S&F_scienzaefilosofia.it

La tentazione della ricorsività. Il fascino dell’organico tra ordine e caos

Autore


Fabiana Gambardella

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Imitare la vita 
  2. La natura come grande macchina 
  3. Nuovi tipi di macchine

↓ download pdf

S&F_n. 12_2014

Abstract



There has been a close relationship between machines and biology since ages. Men have always produced automata in order to imitate nature, as well as to better know the secrets of life through the observation of machines. From Descartes’s automata to the new kind of machines, such as computers, the research in biology has been growing and has revealed that the border between natural and artificial, organic and inorganic is more and more fragile.

 

      1. Imitare la vita

  1. Movimento, autoriproduzione, conoscenza, sono i lessemi utilizzati per descrivere la vita, contrapponendola in maniera netta all’ottusa staticità dell’inorganico.

    La biologia pare costituirsi a partire dal dramma di un misconoscimento: sin dai suoi esordi prende forma attraverso la ricerca delle parole che le consentano di assurgere a scienza autonoma, svincolata dalle teorie, dai metodi e dalle procedure della fisica. Perché una cosa è certa: un abisso logico, ontologico e grammaticale separa il diamante dalla stella marina, la pietra dal gabbiano, l’oggetto inerte dal vivente soggetto. Eppure tutte le volte che l’uomo ha cercato di sondare il mistero della vita, ha rivolto lo sguardo all’inorganico: la magia rinascimentale indagava sulla natura per comprendere i legami fra il macro e il micro nel cosmo, allo stesso tempo tentando di riprodurre le mirabolanti opere della natura. Più tardi la techne della scienza moderna si dedicherà alla costruzione e allo studio delle macchine, all’interno di un doppio movimento: imitare l’opera del demiurgo instillando la vita nell’inorganico con la creazione di macchine in grado di operare in modo autonomo; e d’altro canto carpire i segreti della vita osservando l’armoniosa organizzazione del macchinico che quella vita va imitando.

    Si narra che il padre della filosofia moderna, quel Cartesio inventore del cogito e responsabile di tutte le conseguenze che questo concetto ha determinato, fosse un grande estimatore degli automi; la leggenda vuole che addirittura possedesse una bambola meccanica di nome Francine che lo accompagnava durante i suoi viaggi e che pare evocasse nelle fattezze una figlia illegittima precocemente abbandonata[1]. Questa fascinazione per il macchinico assumerà i contorni di una vera e propria teoria; nella quinta parte del Discorso sul metodo Cartesio volge lo sguardo al mondo degli automi, macchine prodigiose frutto dell’ingegno umano e lo fa attraverso un doppio movimento speculativo: chiunque conosca le diverse macchine che l’industria dell’uomo può produrre, impiegando pochi pezzi a confronto di quel groviglio di ossa, muscoli nervi, arterie, vene, presenti invece in qualsiasi corpo animale, non può che considerare questi corpi come macchine, che, essendo fatte dalle mani divine, sono incomparabilmente meglio ordinate, rispetto a quelle inventate dagli uomini[2]. Dunque l’organizzazione della macchina, l’armoniosa funzionalità delle parti evoca quella della macchina vivente, l’artificiale perciò è utile per comprendere il naturale, esso risulta talmente perfetto da confondersi talvolta con la vita stessa:

    «[…] S’il y avait de telles machines qui eussent les organs et la figure extérieure d’un singe ou de autre animal sans raison, nous n’aurions aucun moyen pour reconnaître qu’elles ne seraient pas en tout de même nature que ces animaux»[3]. Tra la scimmia automa e quella in carne e ossa non vi sarebbe alcuna differenza; anzi per dirla tutta, se fossimo in grado di costruire tanti automi con le fattezze di tutte le variegate specie animali “prive di ragione”, nessun uomo avrebbe i mezzi per smascherare l’originale dal simulacro, il naturale dall’artefatto. Al contrario: «s’il y en avait qui eussent la ressemblance de nos corps, et imitassent autant nos actions que moralement il serait possible, nous aurions toujours deux moyens très certains pour reconnaître qu’elles ne seraient point pour cela de vrais hommes»[4].

