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La libertà fragile. Una prospettiva antropologica tra Günther Anders e André Leroi-Gourhan

Autore


Lorenzo De Stefano

Università degli Studi di Napoli Federico II

Dottorando di ricerca in Filosofia all’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice



  1. La tecnica come problema filosofico
  2. Tecnicamente abita l’uomo
  3. La liberazione prefrontale
  4. Die Weltfremdheit des Menschen
  5. Techne, Ethos e Zoè
  6. Esteriorizzazione e destino

 

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S&F_n. 09_2013

Abstract


The problem of technology cannot be separated from the problem of man, his nature and his determination. This essay surveys the nexus man-technology in the philosophical perspective of G. Anders, hybridized with André Leroi-Gourhan’s empiric anthropology. Anders philosophical concepts such as promethean gap and Weltfremdheit are investigated following the line of human evolution, that set itself as a process of gradual exoneration from nature in which technology and language play an essential role.


  1. La tecnica come problema filosofico

Da circa un secolo la questione della tecnica è divenuta un’urgenza fondamentale per il domandare filosofico. Sin dalle sue origini la filosofia si pone come un sapere interrogante intorno all’ente nella sua totalità, il che vuol dire interrogare «dove gli esseri hanno origine e dissoluzione secondo necessità»[1]. In tal senso filosofare è, tra le altre cose, indagare il criterio dell’ente, il suo principio di individuazione per dire ciò che esso è. Alla luce di ciò, perché e in che senso la tecnica si configura come un problema filosofico di cruciale importanza?

Il «mutamento dei colori di tutte le cose»[2] apportato dal nichilismo, con la consequenziale caduta di ogni ideale di essere e verità, non esaurisce e vanifica sin da principio lo sforzo filosofico, semmai lo pone su basi nuove: nell’impossibilità di determinare univocamente e aprioristicamente l’essere della tecnica, occorre tornare alla cosa stessa analizzandola innanzitutto a partire dalla sua manifestatività e genesi.

Ebbene oggi la tecnica ci appare essa stessa come il criterio di tutte le cose, il principio materiale e formale di esse, il luogo in cui hanno la loro nascita e soprattutto la loro dissoluzione. Il mondo in cui oggi viviamo è un mondo interamente tecnicizzato.

Il mondo odierno dedivinizzato è quindi un mondo tecnico; «al punto che non possiamo più dire che, nella nostra situazione storica, esiste tra l’altro anche la tecnica, bensì dobbiamo dire: la storia ora si svolge nella condizione del mondo chiamata “tecnica”; o meglio la tecnica è ormai diventata il soggetto della storia con la quale siamo soltanto “costorici”»[3].

La figura dell’uomo superato dalla propria tecnica, che da diversi anni ha caratterizzato non solo la filosofia, ma anche l’immaginario collettivo, il cinema e la letteratura, è sintomo dell’urgenza di una «antropologia filosofica nell’epoca della tecnocrazia»[4]. Nella sua opera principale Die Antiquiertheit des Menschen [Beck Verlag München 1956, 1980], apparsa in due volumi, il primo nel 1956 e il secondo nel 1980, Günther Anders affronta questo spinoso ma ineludibile problema. Per tecnocrazia non si intende il dominio dei tecnocrati che oggi pare andare tanto di moda (questo semmai è un effetto collaterale), quanto «il fatto che il mondo in cui oggi viviamo e in cui tutto si decide sopra le nostre teste è un mondo tecnico»[5].

In questo orizzonte la tecnica diviene un problema filosofico, anzi il problema filosofico principale per tre ragioni fondamentali.

In primis perché il mondo in cui oggi viviamo è un mondo tecnico, costituito da immagini e fantasmi – lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa ha radicalmente mutato la nostra esperienza del mondo trasfigurando il cosiddetto mondo reale in immagini pre-interpretate e pre-digerite. Il concetto stesso di esperienza subisce qui una radicale modificazione, se l’esperienza è il risultato di un’elaborazione concettuale di dati sensibili, per dirla con Kant, la tecnica è intervenuta modificando proprio le strutture concettuali e i limiti della nostra percezione sensibile e del nostro immaginario. È il problema del “sovraliminale”, ossia la discrepanza tra il nostro immaginare e rappresentare il mondo e il nostro produrre pro-vocandolo. Fenomeni come la distruzione di massa, ma anche semplicemente la distanza rappresentativa posta dai media tra l’evento e la sua immagine percepita, comportano nell’umano un deficit percettivo e immaginativo, un vero e proprio dislivello tra le nostre facoltà, che Anders chiama dislivello prometeico, ossia la differenza tra la nostra capacità di produrre (Herstellen) e la nostra capacità di rappresentare (Vorstellen) il prodotto della nostra azione.

In secondo luogo il mondo in cui oggi viviamo è un mondo di apparati (Apparatenwelt), in cui tecnica e progresso costituiscono gli imperativi categorici. Nell’Apparatenwelt come totalità di technei onta, si realizza il rovesciamento ontologico tra mezzi e fini, soggetto e oggetto; l’uomo si ritrova a essere il mezzo, una materia prima, per l’indefinito perpetrarsi dello sviluppo tecnico-economico, pertanto se il mezzo nella storia dell’ominazione ha costituito appunto il medium tra uomo e mondo, oggi è l’uomo il medium tra il mondo di apparati e il mondo “naturale”. Questo porta la tecnica a divenire il soggetto della storia, al punto che il mondo tecnico è un mondo deideologizzato, in quanto essa è un fenomeno trasversale che eccede e precede la situazione politica; il mondo globale è sempre e sin dall’inizio interamente tecnicizzato.

In terzo luogo, ed è questo l’aspetto principale, l’ideazione e la deflagrazione a Hiroshima della bomba atomica nel ‘45, che Anders individua come la cesura fondamentale della storia umana, realizza la possibilità materiale dell’annichilimento globale come esito del nichilismo. La bomba è l’evento che segna la fine della storia e realizza materialmente la prospettiva dell’annullamento dell’uomo e di tutto l’essente da parte delle macchine e quindi della tecnica stessa. La tecnica diviene la ratio essendi dell’Apocalisse, l’immanentizzazione di una tensione escatologica la cui ineludibilità è fondata nel suo carattere specifico. A tal proposito Anders parla di “ineluttabilità della tecnica” per indicare la logica coattiva del progresso tecnico-scientifico. Scrive Anders:

Il possibile è quasi sempre accettato come obbligatorio, ciò che si può fare come ciò che si deve fare. Gli imperativi morali odierni vengono dalla tecnica a fanno sembrare ridicoli i postulati morali dei nostri antenati, non solo quelli dell’etica individuale ma anche quelli dell’etica sociale. […] Non solo ciò che si può fare si deve fare, ma anche ciò che si deve fare è ineluttabile[6].

