S&F_scienzaefilosofia.it

L’inconscio, il tempo, il suono. Su psicoanalisi e musica

Autore


Michele Gardini

Università di Firenze

Dottore di ricerca in Filosofia. Già docente a contratto di Filosofia del linguaggio presso l’Università di Firenze, insegna Filosofia nei Licei

Indice


  1. Un inconscio sonoro?
  2. Tra ripetizione e variazione
  3. Filastrocche e ninnenanne
  4. Transizione musicale
  5. Psicoanalisi e tipologia degli stili

 

↓ download pdf

S&F_n. 13_2015

Abstract



The system of classical psychoanalysis, as built by Freud, grants almost no space to the phenomenon of sound and music. Indeed, many aspects of music, though not all, appear incompatible with his conception of the unconscious. Only slowly and painfully, through the reflection and the analytical and aesthetic categories worked out by figures such as Melanie Klein, Donald Winnicott, Daniel Stern, Didier Anzieu and Michel Imberty, music has finally found its rightful place in the vast map of psychoanalytic science. Many metapsychological categories first elaborated by Freud appear now, retrospectively, as limited on the one hand to the iconic and linguistic dimension, on the other to specifically pathological situations and finally, from the musical point of view, to the "new music", testimony of the world in “era of the technique” and subject of the masterly analysis by Theodor Adorno.

     


  1. Un inconscio sonoro?

Sigmund Freud ha costantemente mostrato, come uomo di mondo e come scienziato dell’anima, una marcata predilezione estetica e scientifica per l’immagine e la parola: ho compreso a mio modo – afferma il padre della psicoanalisi – «specialmente la letteratura e le arti plastiche, più raramente la pittura», mentre «[n]el caso in cui ciò non mi riesce, come per esempio per la musica, sono quasi incapace di godimento»[1]. E così, quasi per democratica specularità (ma quale piano qui rifletterebbe, quale influenzerebbe altro?), l’Inc finisce per risultare saturo di immagini, mentre la coscienza fa tutt’uno con il linguaggio.

Molti sono le ragioni di questa “sordità congenita” della psicoanalisi classica, un deficit che solo a fatica il movimento psicoanalitico si è lasciato alle spalle, fino a riconoscere che la psicoanalisi ha eccessivamente e impropriamente insistito sui diritti di Narciso a discapito di quelli di Eco[2]. Il maggiore ostacolo consiste però nel fatto che la musica è un’arte totalmente temporale, come la coscienza, laddove i processi dell’Inc, secondo un’incrollabile convinzione freudiana, sarebbero atemporali, quasi come una statua immersa in un’atmosfera di eternità imperturbabile.

I processi del sistema Inc sono atemporali, e cioè non sono ordinati temporalmente, non sono alterati dal trascorrere del tempo, non hanno, insomma, alcun rapporto col tempo. Anche la relazione temporale è legata al lavoro del sistema C[3].

 

La musica, inoltre, non si assoggetta particolarmente bene ai presupposti della metapsicologia freudiana. Essa è l’unica facoltà non alterata dall’ambiente onirico. A differenza degli elementi visivi, nel sogno non si frammenta in un caos incoerente né decade rapidamente al risveglio. Nei sogni è «costantemente normale», ed è inoltre immune dai mascheramenti degli altri elementi onirici[4]. Del resto, le parole della veglia sono fino a un certo punto in grado di parafrasare un’immagine o altre parole del sogno; una melodia non può invece essere parafrasata.

Condensazione e spostamento, come sappiamo, sono i cardini della logica onirica. Tuttavia solo il verbale e l’iconico possono essere sottoposti a condensazione, ma certo non una melodia. Quale assurdità logica sarebbe mai “sintetizzare una melodia” o “schematizzarla”? E per quanto riguarda lo spostamento, un trasferimento inconscio d’intensità tra diversi elementi è impossibile nella musica, unica arte la cui stessa natura è di presentare in carne e ossa, ossia fenomenizzare, anche le transizioni tra diverse situazione emotive, senza bisogno di ipotizzarle, ricostruirle a posteriori o postularle ad hoc.