    Dall’altro lato automi con le perfette sembianze umane non riuscirebbero a ingannare nessuno sguardo osservatore e per due motivi: la mancanza della parola, o meglio della libera e imprevedibile produzione di simboli che mutano in relazione ai contesti; e l’assenza della ragione, intesa come origine dell’azione, un’azione dunque che non è frutto di automatismi o effetto deterministico di una particolare disposizione degli organi, bensì esito libero di una conoscenza.

    È evidente allora che la comparazione inorganico/organico prima, e inorganico/organico-animale/organico-umano dopo, serva a stabilire con forza un primato ontologico, che non è quello della natura, o meglio della vita rispetto alla non-vita, all’artificio; il primato per Cartesio non sta nella vita bensì nell’esistenza intesa come res cogitans, anima instillata da Dio. Ecco perché nella logica cartesiana tra natura e artificio, animale e macchina non vi è in fondo differenza: la vita come tale non presenta alcuna peculiarità che la distingua realmente dall’inorganico; tutt’altro: si potrebbe arrivare a sostenere che l’inorganico possieda maggiore dignità ontologica rispetto alla vita in sé, poiché la fisica che va elaborando Cartesio descrive il mondo come una grande macchina intessuta di materia e movimento, dove ogni residuo di finalismo è eliminato.

  2. 2. La natura come grande macchina

    Se già in Cartesio almeno per certi versi, e cioè nel confronto animale-macchina, la contrapposizione natura-artificio va perdendo i suoi contorni definiti, tale processo pare radicalizzarsi nelle speculazioni successive, in quel percorso che la fisica moderna, da Galilei a Newton mette in modo, consistente in una piena e integrale meccanizzazione del mondo, e che filosofi come Helvetius, d’Holbach e La Mettrie proveranno a formulare anche dal punto di vista dell’antropologia. Se in Cartesio l’identificazione perfetta natura-artificio resta impossibile nell’uomo, che, dotato sì di un corpo-automa, vi si affranca grazie alla presenza dell’anima che a certi meccanismi sfugge, in La Mettrie la stessa anima, la scintilla del cogito, è descritta in termini materialistici. Laddove Cartesio sostiene che un abisso separa l’animale dall’uomo, al punto che simulacri meccanici di una scimmia in nulla differiscono dall’animale in carne e ossa, mentre simulacri dell’uomo sono praticamente inadatti a riprodurne le funzioni, La Mettrie sostiene invece una continuità sostanziale Animalitas-Humanitas e di conseguenza un materialismo che coinvolge entrambi:

    Dagli animali all’uomo la transizione non è violenta: i veri filosofi ne converranno. Che cos’era l’uomo prima dell’invenzione delle parole e della conoscenza delle lingue? Un animale appartenente alla specie umana, che con molto meno istinto naturale degli altri, di cui allora non si credeva re, si distingueva dalla scimmia e dagli altri animali solo come la scimmia si distingue da questi ultimi, cioè grazie a una fisionomia esprimente maggior discernimento[5].

    L’uomo è dunque un animale, ma, come espliciterà meglio nel 1772 lo Herder del Saggio sulle origini del linguaggio, un animale manchevole, i cui istinti e la cui naturale propensione alla sopravvivenza, sembrano ridotti e affievoliti[6].

    Come ogni animale è caratterizzato da un funzionamento meccanico, per cui tutte le facoltà dell’anima dipendono dalla peculiare organizzazione del cervello e di tutto il corpo. È ovvio che si tratta di una macchina estremamente intelligente, dotata di ingranaggi più complessi rispetto a quelle costruite dall’uomo; e tuttavia è proprio a partire da quegli ingranaggi che è possibile spiegare la coscienza delicata dell’uomo e tutte le innumerevoli sfumature del rimorso, del rimpianto e del desiderio[7]. La conclusione del filosofo è netta: l’uomo è una macchina e in tutto l’universo non esiste che un’unica sostanza diversamente modificata[8].

    Considerare il corpo come una macchina perfetta in grado di espletare innumerevoli e complesse funzioni, dà l’avvio anche all’incedere poderoso della medicina moderna, ai suoi progressi in campo anatomico. Il dolore della carne che urla sotto l’offesa della malattia, vissuta come cataclisma inspiegabile, si trasforma, nel mondo asettico e meccanizzato delle scienze moderne nella disfunzionalità dell’ingranaggio che si inceppa e che va ripristinato. Il corpo una volta equiparato alla macchina sembra perdere l’aspetto ineluttabile di carne marcescente e dolorante destinata alla putrefazione. Non c’è artefatto che non possa essere riparato, non c’è marcescenza che non possa essere rimandata, dilazionata nel tempo. L’inorganico non intrattiene relazioni con la morte e la simil-macchina che il corpo è, insieme ai medici, i suoi addetti alla manutenzione, cerca costantemente di allentare le maglie di questa relazione. Nella macchina allora va prendendo forma anche il sogno umano, troppo umano, di riscatto dalla malattia e dalla morte.

