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Abstract
The aim of this essay is to show the changes that occur in 20th Century, especially regarding to the categories of space and time. Thomas Mann's masterpiece Der Zauberberg includes all biggest issues running through this period. Above all the novel shows a new way to describe time and space: time is no more linear, the one of work and production, but it looks like pure duration; space is that of liability of the body and its needs.
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Il tempo della crisi
Si potrebbe sostenere che tra le parole che formano la tessitura e la trama di un’epoca, quelle di vita ed esistenza rappresentino, sebbene da prospettive divergenti, le chiavi per interpretare il Novecento, dal punto di vista filosofico, scientifico, e perché no, estetico[1]. Nel loro contrapporsi, volendo sondare entrambe il mistero dell’essere, esse sono emblema della crisi che attraversa il pensiero del ventesimo secolo, alla ricerca di una parola redentrice, di un punto fermo, che dia ragione e senso all’abitare dell’uomo nel mondo.
In questo caso la parola crisi va intesa non solo nel senso attribuitole dall’uso comune, come espressione dello stato di incertezza e instabilità politica, culturale e scientifica che investe l’Europa di quegli anni, ma soprattutto nel suo significato etimologico: χρίσις indica la forza distintiva, la scelta, da cui quasi sempre consegue una trasformazione.
A esserne investita è in prima istanza la filosofia: il progresso nell’ambito delle scienze specialistiche provoca la sua erosione come dottrina universale, posta a fondamento e garanzia dello sviluppo di altre discipline. Essa non sembra più in grado di fornire risposte esaustive e convincenti circa l’essere e il dover essere. Lo smantellamento dei grandi sistemi metafisici e l’emergere di correnti del pensiero irrazionalistiche, costituiscono il punto di partenza per la costruzione di nuovi paradigmi.
Si incrinano i concetti, o meglio gli a priori interpretativi che per secoli hanno dato forma e struttura alla nostra civiltà, fondandone le premesse; entra in crisi il concetto di Ragione, organo e strumento delle Magnifiche sorti e progressive, ragione calcolante che organizza e dà ordine al caos attraverso leggi di causa-effetto. L’organo della chiarezza, della comprensibilità, che rende nitido e trasparente tutto ciò su cui si posa, appare inetto a spiegare una serie di fenomeni che sembrano sfuggire alla stretta concatenazione causale.
In maniere diverse Nietzsche e Freud provvederanno a sgretolare l’autorità del soggetto inteso come autocoscienza, ossia la lunga e inossidabile eredità cartesiana, la coscienza intesa come garante della totalità dell’ente[2]. Se per Nietzsche la coscienza è l’ultimo e dunque il più depotenziato sviluppo dell’organico, se la sua un’indagine è volta alla decostruzione del soggetto, da una prospettiva differente Freud contribuisce a quest’opera di demolizione: la scoperta dell’inconscio[3] mina le fondamenta dell’integrità della persona: la res cogitans non è più quell’unità indivisa, sede del pensiero razionale e dell’ordo mundis, bensì un coacervo di tensioni contrapposte, di cui l’elemento razionale cosciente costituisce soltanto una porzione. Buona parte della vita umana si svolge “sotto-soglia”, trascinata da una serie di pulsioni, che influenzano la nostra condotta senza neppure essere riconosciute. L’inconscio è il novello genio maligno che dirige i vissuti individuali in base a leggi di gran lunga meno limpide di quelle imposte dalla tracotante ragione.
La crisi investe dunque l’uomo come animal rationale, animale cogitante e autocosciente, insinua il dubbio circa la sua essenza, la sua capacità di comprendere, chiarire e ordinare il mondo; la sua capacità soprattutto di donargli senso. Le parole allora sembrano non essere più lo specchio di una realtà immobile e immutabile, esse sono appesantite della loro storia materiale, costrette a inseguire il movimento della vita, lo spessore della storia e il disordine, difficile da dominare, della natura[4].
Nel 1927 Martin Heidegger tenta di elaborare un’ontologia a partire dall’analisi dell’esistenza. Essa si configura già da sempre come possibilità, è lo stare all’aperto nella radura che è mondo. L’esistenza ci conduce entro le regioni del trascendimento, indica l’affrancamento dalla necessità, dal brutale cerchio della legge naturale, indica l’entrata nella storia e il dominio della libertà. L’esserci, dirà Heidegger, è sempre essere nel mondo, abita nella casa del linguaggio, e a partire da questa privilegiata dimora costruisce il senso.