Certamente la musica sembra un linguaggio narcisistico, e ciò si rispecchia nel riverberarsi reciproco dei suoi significanti: un suono musicale pare potersi trascendere solo verso un altro suono musicale, mai rimandare ad altro. Ciononostante si tratta soprattutto di un’apparenza, di patologia o di certa cattiva mitologia romantica. Di fatto la musica, ad esempio nel cantare insieme, veicola una socializzazione difforme dal carattere individualistico-egoistico dell’Inc[5], e quando gli uomini vivono in condizioni di difficoltà, fanno musica[6].

Eppure, nonostante questi aspetti discordanti, la musica ne condivide con l’Inc uno davvero capitale: entrambi non conoscono il “non”. Come una frase musicale non può negarne o contraddirne un’altra, così moti pulsionali dell’Inc esistono gli uni accanto agli altri senza sopprimersi e contraddirsi. Mete incompatibili tendono a formare non contraddizioni, ma compromessi.

In questo sistema non esiste la negazione, né il dubbio, né livelli diversi di certezza. Tutto ciò viene introdotto solo dal lavoro della censura fra l’Inc e il Prec. La negazione è solo un sostituto della rimozione a un più alto livello. Nell’Inc ci sono solo contenuti forniti di un investimento più o meno forte[7].

 

Come nel processo primario dell’Inc si sovrappongono molteplici linee pulsionali e rappresentazionali, anche contraddittorie, lo stesso accade naturalmente con le “voci” musicali, mentre ciò non sarebbe concepibile, condurrebbe anzi al caos, nel caso del linguaggio verbale concettuale, e anche delle immagini che ne costituiscono la preistoria. Le emozioni si stratificano e convivono come possono fare i suoni, non le parole o le icone. Per questo il linguaggio dell’analisi è poco titolato a parlare di altro che non siano icone e parole, e non riesce a rinvenire nel sogno e nell’inconscio, da esso quasi trasformati in qualcosa di «pre-concettuale»[8], la presenza del suono musicale, che per natura non gli è affine.

 

  1. Tra ripetizione e variazione

Meglio dunque non forzare il fenomeno musicale nell’inconscio, ma lasciare che sia proprio la musica a suggerirci un principio di metodo per ripensare più criticamente l’Inc freudiano. Osserviamo dunque il principio di piacere da una doppia angolatura: il punto di vista “ortodosso” della coazione a ripetere propria di tutte le pulsioni, e dall’altro lato il suono nei suoi caratteri teleologici e “ripetitivi” (ritmo, prosodia, simmetrie). Ancora una volta, per quanto sembri strano, Freud ha completamente ignorato quest’aspetto, tutto preso dal suo modello iconico-verbale.

Ciò è strano innanzitutto perché risalta che la musica, per sostenersi, ha strutturalmente bisogno della ripetizione, non potendo godere della permanenza temporale né del significante (come le arti plastiche) né del significato (come la poesia). Ma anche le pulsioni, afferma Freud, incontrano una coazione a ripetere, in ragione dell’eterna mancanza di appagamento della pulsione erotica e dell’eterna ricerca di uniformazione della pulsione di morte.

Questo però, piuttosto che fornire un punto di incontro banale tra le due esperienze, ci induce appunto a ripensare criticamente il concetto stesso di coazione a ripetere.

Freud, infatti, non ha visto che la ripetizione, se non è patologica, implica sempre un margine di variazione all’interno della conservazione: anche per il semplice fatto di essere ripetuto una seconda volta, un pattern non è già più lo stesso della prima volta, e ciò è tanto vero fin dalle prime esperienze infantili, quanto lo è nel caso della ripetizione di temi musicali. Stern ha esplicitamente parlato a questo proposito di «tema con variazioni»[9]. La ripetizione, nelle prime esperienze infantili come in musica, non è mai disgiunta (se non in casi aberranti) da novità temporali e intensificazioni. Il mito di Eco e Narciso mostra infatti con precisione stupefacente che se lo “specchio” (prima quello sonoro di Eco, poi quello visivo di Narciso) rinviasse ossessivamente al soggetto solo e mai nient’altro che se stesso, il risultato sarebbe disunire le pulsioni di morte da quelle di vita e assicurare loro il primato[10]. Per fornirne subito un riscontro musicale, la vera realizzazione di una coazione a ripetere patologica, in senso “ortodosso”, si ha ad esempio con la razionalizzazione totale della scuola post-weberniana, che fa del suono una raffigurazione spaziale, un diagramma, una fissità iconica (proprio nel senso della preferenza estetica freudiana?), una paralisi che non evolve né si auto-arricchisce più nel tempo[11]: qualcosa, in ogni caso, che sta alla fine di una lunga storia, non all’inizio di una breve vita. Ed è curioso che nulla sembri più “ripetitivo” all’ascolto, meno dotato del senso della novità di quella musica in cui proprio la serialità assoluta ha intellettualmente abolito la ripetizione di un elemento prima che siano enunciati tutti gli altri. Il rivale mimetico del serialismo, ovvero il minimalismo musicale post-moderno, non si dimostra poi maggiormente dialettico del suo apparente avversario: dove la ripetizione diviene semplicemente – non dialetticamente – la stessa cosa della variazione non c’è più “nulla da aspettarsi”, il “progresso” risulta puramente incrementale, non tematico, cosicché indifferentemente tutto scorre e tutto sta fermo. Il principio di realtà non si guadagna ma al contrario, secondo le conclamate intenzioni della scuola, evapora completamente nello stordimento, nel sogno e nella trance. Al massimo, in luogo di un’“angoscia noiosa” subentrerà una “noia angosciosa”.

Nell’originaria reiterazione ritmico-melodica si ha al contrario progresso e sviluppo, nel senso di apprendimento del controllo dell’assenza (della madre come oggetto desiderato) mediante alternanza di presenze e assenze e anticipazione della risposta. La voce materna non è ancora completamente voce esterna dell’Altro, nel senso del rigido dogma lacaniano, e per questo, mentre sostiene la relazione con l’altro, comincia a formare anche l’identità-durata del Sé. Il legame si potenzia attraverso la musica, nel canto e nella nenia. La figura inconscia dell’eco prodotta dalla voce materna è il primo contenuto significante dell’«involucro sonoro del Sé» in un’esperienza che dura[12]. Freud non valorizza la ripetizione(/variazione) in musica, né si rende conto che in generale la coazione a ripetere, col suo margine d’incertezza irriducibile sull’a-venire, genera un embrione di tempo e la sua direzionalità anche nell’Inc. Superato un certo limite, però, la variazione distrugge l’effetto della ripetizione, instaurando la perdita e il caos. Oltre comincia l’angoscia e l’ingiunzione di un ritorno alla ripetizione[13], che lasciata a sé sola ricadrebbe però in una noia non meno angosciosa. La meccanica di tensione/distensione crea una temporalità originaria affettiva e uditiva, tesa fra noia e angoscia, ma come tutto ciò che procede verso una conclusione e risoluzione prepara anche gradualmente, sullo sfondo, esattamente come un fenomeno transizionale, l’esperienza della perdita e del lutto.

 

 

 

  1. Filastrocche e ninnenanne

Il piacere del bambino nell’essere cullato dalla madre, udendo filastrocche e ninnenanne, impone di non ridurre la madre a semplice oggetto di “consumazione” alimentare ed “erogazione” di prestazioni fisiologiche. Il “piacere” del principio di piacere, come comincia a delinearsi già in Melanie Klein, non è solo consumazione, ma anche comunicazione con l’Altro (la madre, in specifico) e instaurazione di un legame simbiotico, scandito temporalmente. Infatti, vera fusione simbiotica non può aversi solo aderendo a una identificazione tautologica senza tempo, ma richiede di svolgersi superando la frammentarietà dell’istante.

Dietro il non-senso esplicito della filastrocca c’è infatti un senso declinato in specularità fonica (es. rima) e regolarità ritmica che, mentre parla in questo mondo, parla di un altro mondo «originario»[14]. Di quale mondo si tratta?