  3. 3. Nuovi tipi di macchine

    Fin qui la relazione organico-inorganico è stata descritta a partire da un particolare tipo di inorganico: la macchina intesa come artefatto costruito dall’ingegno umano. Si è già detto tuttavia che anche l’inorganico naturale consentirebbe una via d’accesso alla comprensione della vita.

    I frattali sono affascinanti realtà presenti in natura, caratterizzati da una struttura ricorsiva e autosomigliante che si ripete allo stesso modo su diverse scale di osservazione, per cui sembra che il micro riproduca il macro. Il fiocco di neve, le coste sono caratterizzati da ridondanza, irregolarità e frammentarietà che mettono a dura prova le consolanti leggi della geometria euclidea. Ogni frazione di un frattale è simile all’insieme più ampio di cui è parte.

    Ciò che rende ancora più interessante la geometria frattale è il fatto che possa essere applicata anche in campo biologico: nel corpo umano le sinapsi, i vasi sanguigni, l’intestino, sembrerebbero riprodurre geometrie frattali. Anche in questo caso allora la vita ricalca l’ordine consolidato e gerarchico dell’inorganico, rendendo nuovamente labile il confine tra i due. E tuttavia essa pare destreggiarsi fra un ordine inamovibile e certo, che ricorsivamente reitera se stesso e l’affascinante imprevedibilità del caos. L’equilibrio nei sistemi viventi, sembra infatti essere dato dalla delicata dialettica fra ordine e caos.

    Per giungere a tali conclusioni la biologia contemporanea ha dovuto poggiarsi sullo studio di nuovi tipi di macchine e sulla scienza che le studiava: la cibernetica. Il termine, coniato nel 1947 da Norbert Wiener insieme al gruppo di studiosi riuniti attorno ad Arturo Rosenblueth, designa il campo di indagine centrato sulle questioni di «comunicazione, controllo e meccaniche statistiche, sia nelle macchine che nei sistemi viventi»[9].

    Questa disciplina determina una transizione epocale caratterizzata dal passaggio dalla bambola di Cartesio alle macchine autopoietiche:

    La cibernetica […] è una teoria delle macchine, e tuttavia non si occupa di cose, bensì di modalità di comportamento. Non si domanda: Cosa è questo? Ma Cosa fa? […] Il suo oggetto è il dominio di tutte le macchine possibili ed è solo secondariamente interessata al fatto che alcune di esse non siano state ancora create, dall’uomo o dalla natura. Ciò che la cibernetica offre è una struttura attraverso la quale tutte le macchine individuali possano essere ordinate, catalogate, comprese[10].

    Dunque la cibernetica, occupandosi di tutte le macchine possibili, a prescindere dal fatto che alcune di esse siano state create dall’uomo e altre dalla natura, contribuisce a indebolire ulteriormente la rigida dicotomia natura-artificio, organico-inorganico. L’importante difatti non è l’insieme delle componenti che costituiscono la macchina, ma la complessità delle relazioni che in essa vanno strutturandosi:

    We are thus saying that what is definitory of a machine structure are relations and, hence, that the structure of a machine has no connection with materiality, that is, with the properties of the components that define them as physical entities. In the structure of a machine, materiality is implied but does not enter per se[11].

    L’interesse dunque si trasferisce dalla materia al processo, inteso come insieme di relazioni e rende se è possibile ancora più ardita la domanda sulla vita e sulle sue differenze con la non-vita. Gli ordini ontologici vanno per così dire mescolandosi, assieme alle gerarchie che li caratterizzavano. Perciò quando si parla di macchine ci si può riferire indistintamente a un sistema vivente o a un automa, perché ciò che le specifica non sono i componenti, bensì l’organizzazione, e cioè il tipo di relazioni istituite nell’ambito di queste unità. In fondo resta inalterato il sogno di Cartesio e di coloro che lo precedettero, di dar vita ad automi che si autoregolassero, attraverso meccanismi di feedback-loop.

    Sulla scia di queste acquisizioni va sviluppandosi a partire dagli anni ‘70 del Novecento, la biologia dei sistemi viventi intesi come macchine autopoietiche[12]. Secondo Humberto Maturana e Francisco Varela un sistema vivente, come sistema autopoietico tende al mantenimento della propria identità. Questa parola, ricca di reminiscenze metafisiche, viene ripulita e per certi versi resa asettica. Nella lingua della cibernetica la parola identità rimanda semplicemente al mantenimento di un equilibrio omeostatico, attraverso meccanismi di retroazione, o meglio di “causalità circolare”; ma la vita pare svilupparsi e accrescersi attraverso un paradosso: come voleva Nietzsche, essa è caos, e come tale non vuole soltanto preservarsi ma espandersi; l’ordine allora gioca col caos e a processi di feedback negativo si aggiungono quelli di feedback positivo: nei sistemi dinamici infatti ogni perturbazione, destabilizzando il sistema, determina un riadattamento con produzione di novità.

    La vita, allora, non è ricerca dell’equilibrio ma costante deviazione da esso. L’omeostasi si configura come il difficile equilibrio tra le componenti caotiche e quelle ordinate dei fenomeni biologici.

    L’entropia, dunque, lungi dall’essere caratterizzata come dissipazione, «afferma soprattutto l’esistenza di un’instabilità di fondo dei sistemi dinamici che ci circondano»[13].

    Nell’ambito di queste ontologie ibride, entro le quali non risulta più possibile stabilire il confine netto che separa natura da artificio, organico da inorganico, addirittura vita da morte, la logica lineare che ha contraddistinto per secoli la tradizione speculativa dell’Occidente, deve necessariamente abdicare a una logica circolare, che prevede il paradosso, la coesistenza degli opposti. L’affresco naturalistico pare essere sostituito dalle visioni di Escher, dove spazi geometrici perfettamente riprodotti mettono in difficoltà l’osservatore nel circoscriverne i limiti, nel determinare chiaramente interno ed esterno, sopra e sotto, osservatore e osservato. Ciò che emerge dalle tassellature di Escher è proprio l’impossibilità di cristallizzare in figure immobili l’infinita varietà del reale. La linea di confine, il margine tra due forme adiacenti, è margine di mutazione: le forme cui il disegnatore dà vita non hanno nulla di stabile, di definito, si tramutano in altro da sé in un processo che non ha una fine né un fine, per cui le scacchiere diventano uccelli, le api pesci e questi di nuovo scacchiere[14]. Emergono così ontologie polivalenti, si sfumano i contorni netti che separano gli enti, il mostruoso prende forma in una visionaria quanto efficace ibridazione di uomini, animali, macchine.


  4. [1] S. Pryor, Thinking of oneself as a computer, in «Leonardo», 24, 25, 1990, pp. 585-590.

    [2] R. Descartes, Discours de la méthode (1637), Le Livre de Poche, Paris 1970, pp. 87-88 (trad. mia).

    [3] Ibid., p. 88.

    [4] Ibid.

    [5] J.-O. de La Mettrie, L’uomo macchina, in Opere filosofiche, tr. it. Laterza, Bari 1992, p. 191.

    [6] J. G. Herder, Saggio sulle origini del linguaggio, tr. it. Pratiche Editrice, Parma 1993.

    [7] J.-O. de La Mettrie, op. cit.

    [8] Ibid., p. 195.

    [9] N. Wiener, Cybernetics: or, Control and Communication in the animal and the machine (1948), MIT Press, Cambridge 1961, p. 11 (trad. mia).

    [10] W. R. Ashby, Introduction to Cybernetics, Chapman and Hall, London 1956, pp. 1-2 (trad. mia).

    [11] F. Varela, H. Maturana, Mechanism and biological explanation, in «Philosophy of Science», 39, 3, 1972, p. 378.

    [12] H. Maturana, F. Varela, Autopoiesi e cognizione. L’organizzazione del vivente, tr. it. Marsilio, Venezia 1980.

    [13] I. Prigogine, L’esplorazione della complessità, in G. Bocchi, M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano 2007.

    [14] M.C. Escher, cfr. la litografia Il giorno e la notte, 1938, o la xilografia Metamorfosi II, 1939.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *