare la banale abitudine dell’uso a partire dalla fabbricazione delle scarpe fino al suo immediato utilizzo da parte della contadina: materia e forma delle scarpe hanno un’origine ben più lontana, scrive Heidegger, ma non sono le scarpe che ci rivelano tale origine, bensì l’opera d’arte. Le scarpe da contadino disegnate nel quadro di Van Gogh ci mostrano l’origine del mezzo, ossia che cosa le scarpe della contadina sono in verità – la verità dell’ente posta in opera nell’opera d’arte. Per superare la mera utilizzabilità delle scarpe della contadina, che ella calza senza sapere, Heidegger guarda alle scarpe disegnate da Van Gogh e non alle scarpe in quanto tali, sebbene esse custodiscano quella stessa “sacralità naturalistica” che gli ha intimato di non accettare la cattedra all’Università di Berlino.
Ma nell’opera di Van Gogh Heidegger non guarda l’opera d’arte, bensì ciò che essa fa vedere in un astratto aprimento di ciò che si vede – un paio di scarpe da contadino – e che non deve essere visto e basta (così come la contadina che le usa e basta), bensì colto nella sua origine, cioè nella sua essenza che proviene da un’origine. Non sono le scarpe che parlano a Heidegger, ma l’opera che racconta ciò che le scarpe tacciono e custodiscono nel silenzio: quel “di più” che trascende le scarpe, il quadro e l’immagine; in tutto ciò Van Gogh è solo un accidente che fa da tramite tra il mondo rurale dell’ignara contadina e lo sguardo del mago in ascolto del vento ostile della Selva Nera.
[1] La pubblicazione presso l’editore Klostermann dei 34 Schwarze Hefte occuperà lo spazio dei volumi 94-102 della Gesamtausgabe heideggeriana. In traduzione italiana abbiamo al momento solo il volume 94 della GA, 1931-1938 (Frankfurt a.M., 2014), tradotto da Alessandra Iadicicco: Quaderni neri, 1931/1938, Riflessioni II-VI, Bompiani, Milano 2015.
[2] Th. W. Adorno, Il gergo dell’autenticità, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1989.
[3] Ibid., Introduzione, p. LI.
[4] Ibid., p. XXXV.
[5] Considerazioni in merito sono sparse qua e là nei Quaderni neri, cit., per es.: pp. 88, 444, 531-534, 568-571.
[6] Ibid., Postfazione del curatore, pp. 691-693.
[7] Ibid., p. 377; pp. 423-424.
[8] In questo caso non è Adorno che espone al ridicolo il suo avversario, quanto e questi che si espone al ridicolo attraverso il suo atteggiamento di serietà, cosicché il Gergo risulta, a suo modo, una proficua e stimolante occasione di crescita del pensiero filosofico. Cfr. Il gergo dell’autenticità, Introduzione, cit. p. LI.
[9] Mi riferisco al testo Tempo libero, pubblicato in Parole chiave. Modelli critici, tr. it. SugarCo, Milano 1974, in part. p. 81.
[10] Th. W. Adorno, Il gergo dell’autenticità, cit., pp. 8-9.
[11] Ibid., p. 3.
[12] Ibid., pp. 13-14.
[13] Ibid., pp. 38-39.
[14] Le parti indicate come Riflessioni IV, V e VI dei Quaderni neri sono quasi interamente dedicate all’abbandono della filosofia in luogo della meditazione poiché il domandare filosofico manca di quella essenzialità che fonderebbe la nuova storia del pensiero (vedi per es. p. 423 e p. 444).
[15] Th. W. Adorno, Il gergo dell’autenticità, cit., p. 40.
[16] M. Heidegger, Quaderni neri, cit., p. 239.
[17] Th. W. Adorno, Il gergo dell’autenticità, cit., p. 41.
[18] G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, tr. it. Armando, Roma 2005.
[19] La cui soluzione non potrebbe che essere, incalza Adorno, soltanto il regressivo sfruttamento familiare che ha caratterizzato il mondo contadino pre-moderno: una soluzione peggiore del problema, cfr. Il gergo dell’autenticità, cit., p. 41.
[20] L. Moholy-Nagy, Pittura Fotografia Film, ed. it. Einaudi, Torino 2010, p. 41, corsivo mio.
[21] Th. W. Adorno, Il gergo dell’autenticità, cit., p. 70.
[22] Ibid., pp. 75-78.
[23] G.L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, tr. it. Il Saggiatore, Milano 2003, p. 28.
[24] Ibid., p. 32 sgg.
[25] Ibid., p. 37.
[26] Th. W. Adorno, Il gergo dell’autenticità, cit., pp. 78-79.
[27] G.L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, cit., p. 39.
[28] Il riferimento è chiaramente a M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte (1936), in Sentieri interrotti, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1984, pp. 18-20.