Il Novecento sembra configurarsi allora come rinnovata riflessione sulle due principali categorie metafisiche che attraversano il pensiero occidentale: lo spazio e il tempo: la fisica di Einstein, la filosofia della vita di Bergson, la fenomenologia di Husserl e poi l’ontologia Heideggeriana, l’arte, la letteratura, con l’instancabile flusso della coscienza proustiana e infine con le fresche cogitationes di Hans Castorp dall’alto di una terrazza affacciata sui monti. Il tempo è matrice dell’esistenza, della gettatezza di un esserci che riconosce se stesso a partire dalla propria finitudine. Ma esiste un luogo, vero e proprio campo di battaglia, all’interno del quale l’esistenza, riconoscendo se stessa come finita, fragile e caduca, trapassa nella categoria di vita, e si presenta priva di orpelli, senza prosopopee, scabra ed essenziale, in una nudità continuamente prossima allo scacco: questo luogo è il corpo. Qui il tempo si incarna, si fa spazio, e tuttavia questa spazialità nulla ha a che fare con l’estensione muta descritta da Cartesio, estensione meccanica e priva di dolore, che accomuna il corpo automa alle medesime leggi deterministiche che regolano il mondo naturale. Qui lo spazio appare come ferita, grida per un verso la propria passività e per l’altro la propria originaria e più autentica capacità di appropriazione del mondo, un’appropriazione che viene prima del logos, prima della parola chiarificatrice, prima della violenza del concetto, che, mattone dopo mattone, erige il tracotante edificio al cui vertice è posto l’uomo.
Henri Bergson afferma: «È tuttavia incontestabile che la conoscenza punta in una direzione ben definita quando dispone il suo oggetto in vista della misura, mentre marcia in una direzione diversa, e persino inversa, quando si libera da ogni preoccupazione di relazione e di confronto, per simpatizzare con la realtà […] Nel primo caso si ha a che fare con il tempo spazializzato e con lo spazio; nel secondo con la durata reale»[5]. Bergson definisce scientifico il primo tipo di conoscenza, metafisico il secondo. La conoscenza scientifica procede attraverso l’“analisi” che tende a ricondurre l’oggetto studiato a elementi già conosciuti, l’ignoto nella regione del già noto, sulla base di un criterio di somiglianza, di condivisione di aspetti comuni. «Analizzare consiste, dunque, nell’esprimere una cosa in funzione di ciò che essa non è. Sicché ogni analisi è una traduzione, uno sviluppo in simboli, una rappresentazione fatta da punti di vista successivi […] L’analisi moltiplica senza fine i punti di vista, per completare una rappresentazione sempre incompleta […] Per questo prosegue all’infinito»[6]. La conoscenza metafisica si avvale al contrario dell’ «intuizione che riesce a cogliere, attraverso un’immedesimazione per simpatia, l’oggetto, in ciò che esso ha di unico e perciò di inesprimibile. L’intuizione, a differenza dell’analisi, è un atto semplice»[7].
- Da una locomotiva
Negli stessi anni in cui in Germania alcuni esponenti dell’antropologia filosofica sono impegnati in una riflessione inedita sull’umano, tesa a descriverlo nell’integralità della sua costituzione bio-psico-fisica[8], esce un capolavoro che per molti versi, scardinando una serie di topoi della letteratura, si innesta perfettamente all’interno del dibattito filosofico sull’anthropos: si tratta de La montagna incantata di Thomas Mann, apparso nel 1924.
Hans Castorp, figliolo di famiglia, avvezzo alle delicatezze della vita è agli esordi di quella che si prevede una brillante carriera nella ditta navale Tunder & Wilms; vestito di tutto punto secondo la moda dell’epoca, con un’elegante valigetta di coccodrillo, si muove dall’affaccendata e laboriosa Amburgo alla volta delle montagne, nella tranquilla Davos, in visita per tre settimane nel sanatorio che ospita il cugino.
Ci sembra di vederlo questo giovane distinto e raffinato guardare il paesaggio stagliarsi al di fuori del finestrino aperto del treno. Assistiamo silenziosi alle metamorfosi che contemporaneamente attraversano il paesaggio esterno e quello interiore del protagonista, trasfigurazioni silenziose dello spazio e del tempo. Il brulicare operoso degli esseri umani, le voci indaffarate e i passi svelti degli uomini d’affari, la fretta ottimistica dell’accumulazione del capitale, cedono il posto al silenzio di spazi più aspri e remoti, alla lentezza dell’incedere della locomotiva, mentre si inerpica su altezze insolite. Nel contempo sembra mutare anche il profilo di questo giovane di belle speranze, che non ha ancora salde radici nella vita: la distanza che la lenta locomotiva interpone tra il giovane e la sua cittadina, che è distanza dal quotidiano, dagli spazi domestici e addomesticati di un’esistenza scandita dai ritmi abitudinari della produzione e del lavoro, diventa matrice di un nuovo inizio. Per una bizzarra alchimia, lo spazio sembra assumere il medesimo potere del tempo:
Di ora in ora esso dà origine a interni mutamenti, molto somiglianti a quelli generati dal tempo ma che in certo qual modo li sorpassano. Come quest’ultimo, genera dimenticanza, ma lo fa sciogliendo la personalità dell’individuo dai suoi rapporti e ponendolo così in una situazione libera ed iniziale[9].
