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Abstract
This article starts from the question if art still exists and what function it can still have. In front of contemporary artworks there is a disorientation which is a measure of the detachment between their language and the reality in which they are immersed. Starting from this observation, the theoretical position of Danto builds art’s autonomy, even compared to the aesthetic dimension and perception, which leads to neutralize the explosive potential of the artistic language. For this reason, Danto ignores the Kantian operation directed to identify an important moment for the structuring ethics of the human community in aesthetic sharing. In contrast, Didi-Huberman and Benjamin show us how art is essentially a practice that weaves a plot of elements of reality to upset them and thus bring a critical interrogation in the very heart of the reality of ethical relations in which it arose.
- Intro
Nel 1790 usciva la Critica del giudizio di Immanuel Kant. Un secolo dopo, sul finire dell’800, prendeva vita in Francia la prima secessione artistica diretta a rimodernare dei criteri di giudizio percepiti ormai come desueti. Nel primo decennio di questo secolo così si esprime l’emerito professore di Harvard Howard Gardner: «Per quanto riguarda la bellezza, che cosa si può dire di un secolo iniziato con l’orinatoio di Marcel Duchamp e finito con lo squalo di Damien Hirst?»[1].
Senza voler snaturare la sua argomentazione, possiamo assumere questo interrogativo come punto di partenza della nostra breve riflessione. Essa ci appare allora quasi come un grido di disperazione contro la perdita di tutti i punti di riferimento che ancora con le prime secessioni valevano come criteri per la valutazione dei prodotti artistici. Sembra invocare se non un recupero di quei valori ormai “vecchi” almeno l’identificazione di nuovi, che possano essere generalizzabili e condivisibili. Nella sua formulazione schietta di domanda che potrebbe farsi chiunque si trovi a visitare una mostra d’arte contemporanea, ci riconduce all’attuale dibattito in cui è tutt’oggi in atto una ricerca della definizione e dello statuto di ciò che può essere definito ancora opera d’arte. Sorgono così domande quali: che valore, ammesso che ne abbia ancora uno, possiede l’arte contemporanea? Ha ancora a che fare con un’interrogazione del carattere etico dei rapporti umani? E, per essere più radicali, ha ancora un senso interrogarsi in questi termini sul ruolo delle opere d’arte?
Si tratta di questioni che vanno a toccare nodi problematici alla base della crisi dell’arte e rispetto alle quali è ormai chiaro che ogni operazione volta a ristabilire preliminarmente un ordine o un valore risulta sterile e inefficace. Basti pensare alle polemiche che ancora di recente sono sorte intorno ai nudi di Vanessa Beecroff o, per altro verso, alla decisione tutta politica, presa da una città come Napoli, di abbandonare al proprio destino il museo di arte contemporanea per valorizzare invece i centri di conservazione e diffusione dell’arte tradizionale, con l’obiettivo dichiarato di rafforzare l’identità cittadina, insinuando così il dubbio che l’arte assume un valore (solo) laddove può essere investita di una funzione strumentale.
È generalmente riconosciuto che il momento di rottura nella concezione dell’arte è quello che ha trovato la sua matura espressione con il gesto artistico del movimento Dada e la sua forma diffusa con la PopArt. Alla trasformazione delle relazioni sociali interne a una borghesia in via di riformulazione dei proprio canoni e valori estetici corrisponde un movimento artistico che ha spezzato l’impermeabilità del discorso estetico ibridandolo e risvoltandolo in un discorso dal doppio statuto: quello di luogo di raddoppio distorcente del reale e quello di luogo in cui l’arte trova la perversione delle proprie categorie formali storiche nell’ottica di una destinazione etica del suo significato[2]. Il tema è complesso e ricco di implicazioni che non pretendiamo certo di esaurire o decidere in questo intervento. Quel che siamo interessati invece a esplorare sono le implicazioni di due ordini antitetici di risposta teorica. Da un lato, una teoria che definisce l’arte come forma culturale in possesso di un proprio linguaggio specifico formalmente definito e di un milieu di esperti in cui vigono solo le sue regole. Dall’altro, una formulazione teorica che, conservando il rapporto tra estetica ed espressione artistica, ibrida l’arte con altri sguardi sull’umano (antropologia, etica, ecc.) nella convinzione di fondo che l’opera d’arte sia eminentemente un luogo di esposizione e interrogazione di dinamiche proprie dell’organizzazione etica delle relazioni interumane. Una posizione, questa, che ci sembra in grado di garantire un discorso autonomo dell’arte senza isolarla, anzi riconoscendole come forza precipua quella di interrogare criticamente l’ordine vigente del reale.
- Dalla realtà all’arte
Come paradigma della prima prospettiva prenderemo l’elaborazione teorica del critico dell’arte e filosofo analitico statunitense Arthur C. Danto. Si tratta di una riflessione che cerca di definire un campo di validità specifico dell’opera d’arte, distinguendolo e delimitandolo tanto rispetto agli altri ambiti culturali quanto, più genericamente, rispetto all’ambito dell’estetica inteso come campo di provocazione ed espressione delle sensazioni. Questa separazione, che è insieme specificazione e qualificazione di quest’ambito, trova la sua ragion d’essere nel tentativo di conservare o, meglio, di salvare attraverso un lavoro di definizione descrittiva e non normativa l’arte, da Danto implicitamente considerata la forma culturale per eccellenza dell’Occidente e la sua massima eredità storica.
È in questa prospettiva che torna sui “luoghi del delitto”: il gesto irriverente di R. Mutt, alias Marcel Duchamp, che presenta l’opera Fountain alla prima esposizione della Society of Independent Artists del 1917 e la sua replica a opera di Andy Warhol con le Brillo Boxes nel 1964. L’introduzione del prodotto industriale, readymade, nello spazio riservato delle opere d’arte è quel che minaccia di far crollare l’intera cattedrale dell’Arte. Ma è anche ciò che – secondo il senso dell’operazione del critico statunitense – può salvarla e liberarla da un fraintendimento plurisecolare che l’ha portata a essere assoggettata al canone del bello. Contro di esso era per l’appunto diretto il desiderio di rottura promosso dall’avanguardia Dada: «solo in un ambiente in cui l’arte e la bellezza avevano un’importanza che oggi difficilmente riusciremmo a comprendere, l’anti-esteticismo del Dada poteva essere ritenuto un provvedimento efficace»[3].
Da qui muove Danto producendo, a livello teorico, una serie di riduzioni di campo. Dall’implicazione etico-sociale dell’esemplare gesto dadaista al suo significato morale[4]. Da quest’ultimo, non pertinente in quanto soggetto a criteri eteronomi, al sintomo che esplicita, cioè il fatto che il gesto artistico è storicamente determinato. Dal generico richiamo storico alla connessione causale storicamente determinata[5]. Da quest’ultima alla individuazione della produzione: l’opera d’arte è figlia del proprio tempo ma ancor più del proprio padre. «Quel che è interessante ed essenziale nell’arte», sostiene allora il filosofo statunitense, «è la capacità spontanea che ha l’artista di permetterci di vedere il suo modo di vedere il mondo – non semplicemente il mondo […] ma il mondo nel modo in cui lui ce lo offre»[6].
L’effetto di questa progressione è la chiusura del discorso artistico. Nell’opera d’arte è in azione un meccanismo che agisce sul mondo secondo una doppia direzione: una prima muove nella forma dell’esposizione dall’artista verso lo spettatore o, più in generale, il fruitore; una seconda muove dal fruitore attraverso l’opera verso il suo autore. Nel primo movimento si produce una formulazione potenzialmente universale di una posizione individuale[7], nel secondo si esprime una conoscenza del linguaggio usato e del contesto argomentativo richiamato che produce il riconoscimento sociale del ruolo dell’artista e dell’opera.
Perché la relazione biunivoca tenga è necessaria l’espulsione teorica di ciò che le avanguardie avevano per prime contestato: il bello. Danto provvede così a distinguere tra la bellezza estetica, sensibile, e il carattere artistico di un’opera, carattere in cui l’uso del concetto di bello risulta un’improprietà linguistica prodotta da una scorretta analogia[8]. Nell’ultimo volume della sua trilogia, L’abuso della bellezza[9], torna sull’insignificanza artistica del concetto di bello e, non a caso, decide infine di fare i conti con Kant, che non solo ha sviluppato una concezione della dimensione estetica e una nozione di arte tra loro interdipendenti ma ha anche connesso questa relazione al problema della costituzione di un senso comune e quindi di una trama sociale che nell’opera d’arte trova la propria conferma attraverso il giudizio di gusto condiviso nel dialogo[10]. Danto non sembra cogliere questa complessità e si sofferma, riducendo la teoria kantiana secondo i limiti della propria formulazione, solo sul bello come proprietà naturale, dunque sensibile, percettiva ed emotiva[11]. Così facendo però non si libera dell’implicazione etica formulata da Kant. Dopo aver ripetuto, calcandolo, il gesto kantiano che separava lo spazio etico dall’ordine morale soggettivo e dall’organizzazione politica, suo imperfetto risvolto pubblico-istituzionale, non vi ritorna per cercare la sua strutturazione prodotta tramite la condivisione del giudizio del bello (o, diversamente, del sublime). Finisce, dunque, semplicemente per ignorare questo spazio.