 

In poche parole tutto ciò che può essere realizzato tecnicamente deve essere realizzato, è questo l’imperativo categorico dell’epoca della tecnica. Inoltre ogni utilizzazione potenziale del prodotto deve esser messa in atto, poiché la tecnica ‘vuole’ che lo sia; non esistono tecnologie empiricamente realizzabili che non siano state effettivamente impiegate[7]. La realizzazione dell’atomica è già di per sé l’inveramento materiale dell’Apocalisse, è una scadenza: la finis historiae. La scoperta dell’energia nucleare non è semplicemente una novità fisica, ma un evento di portata metafisica a partire da cui il nostro in-der-Welt-sein si dà come un esserci-ancora-appena. L’epoca della tecnica è quindi un tempo ultimo e irreversibile costituente una soglia storica che caratterizzerà le epoche a venire, apportando radicali modificazioni al paradigma antropologico caratterizzantesi come dislivello tra l’uomo e tecnica.

Eppure nonostante la sua portata metafisica, se pensata nella sua origine, possiamo sostenere con Heidegger, e in qualche modo oltre Heidegger, che «l’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico»[8]. Discostandoci con Anders dall’interpretazione heideggeriana, che inquadra la tecnica nella problematica ontologica dell’alethes come un modo del disvelamento dell’essere, la determinazione dello Ursprung di questo fenomeno deve passare, a nostro avviso, per la riproposizione del quesito antropologico del chi e del come dell’anthropos e della sua genesi, nella convinzione che la posizione del problema della tecnica sia indissolubilmente legata alla Bestimmung dell’uomo, che è a un tempo determinazione e destinazione. Pertanto un’antropologia filosofica che voglia realmente liberarsi da ogni fardello metafisico, non può sottrarsi al dialogo con l’antropologia empirica e interrogare l’uomo a partire dalla sua effettiva storia evolutiva, che appare sin da subito caratterizzata da alcune costanti: la libertà, la tecnica e il linguaggio. Su questo terreno tenteremo di instaurare un dialogo tra l’antropologia andersiana e le teorie dell’antropologo francese André Leroi-Gourhan, prospettando una chiara affinità tanto negli esiti quanto nei presupposti della loro speculazione.

 

  1. Tecnicamente abita l’uomo

Per entrambi infatti il tecnicismo, assieme al linguaggio, si configura come la prestazione fondamentale di quel particolare animale scarsamente equipaggiato e privo di vincoli ambientali che è l’homo. Al di là di ogni frattura tra l’essere naturale e culturale, «l’artificialità è la natura dell’uomo, […] che deve fabbricarsi da sé il mondo che placa i suoi bisogni» come scrive Anders in un breve testo del 1942[9].

Anche per Leroi-Gourhan l’utensile nella sua prima apparizione australantropiana «appare come una vera e propria conseguenza anatomica, unica via d’uscita per un essere diventato del tutto inerme quanto alla mano e alla dentatura, e il cui encefalo è organizzato per operazioni manuali di tipo complesso»[10]. Il ritrovamento di una pebble culture accanto ai fossili di alcuni dei nostri più antichi antenati lo Zinjantropo e l’Homo Habilis, risalenti a circa 3 milioni di anni fa, è la prova empirica a partire da cui Leroi-Gourhan costruisce la sua argomentazione.

La tecnica, lungi dall’essere in prima battuta un qualcosa di metafisico, è quindi diretta conseguenza di un particolare processo evolutivo di graduale liberazione e distanziazione dai vincoli ambientali che interessa il costituirsi della stazione eretta, l’affrancarsi della mano rispetto alla locomozione e del cervello rispetto alla maschera facciale.

Se tale prospettiva è del tutto inerente all’impostazione dell’antropologia evoluzionista di Leroi-Gourhan, sorprende ritrovarla esplicitamente anche in Anders:

Certo, l’antropologia ha considerato tutto questo come differenza specifica dell’essere umano; ma la stazione eretta è appunto molto di più: qualcosa di così fondamentale che da essa può semplicemente essere colto l’umano nella sua interezza. […] È la spiegazione di tutto. Innanzitutto è affrancamento dal suolo. Quindi affrancamento di un organo (dell’arto anteriore) da una funzione specifica; ma non affrancamento per una nuova funzione specifica (che corrisponda alla trasformazione della funzione-pinna nella funzione piede) bensì l’affrancamento per tutto il possibile; per il tutto e per il possibile. La mano è ora sospesa “in libertà”, libera per la manipolazione del mondo; ossia libera per la com-prensione degli oggetti; dunque: libera per la presa […] libera di fabbricare; dunque: libera per l’idea. Perché cos’altro è l’idea se non l’immagine ideale di ciò che si fabbrica? – Quindi: in un sol colpo d’occhio la stazione eretta si propone come essere-homo faber e come spirito[11].

 

Il nesso tra fabbricazione, affrancamento della mano, sviluppo cerebrale, coscienza simbolica e stazione eretta è strettissimo e riconducibile, a nostro avviso, a un minimo comune denominatore che, per usare una categoria gehleniana, guida l’evoluzione umana nel suo “esonerarsi” graduale rispetto al proprio contesto zoologico: la libertà, intesa non come “idea trascendentale” e in senso morale, bensì come fattore inerente in primis all’evoluzione biologica. La tecnica appare innanzitutto come una possibilità fisica, esito di milioni di anni di evoluzione che vede nella libertà di locomozione il suo fatto determinante, per poi svilupparsi nel corso di circa tre milioni di anni come fenomeno socio-culturale dotato di una sua propria autonomia evolutiva. Leroi-Gourhan scandisce tale processo in cinque tappe fondamentali: l’organizzazione meccanica della colonna vertebrale e degli arti, la sospensione cranica con la conseguente spazializzazione della vista dovuta all’esonero della mascella e del collo dalla funzione prensile, il mutamento della dentatura, l’integrazione dell’arto anteriore nel campo tecnico culminante nella mano, e solo in ultima battuta lo sviluppo cerebrale. Si può dire quindi che l’umano inizi dai piedi; non c’è alcun rapporto di priorità tra l’evoluzione del cervello e del dispositivo che esso controlla, anzi è l’evoluzione cerebrale, culminante nell’Homo sapiens con l’apertura del ventaglio corticale e con l’abolizione dello sbarramento prefrontale, che struttura il contatto cosciente dell’uomo con il mondo, a essere l’ultimo e più tardivo risultato del processo evolutivo[12].