Ritmo e intonazione sono già oggetto di sensibilità prelinguistica: il feto reagisce al battito cardiaco e alla voce materna che si stagliano sul rumore come struttura primaria. Del resto l’orecchio, per la sua ricettività incondizionata, è fin da subito il senso più esposto alle perturbazioni mondane dell’omeostasi in forma di aggressioni acustiche[15], e necessita dunque di un principio organizzatore che le neutralizzi, cosicché sempre in seguito la nostra immaginazione aderirà quasi vischiosamente a ritmo e melodia, mai a caos e rumore[16]. Lo “stile uditivo” permette infatti di mantenere il contatto con qualcuno anche non spazialmente presente, e il relativo margine d’imprecisione rispetto alla vista è compensato dal suo legame, destinato a diventare strutturale, con l’immaginazione[17].

L’organizzazione dell’universo sonoro comincia addirittura al quinto mese di gravidanza, presupponendo dunque una forma di successione/sviluppo temporale già in utero, dove per Freud si supporrebbe esserci assoluta fissità. Al settimo i neonati sarebbero in grado di memorizzare a proprio modo una frase musicale[18]. L’esposizione prenatale a stimoli acustici ha conseguenze strutturali e funzionali sul sistema uditivo, che viene sintonizzato sulla madre. La voce è percepita ed è efficace solo in una relazione simbiotica di scambio pre e post-natale, che è fin dall’inizio sonora e affettiva, umana. L’effetto che se ne ottiene è di «incantamento»: il neonato prediligerà poi il rispecchiarsi del suono prenatale in quello postnatale, e il suo passaggio dall’agitazione alla quiete mostra il significato magico-onirico di ritorno al paradiso perduto prospettato dalla musica della voce materna[19].

Ma solo la musica può fare questo in modo assolutamente privilegiato, come mondo totalmente altro. Gli altri linguaggi (figurazione, verbalizzazione) sono sempre attratti dall’intenzionalità su questo mondo. La musica pertanto è senza significato e apparentemente autoreferenziale e narcisistica solo in quanto punta a un “archi-significato”, senza cui tutti gli altri significati sarebbero insignificanti[20]. Il suo significato è semplicemente non mondano. Esso non rinviene una realtà, ma si inserisce in un processo onirico: come Orfeo, il neonato non può portare la madre (simbolizzata da Euridice) con sé, tuttavia il suono gli permette di recuperare, significandolo, ciò che sta al posto dell’unità originaria perduta[21].

 

  1. Transizione musicale

Musica, dunque, come oggetto o dimensione transizionale. Il bambino, com’è noto, non può passare da principio di piacere a principio di realtà senza una «madre sufficientemente buona»[22] che ne favorisca un adattamento attivo e progressivo, educandolo per gradi a tollerare l’assenza dell’oggetto amato e l’autonomia del mondo. L’uomo non conosce contatto diretto con il reale. È la bontà del partner a consolidare la realtà delle cose, e il processo passa transitoriamente per l’illusione. “In-ludo” in senso etimologico e anche concettuale non è l’opposto della realtà se non per equivoco. I bambini giocano sul serio, l’illusione conduce alla realtà ed entrambe, insieme, sono l’opposto dell’allucinazione. Per portare nuovamente un controesempio musicale, il farsi direttamente choc sonoro dei moti inconsci dell’anima nello Schönberg espressionista[23], abolendo nella stimolazione immediata il “fenomeno transizionale” dell’arte musicale e della sua tradizione formale, realizza un mondo sensibilmente allucinatorio, che toglie l’accesso alla realtà vera e propria.

Il fenomeno transizionale costruisce per Winnicott un’area neutra di fiducia, un “mondo” inattaccabile dal dubbio. Ma anche la musica non costituisce forse, per eccellenza, un mondo inattaccabile dal dubbio?

La musica moderna, però, rappresenta l’eccezione a questi presupposti, anzi la loro corrosione. Essa non manifesta nelle sue forme artistiche solo la lacerazione dell’anima moderna che, dal punto di vista psicoanalitico, “ripete” come sintomo, come nello sforzo per padroneggiarla e liberarsene. Essa incarna anche il carattere faustiano, disumano, la potenza della tecnica moderna nella sua volontà di dominio assoluto sul proprio materiale sonoro e sulla sua organizzazione[24]. Per questo non potrà mai, con i propri mezzi, mediare un ritorno a un mondo reale e conciliato[25]. Il dissolversi delle mediazioni, la diretta messa a contatto e il paradossale rispecchiamento reciproco di stimoli elementari (nella forma di chocs psicofisici) e iper-razionalità nell’organizzazione del materiale (primitivismo e iper-intellettualismo), non passando più evolutivamente per nessun oggetto o nessuna fase transizionale, non possono che trovare in musica una sintesi paradossale nella dissonanza[26]. La dissonanza generalizzata edifica un mondo dove domina il male, straniato, allucinatorio, che non potrà mai consolidarsi in o mediare un mondo “reale”.

 

  1. Psicoanalisi e tipologia degli stili

Alcuni concetti fondamentali della psicoanalisi kleiniana possono a questo punto riassumere il discorso e chiarire meglio il rapporto tra la musica classico/romantica e quella che Adorno ha chiamato «nuova musica». Si devono agli studi di Michel Imberty – studioso di non esclusiva formazione psicoanalitica – alcune ispirazioni fondamentali di queste riflessioni

Il punto fondamentale è che inizialmente la madre, per Klein, è uguale alla totalità del mondo esterno. Il bambino non vi cerca solo nutrimento e assolvimento di compiti fisiologici, ma comprensione[27]. L’Io si sviluppa in gran parte intorno a questo primo e vantaggioso oggetto-mondo, base di ulteriori identificazioni vantaggiose[28]. Esso è il risultato della prima posizione psichica riconosciuta dall’autrice nell’evoluzione del bambino, quella schizo-paranoide, che scinde la realtà degli oggetti in due parti (“buona” e “cattiva”), identifica quella buona con sé e proietta la parte buona di sé sull’oggetto, mentre sulla parte cattiva dell’oggetto viene proiettata, per disconoscerla e liberarsene, la parte cattiva di sé, e viceversa. La madre che si allontana, che nega il seno, che in generale non risponde è la madre “cattiva”, che suscita nel bambino angoscia persecutoria e pulsioni aggressive, a propria volta scisse dal sé e riproiettate sulla madre in forma di “aggressione dell’aggressore”.

Il gioco verbale (“baby-talk”) e il canto madre-bambino sono aspetti culminanti della responsività, sono fenomeni transizionali, ma elaborano anche in forma complessa la temporalità. Con ciò preparano il passaggio dalla posizione schizo-paranoide a quella depressiva, “adulta”, che deve fare i conti con il senso della perdita e accettarlo. La posizione depressiva accetta dunque ed elabora la possibilità dell’assenza e dell’indipendenza dell’oggetto amato, nonché la inevitabile compresenza in esso di bene e di male, e lo stesso fa nell’io. La posizione depressiva si guadagna progressivamente mediante una riduzione delle scissioni, ed è una transizione favorita da un ambiente circostante “buono”. La melodia, fatta di suono e silenzio, di ritmo composto di arsi e tesi, di consonanze e dissonanze, di domanda e risposta tra i temi incarna esemplarmente l’elaborarsi di questa transizione che conduce, passo dopo passo, all’accettazione della realtà nel suo carattere composito e contraddittorio, tanto nel mondo esterno quanto nell’Io. Se però questo ambiente favorevole manca, e il contesto è freddo e ostile, il bambino non riesce a svolgere questo compito cruciale e ricade nelle forme schizo-paranoidi, dominate da continue scissioni e proiezioni, che condizioneranno la sua esistenza adulta.

Ora, se «l’Io primitivo manca di coerenza»[29], dobbiamo rilevare che lo stesso tocca all’Io alla “fine della storia”, nell’epoca della tecnica. Se la madre per il bambino era il mondo, è ora la tecnica a essersi sostituita socialmente e archetipicamente alla mediazione materna nell’identificazione totale col mondo. Ma questa mediazione è un controsenso e non può riuscire: la tecnica non può condurre alla maturità della posizione depressiva semplicemente perché essa stessa è per natura schizo-paranoide. Da un lato vuole dominare il tempo vissuto e annullarne gli effetti di perdita, producendo, nel senso esattamente colto da Heidegger, un oblio dell’«essere-per-la-morte» al fine di totalizzare il piacere; dall’altro fornisce piacere rescindendo sistematicamente tutti i legami (temporali, mondani, relazionali) tra gli individui, e trasformando così l’Io in un caos dis-integrato di scissioni e proiezioni, e il mondo non più in una «madre sufficientemente buona», ma in un partner sempre più ostile.