Se Danto riesce a evitare di soffocare la propria teoria che dichiara insufficiente ogni altro linguaggio che tenti di parafrasare, sintetizzare o comprendere l’opera[12], ci sembra non riesca invece a evitare di ridurre questa dinamica a un gioco esclusivamente culturale incapace di spiegare perché l’avventura sia iniziata. In altri termini, riesce a confermarci che l’avventura dell’arte non è finita con gli albori dello scorso secolo ma non è in grado di dirci perché è ricominciata in un’altra forma. E ciò risulta rilevante non per appagare uno sguardo desideroso di ritrovare un’esaustività sistematica della teoria bensì perché questo punto specifico mostra come, pur nella storicità causale dell’opera, manchi il riconoscimento di una sua storicità essenziale, cioè il fatto che essa sia prodotta per esporre un’esigenza tensionale oggettiva e non una visione soggettiva, cioè il fatto che l’opera interroghi le relazioni storiche in cui è immersa esponendole e interroghi allo stesso tempo se stessa come linguaggio esponendovisi. Paradossalmente, la presa di distanza dalla riflessione kantiana produce come effetto una costruzione teorica analoga ma più debole. Il fondamento è infatti sempre il giudizio di gusto che, non più fondato sul bello e, dunque, su una relazione complessa e moralmente umanizzante della natura, trova ora il momento di condivisione che lo istituisce in una soddisfazione che rimane sensibile ma che è legittima solo se risulta intellettualisticamente consacrata, secondo criteri che sorgono dal consesso degli esperti, critici, cultori e collezionisti, e dalle istituzioni rappresentate da musei e gallerie d’arte[13]. Una condivisione, in definitiva, esclusiva di un determinato ambiente sociale cui pertiene il linguaggio del giudizio artistico. Ci troviamo così di fronte all’impossibilità di una condivisione generale del prodotto artistico e, dall’altro, alla neutralizzazione dell’opera come interrogazione potenzialmente esplosiva del reale.
- L’arte come critica della realtà
Sulla rottura artistica provocata dalla sperimentazione di Duchamp lavora in una direzione del tutto differente e in termini per noi significativi Didi-Huberman. Lo studioso francese convoca l’operazione duchampiana all’interno della propria teoria sulla funzione complessa dell’impronta. L’impronta conserva una duplice relazione con la nozione di aura. Da un lato, nega il valore assoluto dell’aura. Dall’altro, ne afferma l’efficacia nella misura in cui produce un’interrogazione della materialità a partire dal suo limite, dalla sua presenza nella sua assenza, dalla complessa trama di relazioni (percettive, memoriali, concettuali, storiche…) che le sono connesse oltrepassandone il carattere fisico. È nello sviluppo di questa articolata trama argomentativa e concettuale che il teorico francese dell’immagine ci parla tanto della relazione mimetica tra l’opera d’arte e il mondo quanto della capacità trasfigurativa dell’arte. Emerge così la natura dialettica del readymade duchampiano e la sua portata trans-disciplinare; la sua “virtù” «deriva proprio dalla sua condizione apparentemente poco determinata, sempre trasversale: è una virtù operazionale, una virtù dialettica grazie a cui i modelli temporali univoci possono essere combinati, sfumati, resi più complessi. Tali modelli ignorano solitamente l’“immagine dialettica”, la collisione tra l’Adesso e il Già-stato, il lampo di anacronismo in cui si genera una configurazione nuova che non è né nostalgia del passato né isolamento maniacale del presente, e che, ancor prima di trovare una collocazione nella storia, ne spiazza la prospettiva, l’orientamento»[14].
Le implicazioni di questo discorso emergono con chiarezza nel richiamo all’interpretazione che lo sguardo antropologico di Lévi-Strauss propone del readymade in alcuni punti della nota intervista di Charbonnier[15]. Questa connessione apre a un pensiero che riflette sugli «oggetti artistici» come «un sottoinsieme di quelli estetici»[16] che va ben oltre la disputa per l’estensione dei limiti disciplinari e che coinvolge un’interrogazione generale sia della materialità del reale sia del suo pensiero sia, infine, della sua pensabilità.