Da questo punto di vista è assai rilevante stigmatizzare come, tanto per Anders quanto per Leroi-Gourhan, la comparsa dell’artificialità non sia legata alla nascita della coscienza, ma sia un fenomeno primario. La comparsa di un pensiero simbolico, della coscienza e dell’intelligenza riflessiva è di gran lunga successiva alla capacità tecnica, la quale scaturisce innanzitutto da un processo di liberazione meccanica piuttosto che cerebrale. «Tra cervello e struttura i rapporti sono quelli intercorrenti tra contenuto e contenente»[13]. È quindi a partire dall’acquisizione di un tipo meccanico determinato che si assiste all’invasione progressiva del cervello e non viceversa, ragion per cui l’adattamento fisico non è guidato in prima battuta dallo sviluppo cerebrale, sebbene quest’ultimo abbia sicuramente un ruolo nella selezione naturale dei tipi e, nell’uomo, animale dotato di una artificialità specifica, nell’edificazione di un mondo proprio. Tuttavia il nesso tra specializzazione corporea e incremento cerebrale non è sempre biunivoco, anzi la paleontologia ci conferma che proprio i gruppi meno specializzati hanno dato vita alle forme cerebralmente più evolute:

Le specie la cui struttura corporea corrisponde alla maggiore liberazione della mano sono anche quelle il cui cranio è in grado di contenere il cervello più grande dato che la liberazione della mano e riduzione degli sforzi della volta cranica sono i termini della stessa evoluzione meccanica[14].

 

La tecnica, intesa come capacità di manipolazione dovuta alla liberazione dell’arto anteriore, è in questo senso sin dall’inizio un dispositivo volto a colmare una mancata specializzazione fisica, a cui fa da contraltare uno sviluppo cerebrale del tutto peculiare. Il cervello di un animale finalmente capace di forgiare utensili è l’esito di un graduale esonero del cranio dagli sforzi meccanici, già compiuto nelle sue condizioni più elementari nei primi australantropi[15]. Appare evidente che, come nel caso dello sviluppo della mano, anche lo sviluppo cerebrale sottostà a un processo di liberazione meccanica; il cervello umano scaturisce da una liberazione posturale interessante direttamente la base di sostegno del cranio con il conseguente regresso dei denti ed espansione cerebrale, piuttosto che da una sua intima forza di espansione. Dai piedi fino alla base del collo gli australantropi non presentano particolari differenze con gli uomini odierni, l’architettura posturale è già direttamente umana, mentre il cervello, che non può essere paragonato al cervello di una scimmia, è ancora corrispondente alla primitività della sua faccia. La struttura cerebrale degli ominidi è già quella di un mammifero dotato di tecnicismo che, seppur grossolano, non è assimilabile a quello dei primati.

L’analisi di questa struttura cerebrale vede un rapporto tra azione della mano e degli organi anteriori della faccia tale da far supporre una coordinazione strettissima tra mano e linguaggio, esprimentesi nel gesto che accompagna la parola e nell’Homo sapiens nella scrittura. Le zone motorie adiacenti preposte a tali funzioni, individuabili nella corteccia nel punto di convergenza tra regione frontale parietale e temporale, stando alle analisi di Leroi-Gourhan, sono l’esito dell’apertura del ventaglio corticale[16] e sono strettamente dipendenti.

L’espansione prefrontale permane molto incompleta fino all’Homo sapiens, ma si può benissimo supporre la presenza di aree di associazione verbale e gestuale a partire dall’australantropo[17].

 

Dalla presenza di un tecnicismo presso lo Zinjantropo, si deduce che anche questi primi australantropi fossero dotati di un linguaggio, o quanto meno di un registro espressivo connaturato al loro sviluppo cerebrale e direttamente proporzionale allo sviluppo tecnico. Si può dire, ricapitolando, che tecnica e linguaggio caratterizzano sin da subito il fenomeno umano e sono la base del suo successo evolutivo originato dalla conquista della stazione eretta e culminante nel sapiens nell’abolizione, che è un’ulteriore liberazione, dello sbarramento prefrontale.

 

  1. La liberazione prefrontale

Linguaggio e tecnica sono dunque le due prestazioni fondamentali dell’essere umano, risultato di una liberazione fisico-meccanica e cerebrale, fondanti la libertà nel commercio con il mondo. Essi pongono il problema di un carattere specifico preso da un campo diverso da quello della biologia anatomica, pur essendo in via di principio una conseguenza di essa.

«La comparsa dell’utensile [scilicet: e contemporaneamente del linguaggio] tra i caratteri specifici segna appunto la particolare frontiera dell’umanità, con una lunga transizione nel corso della quale la sociologia prende il posto della zoologia»[18]. La tecnica si distingue sin da subito come il principale elemento di ominazione, coerente, in via di principio, con l’organismo dell’essere che andava a completare. Eppure appare evidente che la tecnica degli ominidi precedenti all’Homo sapiens è di un’intensità differente rispetto a quella odierna che nel giro di appena 30.000 anni, un arco temporale da un punto di vista evolutivo brevissimo, ha portato alla costruzione dell’atomica e a imporsi come il rischio dall’annichilimento totale di tutto l’essente prospettata da Anders.

Presso australantropi e arcantropi le tecniche seguono il ritmo dell’evoluzione biologica, ma dal momento in cui emergono nuove possibilità cerebrali, esse subiscono un fortissimo incremento ascensionale, fino a costituire a tutti gli effetti il prolungamento dello sviluppo generale della specie; il tecnicismo diviene sempre più un carattere dominante dell’evoluzione che perde gradualmente ogni connotazione zoologica e diviene un fenomeno sociale. Ancora una volta la genesi di questo sviluppo è leggibile come un processo di liberazione interessante la liberazione meccanica della fronte attraverso la progressiva riduzione delle radici dei denti con la relativa invasione di queste zone da parte del cervello. Il cervello anteriore si inserisce tra la corteccia della motilità tecnica e quella dello scatenamento delle emozioni, e «solo quando essa assume una importanza preponderante, si può far intervenire il concetto di intelligenza e di riflessione nel senso completamente umano del termine»[19]. L’avvento della liberazione della corteccia prefrontale e la comparsa di un’intelligenza regolatrice e riflettente è da collocarsi intorno ai 30.000 anni fa. Gli studi antropologici di Leroi-Gourhan ci dimostrano come proprio intorno a questo periodo si dia un incremento mai visto delle tecniche, in cui è possibile rintracciare oltre a uno straordinario accrescimento della varietà e della perizia degli artefatti, anche una specificità degli stereotipi inerente ai gruppi etnici, il che vuol dire che la tecnica diviene un fenomeno culturale e sociale e muta in funzione dei gruppi di appartenenza. Ma non solo, è da datarsi attorno allo stesso periodo il ritrovamento del primo strumento musicale, un flauto d’avorio, e la nascita di grafismo strutturato in mitogrammi (i graffiti), tali da lasciar presupporre un rapporto simbolico-immaginativo con il mondo nella rappresentazione astratta della realtà[20].