Queste categorie consentono fra l’altro a Imberty di leggere in profondità, in senso tipologico, alcune epoche e alcuni stili musicali.

Il romanticismo accetta l’ambivalenza suddetta del tempo, e sopporta la contraddizione della situazione sonora. Il gioco sonoro, dominato dal principio di piacere, nella fiducia che vi sarà sempre una corrispondenza tra le sue parti protegge al suo interno l’ascoltatore dall’incursione della morte, come la ninnananna materna ne protegge il figlio, ma contemporaneamente è tempo, e come tale va verso un’autentica conclusione. Esso integra quindi in sé la remota consapevolezza della morte con il piacere dell’illusione (posizione depressiva). La musica classico/romantica è tecnicamente illusoria, cioè “conduce in un gioco”.

La contemporaneità – a partire, per largo consenso degli studiosi, da Debussy – regredisce invece passo dopo passo a una posizione schizo-paranoide, rifiutando quest’ambivalenza del tempo e quindi l’orizzonte della morte. Debussy rappresenta la prima crisi nel concetto di sviluppo musicale. I suoi melismi sono momenti appagati della propria felicità isolata, senza premesse e senza conseguenze, quasi “irresponsabili”. In lui tornano solo gli «istanti buoni», colmi d’iperattività vitale, mentre sono negati gli «istanti cattivi», che lasciano trasparire la disintegrazione dell’Io e l’angoscia della morte. Persino i suoi finali non sono mai conclusioni, ma semplici arresti[30], mentre gli accordi di settima e nona vengo defunzionalizzati, spogliati del loro carattere transitorio di dominante e goduti isolatamente in se stessi, come fonti di piacere autonomo[31]. Ma in Debussy troviamo anche momenti di furia brutale, strappi, momenti di aggressività quasi disperata, legati all’irruzione del «caso», cioè del tempo non integrato[32]. Quando l’istante prevale sulla durata, si ha una liberazione delle pulsioni di morte, che – come indicato da Anzieu – prevalgono su quelle di vita. La musica perde così coesione e direzione, restringendosi a un presente senza passato e avvenire[33].

È quindi in Schönberg che viene distrutta la sintassi come grande forma e continuità del tempo. La musica dodecafonico-seriale è tecnicamente allucinatoria. In essa, il costante vincolo alla negazione determinata[34], l’elusione programmatica di ogni momento di risoluzione armonico/melodica – riflesso del cronico stato d’incertezza di sé e delle proprie risoluzioni della psiche moderna abbandonata a se stessa dal mondo tecnicamente organizzato[35] – impedisce la interiorizzazione di un alter-ego buono che conduca l’io oltre se stesso, verso il mondo[36].

Ciò che è assolutamente notevole della tecnica dodecafonico-seriale è infatti questo: che quanto più la successione da un suono all’altro e la loro sovrapposizione in accordi segue una logica stringente, matematica, e si avvicina alla calcolabilità e prevedibilità totale sul piano dell’intelletto, tanto meno i suoni appaiono legati e consequenziali sul piano dell’ascolto sensibile. L’udito corporeo è sempre meno in grado di cogliere la logica della concatenazione, non emerge più il senso di attesa nel gioco di conservazione/variazione intrinseco all’esperienza musicale, e in luogo dello sviluppo si percepisce la semplice successione, che in quanto tale, priva di teleologia, non sembra però “avanzare” di un passo. Ne nasce un universo allo stesso tempo fisso e mobile, un’agitazione nell’assenza totale di evoluzione[37]. Ma proprio nella “freddezza” matematizzante della nuova musica, che intende essere dispersione difensiva dell’angoscia e, secondo la bella espressione di Klein, «interruzione delle emozioni», ritornano (come un «ritorno del rimosso») il caos e il sentimento primordiale di angoscia che lo accompagna. Quando la voce materna si spezza e non protegge più, l’involucro sonoro del Sé, come indicato da Anzieu, torna a riempirsi di rumori e grida terrificanti.

 


[1] S. Freud, Il Mosè di Michelangelo (1914), tr. it. in Opere, 12 voll., Boringhieri, Torino 1967-1979, vol. VII, p. 299.

[2] Cfr. Ph. Lacoue-Labarthe, La melodia ossessiva. Psicoanalisi e musica (1979), tr. it. Feltrinelli, Milano 1980, p. 16.

[3] S. Freud, L’inconscio (1915), tr. it. in Opere, cit., vol. VIII, p. 73.

[4] O. Sacks, Musicofilia. Racconti sulla musica e il cervello (20092), tr. it. Adelphi, Milano 2010, pp. 357-359.

[5] O. Sacks, op. cit., p. 532.

[6] S. Mithen, Il canto degli antenati. Le origini della musica, del linguaggio, della mente e del corpo (2005), tr. it. Codice, Torino 2007, pp. 276-277.

[7] S. Freud, L’inconscio, cit. p. 70.

[8] A. Michel, Psychanalyse de la musique, PUF, Paris 1951, p. 209.

[9] D.N. Stern, Il mondo interpersonale del bambino (1985), tr. it. Boringhieri, Torino 1987, p. 148.

[10] D. Anzieu, L’enveloppe sonore du soi, in «Nouvelle Revue de Psychanalyse», 13, 1976, p. 175.

[11] Th.W. Adorno, Dissonanze (19582), tr. it. Feltrinelli, Milano 19793, p. 167.

[12] Cfr. D. Anzieu, op. cit.; e M. Imberty, La musica e l’inconscio, tr. it. in J.J. Nattiez (ed.), Enciclopedia della musica, Einaudi, Torino, vol. IX, 2002, p. 341.

[13] Ibid., p. 337.

[14] F. Fornari, Psicoanalisi della musica, Longanesi, Milano 1984, pp. 9-11.

[15] H. Kohut, S. Levarie, On the Enjoyment of Listening to Music (1950), in S. Feder, R.L. Karmel, G.H. Pollock, Psychoanalytic Explorations in Music, International University Press, Madison 1990, pp. 5-6.

[16] F. Fornari, op. cit., p. 12.

[17] Cfr. S. Nass, Some Considerations of a Psychoanalytic Interpretation of Music (1971) in S. Feder, R.L. Karmel, G.H. Pollock, Psychoanalytic Explorations in Music, cit., p. 44.

[18] M. Imberty, La musica e il bambino, tr. it. in J.J. Nattiez, op. cit., pp. 477-478.

[19] F. Fornari, op. cit., pp. 13-14. Obbligato, per molti degli aspetti qui sommariamente elencati, anche il riferimento all’opera complessiva di A. Tomatis, a partire da Id, L’oreille et le langage, Éd. Du Seuil, Paris 1963.

[20] F. Fornari, op. cit., p. 22.

[21] Ibid., p. 42.

[22] D.W. Winnicott, Gioco e realtà (1971), tr. it. Armando, Roma 2006, p. 32.

[23] Th.W. Adorno, Filosofia della musica moderna (1949), Einaudi, Torino 2002, pp. 43-44, p. 47.

[24] Ibid., p. 83.

[25] Ibid., pp. 23-25, p. 206.

[26] Ibid., p. 62.

[27] M. Klein, Il nostro mondo adulto ed altri saggi (1962), Martinelli, Firenze 1972, p. 10.

[28] Ibid., p. 15.

[29] Ibid., p. 17.

[30] M. Imberty, La musica e l’inconscio, cit., p. 351.

[31] A. Michel, op. cit., p. 107.

[32] M. Imberty, La musica e l’inconscio, cit., p. 351.

[33] Ibid., pp. 344-345.

[34] Th.W. Adorno, Filosofia della musica moderna, cit., p. 25.

[35] A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica (1957), Sugarco, Milano 1984, pp. 87-88.

[36] Cfr. in generale A. Gualandi, L’occhio, la mano e la voce. Una teoria comunicativa dell’esperienza umana, Mimesis, Milano 2013.

[37] M. Imberty, La musica e l’inconscio, cit., p. 353.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *