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Su filosofia e letteratura. Variazioni intorno a Merleau-Ponty e l’autofiction

Autore


Alessandra Scotti

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Lello e l’autofiction
  2. Il problema dell’espressione in Merleau-Ponty
  3. Philosophia ancilla litterae?

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S&F_n. 12_2014

Abstract


This paper sets out from a specific literary style, autofiction, which bounds autobiographical inputs to mere fiction. It will be focused the persistent ambiguity of this narrative form, aiming to an impossible sincerity. Indeed the problem of truth is precisely the spot where philosophy and literature meet each other’s destiny, as proved by Merlau-Ponty’s theory of expression and the use of literary style.  Since when contemporary philosophy challenged rationalistic claims coming from traditional metaphysics, literature stops to be its “ugly twin”. Since when philosophy is not charged of explaining the world anymore, but creating a version of it, literature has become increasingly influent.

       


  1. Lello e l’autofiction

Secondo me gli scrittori so’ tutti bugiardi.

Dite che inventate le cose e invece non inventate niente, è tutto vero …

ma perché Dante non la conosceva veramente a Beatrice, e Leopardi?

E Leopardi a Silvia, la conosceva veramente. È tutto vero…

Lello Sodano in Ricomincio da tre

 

Quando Massimo Troisi, in Ricomincio da tre, mette in bocca al personaggio di Lello queste parole realizza, ancora una volta, quello strano connubio di lungimiranza e naiveté che ha contraddistinto l’intera sua produzione cinematografica. Si tratta di un appunto così perspicuo che trova pieno riscontro nelle tendenze letterarie contemporanee. I teorici della letteratura la chiamano Autofiction. La parola ha una genesi francese ed è stata utilizzata per la prima volta nel 1977 da Serge Doubrovsky, professore e scrittore, che così definì il suo romanzo Fils. Si può dire che il termine ebbe più fortuna e risonanza del romanzo che l’ispirò (che ad esempio non fu mai tradotto in Italia) al punto che critici e scrittori incominciarono a interrogarsi sulla natura di questo nuovo genere letterario, di questo ippocervo della letteratura. Genericamente possiamo affermare che l’etichetta di autofiction connota romanzi a metà strada fra autobiografia e finzione, fra la cronaca e il vizio romanzesco. Esempi di autofiction si possono ritrovare in Dante come in Walter Siti, accomunando così testi diversissimi sia per intenti poetici sia per realizzazioni stilistiche. Ciò che li avvicina è la creazione di un alter ego, spesso dai tratti parodici, che narra, mescolandoli, elementi schiettamente autobiografici a fatti chiaramente inventati, insinuando nel lettore il legittimo sospetto riguardo alla veridicità di quel particolare vissuto e innescando il paradosso per cui si mente dicendo cose vere e si racconta la verità mentendo. L’autobiografia, in fondo, rappresenta il tentativo di accedere a una verità impossibile a fronte della mutevolezza del ricordo, del fatto in sé e dell’io che, in quanto referente, non trova mai piena soddisfazione. Per quanti sforzi possa compiere l’autore, l’autobiografia non si appiattirà sulla pura e semplice descrizione di un fatto oggettivo, ma s’ibriderà sempre con uno stato mentale, tanto per chi scrive quanto per chi legge. Essa, pertanto, pone a tema l’ambiguità di fondo che la caratterizza e vi gioca, prefiggendosi come obiettivo quest’impossibile sincerità. È proprio sulla questione della verità che i destini letterari e filosofici s’intersecano. Da quando la filosofia contemporanea ha messo in dubbio le pretese razionalistiche della metafisica classica, la letteratura ha smesso di essere la sua gemella brutta. Da quando la filosofia si è assunta il compito non più di spiegare il mondo, ma di formulare un’esperienza o una visione di esso, la letteratura ha assunto sempre più voce in capitolo.

  1. Il problema dell’espressione in Merleau-Ponty

Si sorrida ma non troppo: Merleau-Ponty non sarebbe in disaccordo con Lello Sodano. Per scrivere la Commedia, Dante deve aver conosciuto Beatrice, così come il filosofo deve far leva sulla sua propria percezione per darne una definizione filosofica. Che vi sia una filosofia della pittura in Merleau-Ponty sembra un dato piuttosto acquisito. La letteratura secondaria è ricca di riferimenti a testi come Le doute de Cézanne o L’oeil et l’Esprit, che rintracciano nell’arte, specialmente quella pittorica, il mezzo espressivo per eccellenza. Ben più inesplorata, invece, è la questione del rapporto che Merleau-Ponty intrattenne con la letteratura del suo tempo o, più originariamente, col linguaggio letterario. Eppure ne Il romanzo e la metafisica egli afferma molto chiaramente:

la metafisica classica è potuta passare per una specialità in cui la letteratura non avesse a che fare, perché ha funzionato su una base di razionalismo incontestato e perché era persuasa di poter far capire il mondo e la vita umana con una connessione di concetti[1].