Ed è qui che «la tecnica nell’Homo sapiens non è più collegata al processo cellulare, ma sembra invece esteriorizzarsi completamente e in un certo senso vivere di vita propria»[21]. L’evoluzione tecnica si emancipa quindi dall’evoluzione umana, per guidare, lo sviluppo sociale e culturale umano. La tecnica si autonomizza contemporaneamente allo sviluppo di un’intelligenza riflettente.

A ben vedere, se si assume questa prospettiva, nel momento stesso in cui la tecnica si autonomizza, esteriorizzandosi rispetto alla zoè, sono rintracciabili i presupposti del dislivello prometeico e del rovesciamento tra soggetto e oggetto della storia, tra mezzi e fini di cui Anders ci parla ne L’uomo è antiquato. Il dislivello prometeico sotto questa luce assume un carattere destinale, in quanto non è una conseguenza della seconda e terza rivoluzione industriale, bensì una possibilità del tutto immanente al processo evolutivo umano. L’artificialità che si contraddistingue in prima battuta come il dispositivo di un essere che, non avendo una natura specifica, deve costantemente edificare il proprio bios, ha già in sé la potenzialità di un rovesciamento dialettico in cui l’uomo con la sua zoè diviene mezzo e materia prima di questo dispositivo stesso.

Il passaggio dall’evoluzione scandita biologicamente a un’evoluzione culturale dominata dai fenomeni sociali è correlato all’artificialità dell’uomo, o meglio a una seconda e più complessa artificialità che corrisponde all’edificazione di un mondo culturale e di un orizzonte valoriale. Su questo punto la riflessione di Leroi-Gourhan incontra di nuovo la filosofia andersiana; nel già citato saggio del 1942, Anders sostiene proprio che, data l’artificialità come natura specifica, «l’uomo deve fabbricarsi da sé il mondo che placa i suoi bisogni» e che «la fabbricazione di questo mondo e di questa società, cioè questa coltivazione (Kulturvierung) non è uno specifico ambito di oggetti di cultura, bensì ha come oggetto l’intero mondo e l’intera società dell’uomo»[22].

La comparsa di un dispositivo sociale basato su valori culturali, con il conseguente passaggio dall’evoluzione zoologica all’evoluzione etnica, ripropone il tema della libertà, questa volta non più come un processo di emancipazione meccanica, ma di una vera e propria emancipazione spirituale dell’uomo dal mondo. L’uomo è l’unico animale il cui bios trascende costantemente il limite imposto dalla sua zoè e nel farlo egli si costruisce un mondo artificiale, che arriva ad assumere i crismi di una seconda natura, con tutti i vincoli annessi, nella misura in cui l’uomo finisce per essere nell’epoca della tecnica il prodotto dei suoi stessi prodotti.

 

  1. Die Weltfremdheit des Menschen

Con lo sviluppo di un’intelligenza simbolico-riflettente, l’uomo completa da un punto di vista intellettivo e spirituale il distacco dai vincoli ambientali già palesato nella sua costituzione fisica.

Con l’avvento del sapiens il processo di artificializzazione del bios raggiunge il suo acme contemporaneamente alla strutturazione di un linguaggio complesso e di una certa capacità di rapporto alla trascendenza del tutto simile qualitativamente a quella contemporanea[23]. Appare quindi evidente che tra libertà, tecnica, linguaggio e arte ci sia un nesso strettissimo proprio a partire dal raggiungimento di un certo tipo di esperienza immaginativa del mondo. Tale esperienza presuppone un rapporto mediato con il reale, una certa distanza, un’estraneità (Fremdheit) dal mondo. In una conferenza tenuta presso la Kantgesellschaft di Francoforte dal titolo Die Weltfremdheit des Menschen e poi pubblicata in Francia con il titolo Une interpretation de l’aposteriori [in “Recherches philosophiques IV”, Bovin & Cie, Paris 1934-35][24], la riflessione antropologica di Anders, si dimostra ancora una volta molto vicina a queste posizioni. L’uomo, infatti, a differenza dell’animale che ha già un mondo a priori adeguato al proprio bisogno, non ha una Umwelt specifica, ma intrattiene un rapporto di aposteriorità con il mondo. L’uomo raggiunge il mondo solo post festum e deve intrattenere con esso un rapporto di intenzionalità volto al disallontanamento degli oggetti. Tale rapporto è possibile proprio perché il “coefficiente di integrazione”[25] umano è praticamente nullo. La libertà intesa a partire dalla Weltfremdheit, è per Anders la situazione antropologica fondamentale. L’uomo è quindi ontologicamente libero a priori, la sua natura è quella di non averne alcuna e la sua esperienza sempre a posteriori. Da questo punto di vista l’essenza dell’uomo è proprio il suo non avere nessuna essenza determinata, egli è il risultato del suo incessante autoporsi poietico[26], volto a una graduale esteriorizzazione delle sue facoltà. L’uomo vive sempre in-a-distanza in un mondo risultante da un movimento di liberazione che parte dalla stazione eretta e dalla strutturazione del campo visuale, fino ad arrivare al rapporto simbolico immaginativo con l’ente nella sua totalità e alla manipolazione tecnica di quest’ultimo.

Teoria e prassi sono gli esisti di un movimento omogeneo, al punto da poter sostenere con Anders che siano «i rami stessi dell’albero della libertà»[27].

Prassi, teoria e linguaggio sono per Anders, così come per Leroi-Gourhan, possibilità eminenti dell’essere umano, volte all’edificazione del proprio bios artificiale inteso sia materialmente (città, abitazioni, utensili, apparati, etc.), sia spiritualmente (valori, sistemi giuridici, forme politiche, sistemi etici e filosofici).

Si può dire, riassumendo la posizione andersiana, che tecnica, teoria e linguaggio siano i dispositivi tipicamente umani volti a colmare lo iato che separa l’uomo dal mondo attraverso la posizione di un surrogato, un bios artificiale. Ma allora come si arriva alla paradossale condizione odierna di un uomo, che come un Prometeo decaduto, si ritrova tutto a un tratto schiavo della sua tecnica? Come si spiega da questa prospettiva ontologica integrata antropologicamente l’inversione tra soggetto e oggetto della storia di cui ci parla Anders?