Ma, ciò che qui ci preme notare, è che la posizione teorica così articolata nel pensiero di Didi-Huberman è possibile perché è già avvenuta una rottura nella storia dello sguardo critico sull’opera d’arte. Uno scarto che ha portato da una concezione dell’opera d’arte il cui valore è deciso secondo il criterio del bello alla concezione che è attenta alla sua funzione diffusa, generalizzata. E questo passaggio è definito da Benjamin attraverso la “sostituzione” della nozione del bello esposta nel saggio sulle Affinità Elettive con la nozione di allegorico che prende forma nel lavoro sul dramma barocco tedesco[17], a partire dall’idea di fondo costante che l’arte, sia essa frutto di una tensione individuale o espressione in un linguaggio determinato di un’esigenza storica precisa, è in ogni caso formulazione di una interrogazione metafisica dell’ordine sensibile del mondo[18]. Questo avvicendamento, ben inteso, non deve essere confuso con l’operazione teorica di Danto. Qui non si tratta più del rifiuto di assegnare al bello quella funzione importante riconosciutagli in precedenza dalla storia dell’arte. Si tratta, invece, di cogliere come il passaggio dal bello all’allegoria sia la trasmissione di una funzione che caratterizza l’opera d’arte nella sua relazione con la realtà mondana in cui è immersa.
Nel modello dell’opera bella sono l’ordine e la disposizione interna che permettono di far emergere come ciò che è bello non può soddisfare, in qualunque sua relazione sensibile, il rapporto dell’opera con l’interrogazione propostagli dal mondo. Il bello risponde a questa interrogazione mostrando la divaricazione tra un’apparenza insufficiente e un’apertura trascendente che fa di questa interrogazione sia un ritorno etico sia un rinvio che richiede un impegno attivo[19].
Parlando del modo di funzionare degli elementi interni al romanzo goethiano, Benjamin chiarisce come la capacità dell’opera d’arte sia quella di prendere degli elementi dal «caos»[20], che caratterizza la vitalità su cui si fonda il mondo reale, in modo da trasportare al proprio interno la sostanza di questa vita senza però sottostare alle sue leggi bensì riuscendo a irrigidirla e a fissarla «nell’istante» di un’interrogazione del suo senso possibile. Qui si gioca la dialettica tra la bellezza come apparenza dell’armonia che proviene da quella medusizzazione e il «privo di espressione» come ciò che «costringe l’armonia tremante a fermarsi» e il bello a «render conto di se stesso». In questa interrogazione si manifesta «la potenza critica» del privo di espressione con cui è fatto divieto all’apparenza e all’essenza «di mescolarsi». Così, «nel privo di espressione appare la potenza superiore del vero, che determina, secondo le leggi del mondo morale, la lingua di quello reale», provocando la comunicazione umana con l’esposizione dell’apparenza insufficiente nell’opera d’arte bella. «Esso spezza, cioè, quello che resta, in ogni bella apparenza, come eredità del caos: la totalità falsa, aberrante – la totalità assoluta» e mostra il valore etico dell’interrogazione artistica.
In questa lettura della funzione dell’opera d’arte e del bello in essa, Benjamin non separa dunque l’estetico dall’artistico e, soprattutto, in termini prossimi alla riflessione kantiana della terza critica, li fa convergere nell’orizzonte della produzione di un significato comune che coinvolge anche l’elemento naturale. Dove però non è la teleologia naturale accolta nella moralità e nella condivisione dell’umano a emergere come conseguenza, bensì la potenza trans-estetica o, meglio, storica ed etico-politica del compito di riformulare l’umano secondo lo spunto che emerge dalla perforazione dell’epidermide del mondo.
Allora, non siamo di fronte a un oggetto d’arte ma di fronte, proprio attraverso la specificazione del bello, a un oggetto d’arte e, dunque, a un’eccezione, che se non richiede necessariamente un soggetto investito del compito di produrla implica però inevitabilmente, secondo un’eco romantica, una specificità irriproducibile ed esclusiva.
Questo carattere rimane implicitamente in sospeso e trova una sua soluzione (anche se non esclusiva) nella tesi di abilitazione dove l’opera d’arte è sottratta al dialogo tra bello e privo di espressione e ricondotta all’interno del più ampio quadro della sensibilità di un epoca rispetto all’interrogativo metafisico-antropologico proprio dell’uomo. La relazione cui rinvia il privo di espressione, sebbene non richiamata, rimane nel suo significato essenziale, ovvero nella funzione che svolge nell’opera, sotto forma della lingua che si esprime nell’allegoria. Nell’allegoria si esprime la dialettica del rapporto tra l’attenzione (feticistica) per gli infiniti elementi materiali del mondo e la nominazione (araldica) che li tesse in un discorso incapace di esaurirli e, dunque, indice/indizio/impronta di un’apertura costitutiva che richiede una riformulazione dello spazio etico comune perché possa trovare un accoglimento più pieno[21].
Benjamin risponde dunque, a suo modo, all’esigenza kantiana di un senso comune che segnali la condivisione di uno spazio etico tra gli uomini tramite la convergenza dei giudizi su un’opera; vi risponde attraverso una disseminazione di quel che era la funzione dell’opera tra gli oggetti, qualsiasi essi siano, prodotti dall’uomo, senza che questo provochi un depotenziamento dell’interrogazione critica del reale che in questi ultimi si arriva a ritrovare. Da qui riparte Didi-Huberman e da qui può ripartire una riflessione sulla produzione artistica come interrogazione radicale dei rapporti etici dell’uomo.
[1] H. Gardner, Verità, Bellezza, Bontà. Educare alle virtù del XXI secolo (2011), tr. it. Feltrinelli, Milano 2011, p. 202.
[2] Cfr. C. Bordoni, Introduzione alla sociologia dell’arte, Liguori, Napoli 2008; N. Heinich, La sociologia dell’arte (2001), tr. it. Il Mulino, Bologna 2004.
[3] A.C. Danto, Kallifobia nell’arte contemporanea, in L. Russo (a cura di), Dopo l’estetica, Aesthetica Preprint, Palermo 2010, p. 52.
[4] Ibid., p. 53.
[5] Id., La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte (1981), tr. it. Laterza, Roma-Bari 20113, pp. 221-222.
[6] Ibid., p. 252.
[7] «Come opera d’arte, Brillo Box fa […] quel che le opere d’arte hanno sempre fatto – esteriorizzare un modo di vedere il mondo, esprimere l’interiorità di un periodo culturale, offrire se stesse come uno specchio per cogliere la coscienza dei nostri re», ibid., pp. 253-254.
[8] Danto sviluppa preliminarmente tutta una polemica diretta contro le teorie tardo ottocentesche che hanno dato forma all’idea del bello fondandola sul gioco tra la prima e la terza critica kantiana. Cfr. C. Fiedler, Über den Ursprung der künstlerischen Tätigkeit, Fink, Münich 1887, tr. it. in A. Pinotti, F. Scrivano, Scritti sull’arte figurativa, Aesthetica, Palermo 2006, pp. 69-152.
[9] A.C. Danto, The abuse of Beauty: Aesthetics and the Concept of Art, Open Court, Chicago-La Salle 2003 (la traduzione italiana è apparsa per Postmedia, Milano, nel 2008). Gli altri due volumi sono: il già citato La trasfigurazione del banale, e Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia (1997), tr. it. B. Mondadori, Milano 2008.
[10] Cfr. I. Kant, Critica della capacità di giudizio (1790), tr. it. BUR Rizzoli, Milano 1995, in particolare §§ 20, 21, 22, 44, 45, 55, 56, 57.
[11] Cfr. A.C. Danto, The abuse of Beauty, cit., p. 90.
[12] Id., La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte, cit., p. 212.
[13] Cfr. Id., The Artworld, in «The Journal of Philosophy», 19, 61, 1964, p. 581; P. D’Angelo, Tre modi (più uno) d’intendere l’estetica, in L. Russo (a cura di), Dopo l’estetica, Aesthetica Preprint, Palermo 2010, pp. 27, 42.
[14] G. Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta (2008), Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 178.
[15] Cfr. C. Lévi-Strauss, Primitivi e civilizzati (1961), tr. it. Rusconi, Milano 1976, pp. 75-168, in particolare p. 156.
[16] F. Desideri, Forme dell’estetica. Dall’esperienza del bello al problema dell’arte, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 83.
[17] Cfr. W. Benjamin, Origine del dramma barocco tedesco (1928), tr. it. in Opere complete, Einaudi, Torino 2001, vol. II, pp. 202-203.
[18] Cfr. Id., Le «Affinità elettive» di Goethe (1924), tr. it. in Opere Complete, Einaudi, Torino 2008, vol. I, pp. 549, 564, 571-572, 582-5.
[19] Cfr. ibid., p. 574-575.
[20] Ibid., p. 571 (anche per le citazioni seguenti).
[21] Cfr. W. Benjamin, Origine del dramma barocco tedesco, cit., pp. 203-205, 265-267.