Tutto cambia quando si ha a che fare con una filosofia fenomenologica o esistenziale che si proponga non di spiegare il mondo o di fornirne le “condizioni di possibilità” alla Kant, bensì di formulare un’esperienza del mondo, di stabilire un contatto con le cose del mondo che preceda ogni pensiero su di esso. Ecco che «quando si tratta di far parlare l’esperienza del mondo e di mostrare come la coscienza fugga nel mondo, non ci si può più lusingare di raggiungere una trasparenza perfetta dell’espressione»[2]. Merleau-Ponty ne deduce che le ambiguità dell’espressione letteraria sono le medesime dell’espressione filosofica e che questo mescolarsi di letteratura e filosofia segna la fine di ogni letteratura caratterizzata moralmente, «l’invasione del metafisico fa esplodere quel che si riduceva a un “vecchio costume”»[3]. Il mondo diviene allora qualcosa che può essere spiegato, stavolta nel senso letterale come si lisciano le pieghe di un abito, solo mediante la narrazione di “storie” e queste, quanto più saranno intime e soggettive, tanto più saranno in grado di assurgere a una dimensione universalistica. Ogni patto rappresentativo tra le parole e le cose salta: l’espressione, letteraria o filosofica che sia, cercherà di farsi pura deitticità. Quando si parla del problema dell’espressione in Merleau-Ponty non si può non far riferimento a un testo su tutti: La prosa del mondo. Come osserva Claude Léfort, all’indomani della pubblicazione del sartriano Qu’est-ce que la littérature? Merleau-Ponty annotava: «bisogna che faccia una specie di Qu’est-ce que la littérature? con una parte più lunga sul segno e sulla prosa, e non tutta una dialettica della letteratura, ma cinque percezioni letterarie: Montaigne, Stendhal, Proust, Breton, Artaud»[4]. Si tratta di una nota non datata, ma che porta già il titolo di Prosa del mondo. Quel che è certo è che La prosa del mondo o Introduzione alla prosa del mondo è un’opera incompiuta e forse per questo bistrattata più di altre. Tuttavia essa determina una vera e propria svolta nell’itinerario concettuale del filosofo. È proprio quando Merleau-Ponty è alle prese col fenomeno dell’espressione che si fa strada in lui la convinzione che la questione fenomenologica, e nella fattispecie di una fenomenologia percettiva, doveva evolversi spontaneamente in questione ontologica. È in corso alla redazione de La Prosa del mondo che scopre le insufficienze di Fenomenologia e che prende corpo una nuova prospettiva che, affermandosi negli anni che seguirono, condurrà a Il visibile e l’invisibile. La filosofia dell’espressione apre, in realtà, lo spazio dell’ontologia. D’altronde un lettore esperto di Merleau-Ponty non mancherà di rintracciare nella riflessione sul “linguaggio indiretto” condotta ne La Prosa, i primi segni della riflessione sull’ “ontologia indiretta” che alimenterà Il visibile e l’invisibile. È possibile illuminare la parabola di genesi, sviluppo e abbandono della suddetta opera merleau-pontiana grazie a un inedito conosciuto come Lettera a Gueroult indirizzatagli poco tempo prima dell’elezione al Collège de France (avvenuta nel febbraio 1952) e pubblicato, per la prima volta, postumo nel 1962 sulla Revue de Métaphysique et de morale. In questa lettera Merleau-Ponty fa, da un lato, una sorta di riepilogo dei risultati raggiunti con Struttura del comportamento e Fenomenologia della percezione, dall’altro un promemoria per il futuro. Se le ricerche sulla percezione sfociano, naturalmente, nella definizione di un soggetto della percezione che non sarà trasparente a se stesso, ma sarà un cogito opaco, come dirà poi Ricoeur, incatenato al proprio corpo e alla propria situazione storica, ne consegue che il problema dell’espressione acquisterà sempre maggior rilievo. In effetti nei primi anni ’50 esso rappresenta un vero e proprio assillo per Merleau-Ponty; in quegli anni non solo lavora alla Prosa del mondo ma, nel ’53, tiene parallelamente due corsi al Collège de France, recentemente pubblicati in Francia: Recherches sur l’usage littéraire du langage (corso del lunedì) e Le monde sensible et le monde de l’ expression (corso del giovedì). Proprio in quest’ultimo leggiamo:

Tout est perception, mais la perception est tout, c'est-à-dire que notre idée de la perception doit être élargie de manière à rendre possible une analyse de l'entendement. C'est ce rapport ambigu, à double sens, avec renversement, que nous appelons aujourd'hui expression[5].

E tuttavia accade qualcosa di misterioso: tra il momento in cui Merleau-Ponty scrive a Gueroult facendogli conoscere lo stato di avanzamento delle sue ricerche sull’espressione e il mese di agosto dello stesso anno, il filosofo decide di estrarre dalla sua potenziale opera un capitolo importante e di pubblicarlo sotto forma di saggio indipendente su Temps Moderns col titolo Il linguaggio indiretto e la voce del silenzio. Come spiegare le ragioni di quest’abbandono? In realtà il progetto Prosa del mondo era stato concepito come prima parte di un dittico di cui la seconda parte avrebbe dovuto costituire la sezione più schiettamente metafisica. L’ambizione merleau-pontiana era di offrire, in continuazione con la sua Fenomenologia, una teoria della verità. Il filosofo, infatti, fa riferimento a quest’opera embrionale definendola col nome provvisorio di Origine della verità: essa costituirà l’antenato del testo incompiuto che oggi conosciamo con nome di Visibile e l’invisibile. Tant’è vero che fino al ’59 Merleau-Ponty oscilla fra i titoli Généalogie du vrai, Être et monde e quello già noto di Origine de la vérité. È ragionevole pensare allora che l’idea di scrivere un altro libro al fine di disvelare il senso metafisico della sua teoria dell’espressione possa aver condotto Merleau-Ponty a modificare il suo intento iniziale e a preferire l’Origine della verità alla Prosa, senza che quest’accantonamento sia interpretato come un abbandono o come un ripudio delle questioni emerse dal problema dell’espressione, così come testimoniano i due corsi posteriori tenuti al Collège. Diciamo, piuttosto, che la percezione del suo lavoro muta, il compito di scrivere una Qu’est-ce que la métaphysique o, meglio, Qu’est-ce que l’ontologie s’impone sul resto, ma come scrive saggiamente Léfort «il primo lavoro non è la conseguenza di una nuova scelta, ma ne è la sua ragione»[6].

  1. Philosophia ancilla litterae?

Da quanto è emerso dobbiamo forse parlare di una “riduzione della filosofia alla letteratura”? È una questione interessante e, ancora una volta, la vicenda filosofica di Merleau-Ponty ci offre spunti di riflessione. Quando nel 1946 il francese fu invitato a tenere una séance, ovvero una sorta di discussione pubblica contro argomentata da una commissione esaminatrice, alla Societé française de philosophie e a difendere il suo pensiero, Merleau-Ponty fu apertamente attaccato da Emile Bréhier. Titolare di una cattedra di storia della filosofia alla Sorbona e accademico rinomato, Bhéhier non vide di buon occhio i risultati raggiunti dal fenomenologo con l’opera del ’45 che conferiva nuovamente centralità all’esperienza sensibile e percettiva, a discapito dei razionalismi classici. Emile Bréhier era manifestatamente irritato da questo nuovo stile filosofico capace di mescolare un lessico fenomenologico, preso in prestito da Husserl, con l’esperienza clinica delle psicopatologie e descrizioni minuziose dal gusto spiccatamente letterario. Riportiamo l’intero dialogo così com’è trascritto ne Le primat de la perception, allorquando Bréhier accusa Merleau-Ponty di relativismo, dal momento che l’altro verrebbe ricondotto a una mia percezione dell’altro:

Merleau-Ponty: Il me semble que chercher l’expression de l’immédiat ce n'est pas trahir la raison, c’est travailler au contraire à son agrandissement.

M. Bréhier: C’est trahir l'immédiat.

Merleau-Ponty: C’est commencer la lutte de l'expression et de l’exprimé, c’est accepter la condition d’une réflexion commençante. Ce qui nous y encourage, c’est qu’il n’y a pas de vie pure et absolument inexprimée chez l’homme, c’est que l’irréfléchi ne commence à exister pour nous qu’à travers la réflexion.

M. Bréhier: Je vois vos idées s'exprimant par le roman, par la peinture, plutôt que par la philosophie. Votre philosophie aboutit au roman. Ce n’est pas un défaut, mais je crois vraiment qu’elle aboutit à cette suggestion immédiate des réalités telle qu'on la voit dans les œuvres des romanciers[7]

Merleau-Ponty conclude, forse un po’ piccato, che «on est toujours ambigu quand on essaie de comprendre les autres. Ce qui est ambigu, c'est la condition des hommes»[8]. Se un punto d’incontro può esservi, tra filosofia e letteratura, non potrà che sussistere là dove quest’ultima riesca a esprimere, in un modo a lei peculiare, la stessa tensione del pensiero critico verso il senso, lo stesso rapportarsi ad una possibilità di esperienza in genere. Non si tratta, dunque, di un dissolversi della filosofia nella letteratura, ma della possibilità che ha l’opera d'arte letteraria di parlare di ciò che l’indagine teoretica può avere difficoltà nel dire. D’altronde che la parola poetica soccorra la filosofia quando essa è imbrigliata tra le spire del concettualismo, quando essa sembra accusare una carenza di linguaggio, non è certo una novità per la filosofia contemporanea. Pensiamo all’uso che fa Heidegger dei versi di Hölderlin, o ai cospicui riferimenti alla poesia di Valery nello stesso Merleau-Ponty. Delle cinque percezioni letterarie, Montaigne, Stendhal, Proust, Breton, Artaud, Merleau-Ponty non ebbe il tempo che di affrontarne una sola, cioè Stendhal nel corso che abbiamo ricordato sull’uso del linguaggio letterario. Quello che possiamo affermare è che le figure letterarie che il filosofo avrebbe voluto prendere in esame esprimono tutte una chiara vocazione autobiografica. Perché in fondo se ogni verità del mondo o sul mondo si radica nella percezione, ogni storia del mondo è già da sempre narrazione, fictio letteraria o, meglio, autofiction. Se non si rischiasse di essere tacciati di anacronismo potremmo affermare che Merleau-Ponty sottoscriverebbe appieno un’operazione letteraria del tutto eterodossa come quella che fa Antonio Delfini in Modena 1831. Città della Chartreuse che confonde il suo proprio immaginario poetico e il suo proprio vissuto con quello di Stendhal, arrivando a concluderne che, in realtà, la città in cui era stata ambientata la stendhaliana Certosa di Parma non poteva che essere Modena. Eppure, anche se Merleau-Ponty resterà per sempre affascinato da questo felice connubio di filosofia e letteratura, nelle interviste radiofoniche con Georges Charbonnier confesserà di essere rimasto «choqué» dallo scoprire in Simone de Beauvoir «un véritable amalgame de philosophie et littérature»[9], egli non varcherà mai la soglia che separa, e a un tempo unisce, filosofia e letteratura. Contrariamente alla stessa Simone de Beauvoir o a Sartre e Camus, non scrisse mai un romanzo filosofico. Non poté, o non volle, saldare filosofia e letteratura. Forse perché realmente ai suoi occhi non costituivano due discipline distanti. Forse perché l’ipotesi di scrivere un romanzo dai tratti autobiografici mal si accordava con la sua indole pacata e discreta. Non lo sapremo mai. Quello che sappiamo è una piccola storia che può far luce sulla questione. Ce la narra Claude Simon quando, nel 1982, di fronte a un parterre di scrittori newyorkesi, ricorda uno stralcio della conversazione che ebbe con Merleau-Ponty all’inizio del 1961. Simon era in preda a dubbi che noi oggi chiameremmo esistenzialistici e confessò a Merleau-Ponty che non sapeva più se considerarsi filosofo o meno. Merleau-Ponty sorrise e rispose che avrebbe dovuto ritenersi fortunato e concluse dicendo una sola cosa: «Si vous étiez philosophe, vous seriez bien incapable d’écrire vos romans».

 


[1] M. Merleau-Ponty, Senso e non senso, tr. it. Il saggiatore, Milano 1962, p.  46.

[2] Ibid., p.  47.

[3] Ibid., corsivo mio.

[4] M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, tr. it. Editori Riuniti, Roma 1984, p. 23.

[5] M. Merleau-Ponty, Le monde sensible et le monde de l'expression: Cours au Collège de France, Notes 1953, Metispresses, Gèneve 2011, p. 55.

[6] M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, cit., p. 25.

[7] Id., Le primat de la perception et ses conséquences philosophiques, Verdier, Paris 1996, p. 78.

[8] Ibid., p. 101.

[9] Cfr. «Entretiens avec Maurice Merleau-Ponty», realizzate e presentate da Georges Charbonnier per la R.T.F. e diffuse, inizialmente, fra il 22 maggio e il 7 agosto 1959, Archivio I.N.A., Fondo Fonoteca, Bibliothèque Nationale de France, Paris.

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