Il paradosso dialettico della tecnica è tutto qui: dapprima essa è l’unica possibilità di esistenza per un animale ontologicamente libero, ma biologicamente insufficiente, in seguito, visto lo sviluppo delle tecniche in via di principio autonomo rispetto alla zoè, il mondo artificiale finisce con l’imporsi come a priori materiale di un essere che da un punto di vista biologico, se raffrontato all’animale è libero e a posteriori. Si può dire che l’uomo paghi il fio della sua libertà nell’assoggettamento al mondo dei suoi artefatti, per cui se rispetto all’animale può ritenersi libero, rispetto al mondo dei suoi artefatti (Apparatenwelt) finisce per esser schiavo.

 

  1. Techne, Ethos e Zoè

Da queste considerazioni si evince che il problema della tecnica, come avevamo preannunciato, si origina proprio a partire dalla nascita di un particolare tipo di intelligenza simbolica, esito di un processo di liberazione meccanica e tuttavia causa della libertà spirituale, che permette all’uomo di esteriorizzare il proprio rapporto con il mondo.

Secondo Leroi-Gourhan, tale intelligenza si differenzia rispetto all’istinto per la capacità di scegliere tra concatenazioni operazionali non predeterminate geneticamente. La memoria negli organismi cerebralmente più complessi custodisce le concatenazioni acquisite empiricamente. L’intelligenza umana è contraddistinta da un lato da una maggiore capacità memorizzante, dall’altro da una maggiore capacità di scelta. Nonostante nell’uomo gran parte delle pratiche operazionali vengano eseguite in uno stato coscienziale semi crepuscolare, in quelle più complesse interviene una coscienza lucida strettamente legata al linguaggio e al simbolo[28]. «La libertà di comportamento è realizzabile, in effetti, solo a livello di simboli, non a livello di atti, e la rappresentazione simbolica degli atti è indissociabile dal loro confronto»[29].

La libertà è tale solo a partire da una traduzione nell’intelligenza delle operazioni in concatenazioni simboliche, o per dirla con Anders nell’elaborazione e disallontanamento del mondo nel logos e nell’immaginazione. L’immaginazione come capacità simbolica è quindi la facoltà della libertà, e il linguaggio è lo strumento di liberazione rispetto al vissuto. Parallelamente, la tecnica ci era apparsa come lo strumento della liberazione dai vincoli genetici della zoè.

Il comportamento tecnico dell’uomo si manifesta, stando alle analisi di Leroi-Gourhan, a tre livelli: specifico, socioetnico e individuale.

A livello specifico l’intelligenza tecnica è legata al livello evolutivo del sistema nervoso e all’attitudine individuale su base genetica, è quindi un fatto primariamente zoologico.

Al livello socioetnico l’intelligenza umana si comporta in un modo unico in natura, poiché crea un organismo collettivo al di fuori di ogni legame specifico, dalle capacità evolutive proprie. Da questo punto di vista, l’uomo è animale politico in quanto è animale tecnico. Il mondo socio-culturale, ovvero il bios artificiale, in cui sono ascrivibili le istituzioni politiche, culti religiosi, l’insieme dei saperi scientifici, il diritto, la cosiddetta Kulturvierung andersiana come sistema di valori, allo stesso modo delle tecniche comunemente intese, è a tutti gli effetti un’emanazione dell’intelligenza tecnica[30]. A questo livello la necessità sociale si sostituisce alla necessità zoologica. Si può dire in effetti, che nel mondo artificiale l’uomo esteriorizzi il rapporto con il mondo, che invece nell’animale è quasi completamente interiorizzato, mondo che qui arriva ad assumere tutti i crismi di una seconda natura vincolante. Qui sono ravvisabili le premesse per cui l’uomo diviene, o forse è sempre stato, schiavo dei suoi stessi prodotti che si configurano come un vero e proprio mondo socio-culturale di apparati, intesi sia in senso proprio come macchine, sia come corpo di tradizioni proprie un’etnia che nascondono sempre un apparato valoriale utile alla vita, non meno artificiale di qualsiasi altro artefatto[31]. La Megamacchina latouchiana e l’Apparatenwelt andersiano sono gli sviluppi parossistici di tale dimensione, dovuti all’estendersi su scala globale delle relazioni e al confluire di sviluppo scientifico, tecnica e sistema capitalistico; ma dal punto di vista genealogico vedono le loro premesse decine di migliaia di anni prima delle rivoluzioni industriali, forse nel momento stesso in cui l’uomo passa dal nomadismo alla sedentarizzazione e all’edificazione artificiale della propria Umwelt.

Tuttavia l’intelligenza tecnica si estrinseca anche a livello individuale come capacità di confrontare situazioni tradotte in simboli. La trasposizione simbolica del mondo nel linguaggio e nella scrittura permette all’individuo di liberarsi a un tempo dai legami genetici e socioetnici:

Questa emancipazione è alla base delle due situazioni complementari tra le quali si stabilisce la realtà umana vivente: quella in cui il confronto delle concatenazioni operazionali conduce al dominio sul mondo organico e quella in cui l’emancipazione si attua in rapporto al mondo organico mediante la creazione di situazioni intuitive in cui consiste la spiritualità[32].

 

L’immaginazione si configura come quella capacità eversiva rispetto alla dimensione genetica e socioetnica; essa è il massimo fattore di esonero rispetto alla natura e alla seconda natura artificiale. È la facoltà che proprio in virtù della simbolizzazione riesce a pre-vedere e direzionare gli esiti della tecnica nel dominio del mondo organico. Per questo la tecnica oltre che comportare un’evoluzione degli utensili e dei sistemi sociali, è anche evoluzione dei mezzi di espressione in cui si obiettiva la capacità immaginativa umana. La capacità di rappresentare la realtà e gli esiti della propria attività si impone quindi come quel medium tra la zoè e la tecnica, tra la natura biologica dell’uomo e la natura artificiale, direzionando lo sviluppo umano. Possiamo dire che l’immaginazione sia la dimensione più propria e ultima dell’abitare umano, abitare che è sempre un porsi al confine tra la zoè e la dimensione tecnica e socio-etnica. L’armonizzazione di queste due dimensioni costituisce il compito fondamentale dell’etica come quell’arte dell’abitare, che è a un tempo l’edificare, il posto da vivere (ethos) per quell’animale naturalmente povero di mondo.

L’inadeguatezza della dimensione immaginativa si concretizza nell’impossibilità di direzionare lo sviluppo tecnico, che si traduce in una sproporzione tra la nostra capacità di fabbricare e di rappresentare l’esito della nostra attività, appunto il dislivello prometeico andersiano. Quest’opposizione tra il lato etico-immaginativo e la tecnica è la ragione della condizione dell’uomo superato dalle proprie tecniche[33]. L’impoverimento della dimensione immaginativa è quindi la cifra dell’asservimento dell’uomo. A tal proposito Leroi-Gourhan è esplicito almeno quanto Anders:

Ma l’immaginazione è la capacità fondamentale dell’intelligenza e una società in cui si indebolisce la capacità di forgiare simboli perderebbe allo stesso tempo la sua capacità di agire. Ne risulta nel mondo attuale, un certo squilibrio individuale o, più esattamente, la tendenza verso lo stesso fenomeno che distingue l’artigianato: la perdita dell’esercizio dell’immaginazione nelle concatenazioni operazionali vitali[34].

 

L’avvento del linguaggio audiovisivo dei mass media, con la conseguente traduzione e pre-interpretazione del mondo in fantasmi, assieme al frazionamento dell’attività artigianale nella catena di montaggio è quindi da leggere in entrambi i pensatori come un movimento unico di indebolimento della capacità immaginativa che porta al dominio incontrastato della tecnica sull’uomo. La nostra “cecità all’Apocalisse”, come esito di una tecnica che ha ormai liquidato l’intero mondo e l’uomo stesso a mero Bestand e materia prima, è dovuta a una sproporzione del tutto immanente alla dimensione antropologica che costituisce il nostro destino. La tecnica come rischio della nullificazione e consunzione globale si impone quindi come il compito più urgente per il pensiero, che nella sua dimensione etico-simbolica si configura come unica via d’uscita dal dislivello.

«Se le cose stanno così – scrive Anders – se non vogliamo che tutto vada perduto, il compito morale determinante del giorno d’oggi consiste nello sviluppo della fantasia morale, cioè nel tentativo di vincere il “dislivello”, di adeguare la capacità e l’elasticità della nostra immaginazione e del nostro sentire alle dimensioni dei nostri prodotti e alla imprevedibile dismisura di ciò che possiamo perpetrare; del portare allo stesso livello di noi produttori le nostre facoltà immaginative e sensitive»[35].

Se l’uomo, come si è dimostrato, non è un essere fisso, privo com’è di una natura vincolante, allora la possibilità di estendere la propria immaginazione morale deve essere contemplata. L’incremento della nostra dimensione etica e simbolica, tuttavia sempre in ritardo rispetto a tecnica e zoè, deve accompagnare il nostro prender possesso del mondo naturale prima che «sia svuotato l’ultimo pozzo di petrolio per cuocere l’ultima manciata d’erba da consumare assieme all’ultimo topo»[36].

L’indefinito perpetrarsi ateleologico dello sviluppo tecnico-economico può essere contrastato solo da un potenziamento dell’immaginazione, che in quanto facoltà dei fini ponga la questione del nostro operare nella prospettiva di una nuova antropizzazione. È nella prospettiva di una cultura superiore, di una Bildung plasmante nella dimensione spirituale il nostro ethos, che si gioca la “conservazione ontologica” dell’umanità e dell’esistente nella sua totalità.

La prospettiva di una Endzeit che è al contempo Zeitende come esito dell’epoca della tecnica può essere la possibilità della fine di tutte le cose o di un nuovo inizio. L’umanità può autodistruggersi o dare vita a un tipo superiore, in quanto, per dirla con Hölderlin, “là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva”.

Ma se l’esito della libertà, fragile elemento che guida tutto lo sviluppo umano, è l’immaginazione intesa sia come finzione che come liberazione dalla sfera mondana e socio-etnica mediante i simboli, è lecito porre la questione del suo effettivo potere eversivo. Se il mondo di un australantropo che forgia l’utensile è già immaginario ed in via di principio esteriorizzato come quello dell’uomo medio odierno che non ha altra esperienza al di fuori dei fantasmi televisivi, se ogni conoscenza delle cose è sempre mediata, trasfigurata ed esteriorizzata nel linguaggio, se il mondo in cui l’homo è immerso è sin dall’inizio immaginario, se quindi il mondo tecnico attuale è l’esito di questo mondo che è venuto creandosi soprattutto dopo la nascita della scrittura, l’immaginazione rivestirebbe contemporaneamente il ruolo di parte del problema e di soluzione.

Se l’esito della libertà umana, in cui l’immaginazione è sin dall’inizio coinvolta nel gesto e nella parola, è l’asservimento a quella capacità, la tecnica, che è la sua tattica peculiare, nulla lascia intravedere uno spiraglio di salvezza. La brutalizzazione e il regresso socioculturale dell’epoca della tecnica, segnato da un’involuzione del nostro registro espressivo, testimonia un inequivocabile divario tra le due dimensioni, la tecnica e il linguaggio, che almeno in via di principio procedevano di pari passo. Oggi si assiste a un costante e dilagante aumento della frattura delle nostre facoltà tale da non far intravedere nessuna via d’uscita alla regressione generale del nostro registro espressivo, del nostro sistema morale, del nostro ambiente sociale e delle nostre manifestazioni artistiche (o almeno del ruolo di esse nel movimento di antropizzazione generale, nella misura in cui non siano asservite a nessun paradigma di natura tecno-economica). Data l’impossibilità di registrare un’evoluzione progressiva della nostra capacità immaginativa a differenza delle tecniche, e dato il rovesciamento dialettico della libertà nell’assoggettamento al mondo delle macchine, forse dovremmo ammettere di non esser mai stati così vicini all’orlo del baratro.

 

  1. Esteriorizzazione e destino

Eppure il fenomeno del dislivello, appare tutto sommato una conseguenza coerente dello sviluppo umano, un destino frutto di una libertà originaria.

Secondo Leroi-Gourhan, il livello simbolico-immaginativo, in quanto afferente all’intelligenza tecnica è espressione dell’attività esteriorizzante propria dell’umano.

L’esteriorizzazione è, come si è detto, la prestazione biologica fondamentale dell’uomo.

Tanto al livello biologico, che socioetnico e individuale l’intelligenza tecnica, frutto di liberazioni graduali, non è altro che l’esteriorizzazione dei processi che nella sfera animale sono interiorizzati nella zoè. Per poter essere, l’uomo deve esteriorizzarsi, o meglio deve e può costantemente esteriorizzare il proprio gesto.

Il livello di esteriorizzazione è direttamente proporzionale all’aumento del dislivello tra la zoè e il mondo artificiale frutto di questo processo. Come scrive Leroi-Gourhan infatti «se non è possibile mantenere il parallelo con il mondo zoologico, non è possibile non tener presente che la specie umana si modifica un po’ ogni volte che cambiano gli utensili e le istituzioni»[37]. La storia delle tecniche e dei sistemi sociali è quindi sempre storia di mutamenti antropologici. Da un certo punto in poi della nostra evoluzione la tecnica diviene il traino dell’evoluzione umana e ciò vuol dire in un certo senso, che l’aposteriorità dell’uomo rispetto al mondo andersiana è anche aposteriorità rispetto alle sue tecniche. L’antiquatezza andersiana è leggibile in quest’ottica come risvolto potenziale inscritto sin dall’inizio nell’evoluzione dell’uomo.

A tal proposito l’antropologo francese è quantomai esplicito:

La realizzazione nel corso dei tempi di un organismo sociale in cui l’individuo interpreta sempre più la parte di cellula specializzata fa risaltare infatti via via con maggiore chiarezza l’insufficienza dell’uomo in carne ed ossa, vero e proprio fossile vivente, immobile su scala storica, perfettamente adeguato al tempo in cui trionfava sul mammut, ma già superato nell’epoca in cui i suoi muscoli spingevano le triremi. La continua ricerca di mezzi più potenti e più precisi avrebbe inevitabilmente portato al paradosso biologico del robot che, attraverso gli automi, ossessiona da secoli lo spirito umano[38].

 

Si potrebbe leggere la storia della tecnica, quindi dei sistemi sociali e dell’umano stesso come un graduale affrancamento del gesto motore della manualità diretta e indiretta tendente all’esteriorizzazione illimitata della forza motrice.

Tale fenomeno è un’acquisizione piuttosto tarda e limitata ad alcune civiltà dell’Eurasia in cui per la prima volta comparvero le prime macchine a trazione animale (carro e aratro), mosse da acqua (imbarcazioni) e vento (mulino). Tale processo è una vera e propria esteriorizzazione della potenza dell’organismo in un corpo esterno che si sostituisce al corpo fisiologico in cui la manualità interviene solo per dare origine o per sospendere il processo. Ma la vera innovazione si ebbe nel XIX secolo con l’invenzione della macchina a vapore, macchina che consacrò definitivamente l’esteriorizzazione del muscolo pur in un sistema cieco dal punto di vista regolativo richiedente ancora l’intervento umano: «di fronte ad essa l’operaio è il cervello che rende utile la forza»[39].

Infine, la macchina automatica, conquista delle nuove frontiere dell’elettronica, della cibernetica e dell’informatica, capace di autoregolamentarsi grazie all’ausilio di un sistema nervoso artificiale più o meno complesso, inaugura una frontiera della tecnica in cui l’esteriorizzazione dell’umano e di tutti i suoi tratti specifici è quasi completamente ultimata.

L’automazione meccanica corrisponde alla penultima tappa di quel processo evolutivo avviato dall’Australantropo e dalla sua pebble culture.

La liberazione delle zone della corteccia cerebrale motrice, acquisita definitivamente con la stazione verticale, è completa a partire dal momento in cui l’uomo esteriorizza il suo cervello motore. Al di là di questo si può solo immaginare l’esteriorizzazione del pensiero intellettuale, la costruzione di macchine in grado non solo di giudicare (questa tappa è già raggiunta) ma di intendere il loro giudizio di affettività, di prendere partito, entusiasmarsi o disperare di fronte  all’immensità del loro compito. Dopo aver dato a questi apparecchi la possibilità di riprodursi in modo meccanico, non resterebbe allora all’homo sapiens che ritirarsi definitivamente nella penombra paleontologica[40].

 

Il livello massimo di esteriorizzazione e di esonero coincide con la definitiva uscita dell’umano dalla soglia storica, ed è qui che le filosofie di Anders e Leroi-Gourhan trovano il loro snodo comune. La tecnica diviene soggetto della storia in senso andersiano proprio in quanto esito destinale dello specifico processo evolutivo dell’Homo sapiens, in cui il culmine della libertà raggiunto nell’immaginazione è allo stesso tempo l’abdicazione del soglio storico in favore dei prodotti della sua esteriorizzazione. È come se con l’avvento dei primi Antropiani il vertice della piramide evolutiva animale diviene la base di un’altra piramide rovesciata in continua espansione, costituita da tutto l’apparato esteriorizzato in tecnica e cultura. Questa sovrastruttura interamente immaginaria ed esteriorizzata, frutto dell’attività poietica di faccia e mano obiettivata nella tecnica e nel linguaggio, finisce per rendere antiquata la struttura fisiologica da cui è stata originata.

Se le cose stanno in questi termini, è lecito porre la questione del destino dell’Homo sapiens come specie biologica. La soggezione e il sopravanzamento dell’umano a favore della Apparatenwelt, la regressione culturale e la liberazione da ogni attività del pensiero e forma di apprendimento attiva, la delega pressoché totale di ogni nostro operare specifico ai nostri strumenti, forse non sono altro che le premesse per una nuova mutazione antropologica adattata alle mutazioni dell’ambiente sociale in cui la virtualizzazione del concreto e la riproduzione (che è sempre riduzione) tecnica della physis costituiscono le istanze fondamentali. Forse, il destino dell’uomo è, davvero, quello di essere superato; superamento che pare prender la forma di una trasposizione sempre più totalizzante. I nostro esserci-ancora-appena non è dettato dalla minaccia imminente di un olocausto nucleare, o almeno non solo, bensì dalla contraddizione immanente tra la nostra struttura e necessità zoologica, e la nostra dimensione tecnica volta ad esaurire ed esautorare l’esistente e con esso l’uomo stesso.

Liberato dai suoi utensili, dai suoi gesti, dai suoi muscoli, dalla programmazione dei suoi atti, dalla sua memoria, liberato dalla sua immaginazione per la perfezione dei suoi mezzi telediffusi, liberato dal mondo animale, vegetale, dal vento, dal freddo, dai microbi, da ciò che è ignoto delle montagne e dei mari, l’Homo sapiens della zoologia è probabilmente vicino alla fine della sua carriera[41].

 

Libertà e destino umani sono due facce della stessa medaglia, ma se è vero che l’uomo, cavo teso sopra l’abisso tra bestia e oltreuomo, è il suo proprio progetto esteriorizzato, forse questa fine carriera potrebbe essere l’inizio di una nuova, nella remota ipotesi che egli impari ad essere quantomeno all’altezza di ciò che stato e di ciò che sarà.

 


[1] Come recita il celebre detto di Anassimandro «Il principio degli esseri è l’infinito... di dove infatti gli esseri hanno origine, lì hanno anche la dissoluzione secondo necessità: essi pagano infatti a vicenda la pena e il riscatto secondo l’ordine del tempo», DK12B1, in H. Dielz e W. Kranz, I presocratici, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2012, p. 197.

[2] Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza, tr. it. Adeplhi, Milano 1977, p. 152 e sgg.

[3] Günther Anders, L’uomo è antiquato II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 3.

[4] Ibid.

[5] Ibid.

[6] Ibid., p. 11.

[7] Si badi che questo carattere specifico della tecnica non è unicamente circoscrivibile all’industria bellica, ma il vero sostrato di ogni progresso scientifico contemporaneo. L’estensione di tale paradigma a branche quali lo Human Engineering, che intervengono direttamente sulla struttura biologica dell’umano, pongono la tecnica come fattore principale di un’evoluzione definitivamente distaccata dalla cornice biologica. La mera possibilità di realizzare artificialmente esseri umani in laboratorio, se si segue il ragionamento andersiano, implica di per sé la loro realizzazione empirica. In questo senso la tecnica si sostituisce alla zoè divenendo il principale fattore di ominazione.

[8] M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, tr. it. Mursia, Milano 1976, p. 5.

[9] Cfr. G. Anders, Tesi su «bisogni», «cultura», «bisogni culturali», «valori culturali», «valori», in Saggi dall’esilio americano, tr. it. Palomar, Bari 2003, p. 29 sgg. A tal proposito si rimanda anche a Id., L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 316.

[10] A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, tr. it. Einaudi, Milano 1977, p. 107.

[11] G. Anders, Amare, ieri. Appunti sulla storia della sensibilità, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 107. Queste teorie sono molto simili a quanto analizza approfonditamente Leroi-Gourhan nella sua opera Meccanica vivente. Il cranio dei vertebrati dai pesci all’uomo, tr. it. Jaca Book, Milano 1984; in particolare si rimanda all’appendice, cfr. p. 181 e sgg.

[12] A questo proposito è interessante notare come tale posizione sia già stata prefigurata filosoficamente da Nietzsche nell’aforisma 11 de La Gaia scienza: «La coscienza è l’ultimo e più tardo sviluppo dell’organico e di conseguenza anche il più incompiuto e il più depotenziato», F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 63.

[13] A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., p. 70.

[14] Ibid., p. 71.

[15] Gli studi di Leroi-Gourhan evidenziano come già dallo Zinjantropo il blocco facciale assuma una forma di triangolo basion-prosthion-visiera orbitale, simile a quello delle scimmie ma in cui l’angolo superiore tende a chiudersi dai 60° dello Zinjantropo ai 45° dell’Homo sapiens, causando un ritiro del blocco facciale rispetto alla scatola cranica.

[16] L’apertura del ventaglio corticale non è un processo che interessa solo l’uomo e gli ominidi, ma tutti i mammiferi superiori; per un’analisi dettagliata di tale processo si rimanda a ibid., p. 107.

[17] Ibid., p. 106.

[18] Ibid., p. 107.

[19] Ibid., p. 155.

[20] Cfr. ibid., p. 221 e sgg.

[21] Ibid., p. 164.

[22] G. Anders, Saggi dall’esilio americano, cit., p. 29.

[23] Leroi-Gourhan analizza dettagliatamente il rapporto dei primitivi con il trascendente nella sua opera Le religioni della preistoria, tr. it. Rizzoli, Milano 1970.

[24] Il testo è stato pubblicato in italiano con il titolo La natura dell’esistenza, in G. Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non identificazione, tr. it. Palomar, Bari 1993.

[25] Anders definisce il coefficiente di integrazione come la cifra del rapporto tra dotazione naturale e bisogni di un vivente con il suo ambiente, cfr. ibid., p. 32. Maggiore è tale coefficiente, maggiore sarà l’integrazione tra vivente e ambiente, ossia il suo sbarramento ambientale. Da notare come la teoria dello sbarramento, seppur molto simile alle teorie di Jacob von Uexküll, sia di chiara derivazione scheleriana. Cfr. M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, tr. it. Armando Editore Roma 1997, p. 144 e sgg.

[26] Da notare come questa posizione andersiana sia molto simile all’impostazione di Heidegger del problema dell’Esserci, come quell’ente che è la sua propria progettualità Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. Longanesi, Milano 2005, §9 p. 60 sgg.

[27] G. Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non identificazione, cit., p. 45.

[28] È ancora una volta da stigmatizzare come sia per Anders che per Leroi-Gourhan il linguaggio sia una diretta emanazione della libertà.

[29] A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., p. 266.

[30] È interessante notare come tale formulazione di Leroi-Gourhan sia straordinariamente simile a quanto descritto da Platone nel prologo del Protagora nel mito di Prometeo [320 C - 324 A]. La tecnica, come è noto, fu donata da Prometeo al genere umano, creato privo di ogni specializzazione in grado di garantirgli l’esistenza. Egli rubò a Efesto e Atena la sapienza tecnica con il fuoco e la donò agli uomini, rendendoli simili agli dei. La cosa interessante, come sottolinea Giuseppe Cambiano nel suo Platone e le tecniche, tr. it. Einaudi, Torino 1971, è che l’acquisizione della tecnica, da un lato rese possibile l’istruzione dei culti religiosi e quindi un rapporto con la trascendenza, dall’altro un linguaggio. In seguito, per evitare che regnasse il caos, Zeus comandò a Ermes di affidare agli uomini rispetto e giustizia (αἰδῶ τε χαὶ δίχην) come componenti fondamentali della tecnica politica. Nel mito quindi, condizione naturale, tecniche artigianali, linguaggio, religione e tecnica politica in quanto espressioni del mondo socio-culturale umano, sono presentati conformemente a quanto sostiene Leroi-Gourhan, come tre fasi successive della storia dell’umanità.

[31] Sull’artificialità della morale in Anders si rimanda a un appunto del 30 marzo 1949 contenuto in Amare ieri. Appunti sulla storia della sensibilità, cit., p. 103 e sgg.

[32] A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., p. 277 e sgg.

[33] Cfr. ibid., p. 270.

[34] Ibid., p. 250.

[35] G. Anders, L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, cit., p. 282.

[36] A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., p. 220.

[37] Ibid., p. 291.

[38] Ibid., pp. 291-292.

[39] Ibid., p. 290.

[40] Ibid., p. 293.

[41] Ibid., p. 470.

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