Assieme all’aria, va rarefacendosi la stessa consistenza personale del protagonista, l’ordine meticoloso dei suoi giorni, le sue certezze, i suoi affanni, le sue preoccupazioni quotidiane; non c’è rimedio al sortilegio degli spazi, che trasformano persino il pedante e grasso borghese in un vagabondo.
Lo spazio del viaggio, dimensione sospesa fra l’affollato domestico e un ignoto in attesa sulle alture, questo non luogo del peregrinare, agisce su Hans alla maniera del sortilegio, e mescola stati d’animo contrapposti: il timore si accompagna al desiderio di giungere presto alla meta, poiché, il giovane ne è convinto, una volta giunti, a prescindere dalle altitudini, si sarebbe vissuti là come altrove e la routine quotidiana avrebbe steso il suo manto rassicurante sul dipanarsi dei giorni.
- Investigazioni
E tuttavia così non accade: l’esistenza borghese di Hans Castorp, a contatto col mondo isolato e inedito della malattia, sembra scivolare silenziosamente in quella dimensione più originaria e passiva che è la vita. Così come ad Amburgo, anche nel sanatorio di Davos vigono una serie di regole e abitudini che scandiscono come una consolante certezza l’incedere quotidiano; e tuttavia si tratta di abitudini tutt’affatto diverse: la ragione calcolante impegnata con zelo a costruire il mondo, viene superata e messa in disparte da esigenze che sembrano essere più pressanti, quelle del corpo e della sua grande ragione.
Secondo Peter Sloterdijk l’epopea dell’antropomorfizzazione può essere definita come il dramma silenzioso della creazione di spazi[10].
L’umano sembra stagliarsi dal muto orizzonte dell’animalitas, a partire da una rinnovata spazialità: emerge nella luminosità abbagliante della Lichtung quando erige la schiena e il volto verso l’alto. Il raggiungimento della posizione eretta è emblema di una nuova posizionalità, eccentrica[11] rispetto al resto dell’ente, di un’eccentricità che lo pone al vertice della scala gerarchica naturale.
Ma sulla montagna incantata di Hans, anche questa posizionalità sembra retrocedere, cambia lo spazio e assieme a esso il tempo che si dilata, divenendo pura durata; si tratta di una temporalità governata dai ritmi della carne, dalla sua indolenza, dalla sua passività. Il tempo allora non è più scandito dalle frequenze di un’esistenza indaffarata e performante, ma dai più atavici ritmi della vita, dalle esigenze del corpo: gli orari dei pasti, le visite mediche, i decorsi delle malattie. La malattia, la costrizione a letto, sconvolgono tutti i parametri di quest’esistenza borghese. Simbolo di questo ribaltamento è la cura sulla sdraio, cui tutti gli ospiti del sanatorio sono sottoposti: in posizione supina, avvolti in calde coperte, respirano l’aria salubre e ristoratrice da una terrazza affacciata sui monti. La posizione supina sconvolge improvvisamente le abitudini dell’homo faber, conducendolo a una sorta di regressione. Il tempo lineare, tempo della poiesi e del lavoro, esige la verticalità, la posizione eretta: in posizione supina il tempo si dilata e la vita emerge in tutta la sua forza. Sgravato dal peso della posizione eretta e dagli impegni che essa implica, regredito alla posizione supina, quasi fetale, vicino più all’oscuro retaggio naturale che alla prosopopea dell’homo faber, Hans Castorp in questo tempo senza tempo, ha la possibilità di riflettere sui grandi temi dell’esistenza. Nel capitolo intitolato Investigazioni, emergono tutte le questioni che attanagliano la cultura del tempo:
Che cos'era dunque la vita? Era calore, prodotto calorifico di una inconsistenza che riceveva forma, febbre della materia di cui era accompagnato il processo di continua decomposizione delle molecole d'albumina, molecole di una costituzione complicata e meravigliosa. Era l'esistenza di ciò che non può esistere, di questo bilanciarsi a gran fatica, fatica dolce e dolorosa insieme, sul punto dell'essere, nel processo limitato e febbrile di decomposizione e di rinnovamento. Non era materia e non era spirito. Era qualcosa fra i due, un fenomeno, un portato della materia, simile all'arcobaleno sulla cascata, simile alla fiamma. Ma quantunque non materiale era sensuale fino al piacere ed alla nausea, era la spudoratezza della materia diventata sensibile di per se stessa, era la forma impudica dell'essere. Era un agitarsi segreto e sensibile nel gelo pudico dell'universo, un'impurità voluttuosa e nascosta di assorbimento del nutrimento e di escrezione, un respiro escretorio di acido carbonico e materie putrefatte di origine e di costituzione ignota. Era il lussureggiare reso possibile da un superpareggio della sua instabilità e costretto in leggi congenite di formazione, ero lo svilupparsi e il costituirsi di un turgore fatto di acqua, albumina, sale e grassi che si chiamava carne e diventava forma, nobile immagine, bellezza, ma che nello stesso tempo significava compendio d'ogni sensualità e desiderio. Poiché questa forma e bellezza non era sostenuta dallo spirito come nelle opere poetiche e musicali, e neppure portata da una materia neutrale consunta dallo spirito e imitante in modo ingenuo lo spirito come la forma e la bellezza delle statue. Era invece piuttosto sorretta e formata dalla sostanza della stessa materia organica in perenne distruzione e ricomposizione, dall'aulente carne[12].
Emergono le domande sulla vita, sul corpo, la malattia e la morte.
Riemerge nuovamente la parola vita, parola redentrice, la cui costituzione misteriosa non è dato cogliere. Emerge la polarità materia spirito, e l’impossibilità di descrivere la vita a partire da uno solo dei due termini[13]. Si fa strada il corpo in tutta la sua materialità, insieme di sangue, proteine, molecole d’albumina, come portatore di senso, detentore di una sua verità, che risiede proprio nella sua temporalità, nel suo esistere che continuamente si consuma. Vita e morte si rincorrono senza sosta in quel viluppo di carne, organi, sangue che noi siamo, ed è proprio qui che la bellezza risiede, la bellezza dell’aulente carne.
[1] Si cfr. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo (1928), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2006: «Ogni epoca trova la sua parola redentrice. La terminologia del XVIII secolo culmina nel concetto di Ragione, quella del XIX nel concetto di Evoluzione, l’attuale nel concetto di Vita […] La Ragione mette in risalto ciò che è senza tempo e vincola ogni cosa; l’Evoluzione ciò che diviene e si sviluppa senza sosta; la Vita il gioco demoniaco e la creazione inconsapevole. Eppure tutte le epoche vogliono catturare la stessa cosa, e usano il significato delle parole come un mezzo, se non come uno schermo, per rendere visibile quell’ultima profondità delle cose senza la cui consapevolezza ogni impresa umana rimane priva di uno sfondo e di un senso», p. 27.
[2] Così risuona il requiem di Nietzsche negli scritti risalenti al periodo del “prospettivismo” degli anni ‘80: «La coscienza è l’ultimo e più tardo sviluppo dell’organico e di conseguenza anche il più incompiuto e il più depotenziato. Nella coscienza hanno radice innumerevoli errori che provocano la morte di una bestia o di un uomo prima del tempo necessario […]». E ancora, all’aforisma 354 intitolato Del genio della specie, «[…] Noi potremmo difatti pensare, sentire, volere, rammemorare, potremmo ugualmente “agire” in ogni senso della parola, e ciò nonostante, tutto questo non avrebbe bisogno d’“entrare nella nostra coscienza” […] Essendo l’animale maggiormente in pericolo, ebbe bisogno d’aiuto, di protezione; ebbe bisogno dei suoi simili, dovette esprimere le sue necessità, sapersi rendere comprensibile – e per tutto questo gli fu necessaria, in primo luogo, la “coscienza”, gli fu necessario anche “sapere” come si sentiva, “sapere” quel che pensava», La gaia scienza (1881), tr. it. Adelphi, Milano 1999, p. 63 e pp. 270-271.
[3] Su questo argomento cfr. S. Freud, L’interpretazione dei sogni (1899), e Introduzione alla psicanalisi (1915-17).
[4] M. Foucault, Le parole e le cose (1966), tr. it. Bur, Milano 1998, p. 327.
[5] H. Bergson, Introduzione alla metafisica, tr. it. Laterza, Roma-Bari 1998, p. 41.
[6] Ibid., pp. 45-46.
[7] Ibid., p .46.
[8] Oltre al già citato Plessner, si cfr. M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo (1928), tr. it. Franco Angeli, Milano 2000.
[9] T. Mann, La montagna incantata (1924), tr. it. Edizioni dall’Oglio, Milano 1965, p. 8.
[10] P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere, in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, tr. it. Bompiani, Milano 2004, p. 125.
[11] Cfr. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit.
[12] T. Mann, cit., p. 304.
[13] A tal proposito si cfr. la riflessione di Plessner, che ne I gradi dell’organico, cit., sostiene: «L’uomo “in sé e per sé” non esiste come corpo (se con corpo si intende lo strato oggettivato delle scienze naturali), non come anima e flusso di coscienza […] ma come unità vitale psicofisicamente indifferente, o neutrale», p. 55.