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Indice
- Sintomo e contesto culturale
- Indiani poveri e “poveri bianchi”
- Delirio o credenza? L’approccio metaculturale
S&F_n. 11_2014
Abstract
The aim of the reflection of Georges Devereux is the establishment of a therapeutic practice in the ethnopsychiatric field, based on the complementary idea of the Danish mathematician Niels Bohr. This article will show how Devereux applies this principle to the studies on mental illness suffered by the Plains Indian during the mid-fifties, using his skills in the fields of anthropology and psychoanalysis. It will give a special attention to the case of Jimmy Picard, the main character of the famous essay Reality and dream: Psychotherapy of a Plains Indian.
- Sintomo e contesto culturale
Tamerlano, passato alla storia come guerriero sanguinario e conquistatore implacabile nell’Asia centrale del quattordicesimo secolo, era zoppo. Ferito a una gamba in gioventù, nel corso di una battaglia, era rimasto claudicante per il resto dei suoi giorni eppure, in un contesto nel quale l’élite si spostava esclusivamente a cavallo e fare anche solo pochi passi a piedi al di fuori del perimetro ristretto delle mura domestiche era considerato disonorevole, questo handicap non ha in alcun modo ostacolato la sua ascesa, né oscurato la sua fama[1].
Un giovane guerriero nativo americano dell’inizio del secolo scorso, Prendi-la-pipa, poco prima di divenire capo della sua tribù si azzoppa in un incidente mentre sta cavalcando. Non potendo più compiere incursioni a piedi in territorio nemico per trafugarne il bestiame, impresa richiesta a chi voglia aspirare a ricoprire un ruolo egemone nella comunità, Prendi-la-pipa si voterà al suicidio divenendo un “Cane-pazzo-che-vuole-morire”, ovvero un guerriero impegnato a ricercare a tutti i costi la morte in battaglia[2].
Attorno alle suggestioni fornite da questi due esempi Georges Devereux – antropologo e psicanalista magiaro nato agli inizi del Novecento, considerato il padre dell’etnopsichiatria – costruirà la sua riflessione sulla relatività del sintomo e la necessità, per comprenderlo e eventualmente porre rimedio al disagio che esso cela, di calarlo in un contesto storico-culturale determinato. Tutto il suo Psicoterapia di un indiano delle Pianure – lunghissimo diario clinico che racconta il percorso terapeutico di Jimmy Picard, un nativo americano ferito nella Seconda Guerra Mondiale e curato proprio da Devereux presso l’ospedale per i reduci di Topeka, in Kansas – racconta, offrendo numerosi spunti metodologici ed epistemologici, le difficoltà e i rischi della pratica etnopschiatrica, ovvero dell’analisi condotta da un terapeuta di una data cultura su un paziente proveniente da un diverso quadro culturale, che possiede cioè un differente inconscio etnico.
Jimmy, alcolista, affetto da mal di testa dolorosi e prolungati e vertigini, è, un indiano di mezza età, figlio di un capo tribù che morirà quando lui è ancora bambino, educato dai suoi parenti più stretti a osservare i precetti estremamente rigorosi della confessione cristiana alla quale sono devotissimi. Il disagio psichico di Jimmy è legato tanto a dei traumi individuali – il distacco dalla madre, la nascita di una figlia illegittima, il tradimento e il divorzio dalla moglie – che alla sua specifica appartenenza a una data area culturale, alla sua personalità etnica – le difficoltà legate alla sua condizione di esclusione e marginalità, al contrasto tra i valori tradizionali ai quali è legato e quelli vigenti nella società in cui vive [3]. Devereux si troverà dunque a condurre un’esplorazione all’incrocio tra questi due inconsci – sovrapposti e inseparabili – eppure distinguibili, quello etnico – che, come nota l’autore stesso, non va confuso l’inconscio razziale, che si trasmetterebbe biologicamente, teorizzato da Jung – che consiste in ogni individuo in «quella parte del suo inconscio totale che egli ha in comune con la maggioranza dei membri della sua cultura. Esso è composto da tutto ciò che, in conformità alle esigenze fondamentali della sua cultura, ogni generazione impara a rimuovere e che, a sua volta, costringe poi la generazione successiva a rimuovere»[4], e l’inconscio idiosincrasiaco[5], nel quale si sedimentano quei traumi che possono essere o meno legati a specifici tratti culturali, ma che attengono, sostanzialmente, alla storia privata, individuale, del paziente. In quest’ottica l’analisi del materiale onirico deve essere condotta, per non incorrere in alcuni errori grossolani, seguendo alcuni accorgimenti e a partire da un sufficiente bagaglio di informazioni circa il contesto culturale del paziente: ad esempio la percezione di un distacco meno netto tra ciò che è sognato e ciò che è reale, l’abbondanza di sogni e la capacità di Jimmy di ricordarne una quantità superiore alla norma sono da considerarsi come naturale conseguenza della centralità che l’attività onirica ha nella cultura indiana e non devono essere interpretate, come sarebbe invece lecito fare per un paziente europeo o nordamericano, come spie di un disordine della personalità[6].
Il “sintomo”, l’espressione del disagio, va contestualizzato in un quadro culturale specifico e letto a partire da esso: sogni che nella loro vividezza trapassano il confine onirico per sconfinare nella realtà turbano lo psicotico occidentale molto più dell’indiano delle Pianure per il quale rappresentano uno strumento di ricerca di “visioni”[7], non è la manifestazione del “sintomo” in sé, ma la manifestazione in relazione alla cultura di appartenenza a consentire al terapeuta di definire la psicosi, di segnare il confine tra normalità e patologia.
- Indiani poveri e “poveri bianchi”
La possibilità di analisi dell’inconscio etnico è dunque strettamente legata alla conoscenza della cultura di appartenenza del paziente e della sua posizione rispetto a quella dominante (alla quale appartiene il terapeuta). Bisogna dunque tener conto non solo del fatto che parlare di relazione tra culture non significa nulla se non si individuano i rapporti storici, materiali che le legano – o le oppongono – l’una all’altra, ma anche che non basta individuare i punti cardine dell’insieme di ciascuna di esse per analizzare efficacemente la dialettica che si istaura nel loro incrocio, ma bisogna precisare anche quale parte di ciascuna cultura entra in contatto con l’altra.
Quale parte della cultura e della società americana entra in contatto con quella degli indiani delle Pianure? A partire da quali equilibri – di egemonia e subalternità – si sviluppa e si modifica la relazione tra queste parti? Devereux definisce, a partire dal caso degli indiani delle Pianure – ovvero di un’area che l’autore considera sostanzialmente omogenea dal punto di vista culturale e che si estende grosso modo da un lato dalla parte centrale sud del Canada fino alla frontiera messicana e dall’altra dal Mississippi fino all’area del Gran bacino, a Est della sierra Nevada – gli elementi cardine del rapporto tra questo macrogruppo e i nordamericani esponenti della cultura egemone. Pur condividendone il destino di precarietà, disoccupazione, alcolismo, gli indiani non sono semplicemente dei redneck, dei “poveri bianchi” – come quelli raccontati nei loro romanzi da Faulkner o da Caldwell – con un diverso colorito e diversi tratti somatici. Gli indiani sono consegnati dalla loro pelle a un destino specifico di marginalità e discriminazione, patiscono lo straniamento e la tensione di una doppia appartenenza: per un verso sono legati a una cultura in fase di disgregazione, per l’altro sono immersi in un contesto di estrema marginalità sociale[8], quello dell’America “di frontiera” che, pur proclamando la sua superiorità di fatto, è immersa nella miseria materiale e spirituale.
Il “povero bianco”, sottolinea ironicamente Devereux parlando di magia verbale[9] del razzismo, può affermare orgogliosamente la propria superiorità sull’indiano per il fatto di appartenere a una nazione capace di costruire la Cadillac, ciò non toglie che se ne vada in giro su una Ford T sgangherata[10]. A condizioni materiali simili non corrisponde dunque un’analoga disposizione o possibilità di aderire allo stile di vita proposto dalla cultura dominante: il “povero bianco” sente, nonostante tutto e, potremmo dire, contro ogni evidenza, di appartenere all’opulenza e alla forza della società statunitense e si ritiene in diritto di scaricare la propria insofferenza e il proprio disagio nella xenofobia e nel rifiuto della cultura “altra” dell’indiano. D’altro canto, non è solo la povertà della loro condizione materiale o il razzismo al quale sono quotidianamente sottoposti a fiaccare lo spirito degli indiani delle Pianure e ad aumentare l’incidenza di affezioni psichiche tra le loro fila, a determinarle è piuttosto il contrasto stridente tra le due scelte di vita che gli si parano davanti: quella dell’autosegregazione nelle riserve e quella dell’immersione volontaria in una società bianca che li emargina e li disprezza. Ma c’è di più. Gli indiani delle Pianure – che simboleggiano per Devereux tutte i popoli nella loro fase terminale di degenerazione – sono eredi di una cultura antica, i cui valori guerrieri, ancora forti e vivi nella memoria e nel sentire collettivi, mal si conciliano con un’esistenza squallida, priva di ogni èpos. Se l’Atene di Pericle occupa un posto relativamente limitato nella definizione di sé e nell’immaginario dell’ateniese contemporaneo[11], il sistema di valori dell’indiano della metà del secolo scorso è ancora profondamente intriso degli elementi tradizionali della sua cultura, i testimoni di quel sistema di vita, uomini che hanno cavalcato nelle pianure e sono andati a caccia di bisonti, possono raccontare con la loro viva voce a figli e nipoti le storie di un tempo glorioso. Nei racconti questa epopea viene idealizzata e scremata di ogni bruttura: vengono ricordati non gli inverni freddi, le sconfitte in battaglia, la mancanza di cibo e la povertà del vestiario, ma le gesta celebri e la grandezza del passato. È proprio per la persistenza di questi valori che Devereux considererà gli anni Cinquanta come la fase di declino dell’epopea degli indiani e non quella iniziale del loro pauperismo. Non è infatti la povertà in sé il tratto caratterizzante della loro esistenza, ma piuttosto il contrasto tra un sistema di valori tradizionali – mitico e idealizzato, ma ancora attivo e operante – e una realtà nella quale questi non trovano alcuno spazio di applicazione. L’epoca d’oro degli indiani delle Pianure non è una stagione di ricchezza e agi, ma uno spazio immaginario – perché privato di qualsiasi elemento critico o negativo – di libertà, si preferisce il tipì alla baracca, il piccolo pezzo di pelle di daino per coprire le nudità ai vestiti rattoppati da americano[12], più funzionali, più confortevoli, ma meno corrispondenti a un’immagine tipo. Le abitazioni fatiscenti e gli abiti logori sono la manifestazione concreta della marginalità dell’indiano, rendono immediatamente visibile il suo essere lo scarto, la brutta copia dell’idealtipo nella cultura dominante. Questo aspetto, apparentemente scontato, è invece, sottolinea l’autore, spesso sottovalutato o addirittura ignorato nelle ricerche di psichiatria sociale che tendono a non analizzare la struttura sociale totale[13], l’attenzione degli studiosi è tutta focalizzata sulle classi o sulle diverse porzioni di spazio urbano: “a causa del suo disturbo, un individuo può passare da una zona o da una classe, a un’altra. Nella nostra società, un “borghese” schizofrenico può finire con il toccare il fondo in una pensione malfamata”[14] e si dà per scontato che questo meccanismo debba essere vero per qualsiasi tempo o qualsiasi cultura, invece l’elemento che finisce per aggravare lo stato di prostrazione dell’indiano delle Pianure è proprio l’estraneità culturale all’idea di questo toccare il fondo. «Il Mohave del 1830, sebbene obbiettivamente povero, era signore e padrone del suo ristretto Lebensraum, o spazio sociale. Quello del 1930, anche se oggettivamente più ricco, restava tuttavia solo un povero, un’entità trascurabile nel quadro dell’immenso spazio sociale degli Stati Uniti»[15], la comunità Mohave aveva, come qualsiasi altra, le sue gerarchie e stratificazioni, ma manteneva un proprio equilibrio interno nel quale anche il più povero – o il folle – della tribù aveva un suo posto, così anche chi perdeva il suo status – o la possibilità di accedervi come nel caso di Prendi-la pipa riportato poco fa – non toccava il fondo, non era uno scarto, persino il “Cane-pazzo-che-vuole-morire” aveva infatti un suo ruolo stabilito e una sua funzione nella comunità.
Le società semplici – definizione che vale sostanzialmente per la complessità del sistema di divisione del lavoro al loro interno, non per la raffinatezza dei costumi, delle tradizioni, delle espressioni artistiche –, meno legate all’idea di produttività e ottimizzazione delle forze, sono dunque, per Devereux, società nelle quali ognuno riesce a trovare un proprio posto. Il dispositivo deflagrante che condiziona l’incontro tra società semplici e società complesse, con il quale si trova continuamente a fare i contri l’etnopsichiatria, e che fa emergere il disturbo psichico nei soggetti meno preparati al cambiamento, non rimanda solo alla loro condizione materiale e sociale – di povertà, sfruttamento, sopraffazione, isolamento – ma, per un verso, alla relazione tra questa condizione e i nuovi meccanismi di gerarchizzazione ai quali il soggetto è sottoposto, e per l’altro tra questa condizione e il suo modello di vita tradizionale e ideale.
Sembra esistere un’unica alternativa al più o meno difficoltoso tentativo di assimilazione: quello della conservazione a tutti i costi del proprio modello di vita e dei propri valori e costumi tradizionali. Così, se nella zona di contatto con quella statunitense, la cultura indiana non trova spazio, allora si ritrae nella separatezza forzata della riserva dove invece dilaga in forme sempre più estreme, grottesche e caricaturali: bloccata nel passato, la cultura si pietrifica e diviene incapace di prodursi e riprodursi in modalità nuove, di generazione in generazione diventa sterile riproduzione di forme sempre più separate da un qualsiasi contenuto vivo e produttivo. La riserva diviene così il luogo materiale dove si consuma il declino della civiltà indiana che, prima di dissolversi del tutto, in un estremo tentativo di resistenza, viene calcificata nelle forme mute della ripetizione, viene resa grossolana, kitsch, oggetto morto e, infine, intramandabile.
- Delirio o credenza? L’approccio metaculturale
Per comprendere i traumi provocati da questo continuo stato di tensione tra integrazione e rifiuto della cultura dominante e sbloccare il paziente dalla sua condizione di empasse è necessario disporre di un vasto corredo di dati e di conoscenze, sia in campo antropologico che psicoanalitico, capaci di tradurre un sintomo – di per sé incomprensibile e inutilizzabile – in una spia in grado di orientare il terapeuta nel guidare il paziente nel suo percorso. La novità introdotta da Devereux negli studi in merito ai rapporti tra culture e ai disturbi psichici che eventualmente possono derivarne, consiste nel perfetto equilibrio nel quale egli colloca le due discipline di cui si serve e, contemporaneamente, nell’assoluta autonomia che attribuisce a ciascuna nel dare spiegazioni riguardanti un singolo caso o nel fornire riflessioni di carattere più generale. L’approccio complementarista di Devereux prevede infatti un doppio sguardo sul paziente: dall’esterno l’antropologo si serve delle conoscenze a sua disposizione per individuare gli elementi caratterizzanti della cultura del paziente, lo psicoanalista lo analizza invece dall’interno. Il pensatore magiaro, pur racchiudendo in sé entrambe le figure, si sforza di non sovrapporre né di fornire mai simultaneamente le spiegazioni dei fenomeni interni ed esterni del malessere, ma fa in modo che queste, nella loro indipendenza e non simultaneità, gettino luce su lati diversi dell’oggetto di osservazione. Come la celebre immagine utilizzata da Bohr – dal quale Devereux prende in prestito il termine complementarismo e le suggestioni legate alla sua teoria fisica – racchiude la forma di un vaso, ma anche quella di due volti posti di profilo l’uno di fronte all’altro, così il quadro clinico fornito in merito a Jimmy Picard è contemporaneamente analisi antropologica, sociologica e psicologica, fotografia di un mondo, quello degli indiani delle Pianure, che sta scomparendo, e contemporaneamente di un uomo che conduce la sua battaglia per uscire da uno stato di infermità causato da fattori tanto sociali che individuali e dal loro intersecarsi gli uni con gli altri. Così per «comprendere l’uomo in maniera significativa, è impossibile dissociare lo studio della Cultura da quello dello psichismo, precisamente perché Psiche e Cultura sono due concetti che, pur del tutto distinti, si trovano in un rapporto reciproco di complementarità»[16].
Ma cosa e quanto deve conoscere il terapeuta della cultura del paziente perché possa essere in grado di guidarlo nel suo percorso di guarigione? Nonostante la conoscenza della cultura del paziente – e in taluni casi anche delle sue degenerazioni e alterazioni rispetto ai suoi stilemi tradizionali – sia fondamentale per una terapia capace di indagare sia il sostrato inconscio idiosincrasiaco che etnico (come mostrano le lunghe note metodologiche che precedono il report delle sedute di Jimmy Picard), Devereux è convinto che in realtà non sia la quantità di dati a garantire un’analisi accurata, ma piuttosto la capacità di possedere uno schema interpretativo forte e universale, ovvero fare riferimento non alle culture, ma alla Cultura in sé. Per illustrare questo concetto Devereux riporta la sua esperienza di consulto psichiatrico su due indiani acoma destinati alla sedia elettrica per aver ucciso uno stregone della loro tribù.
Lo psichiatra della prigione che aveva in osservazione i prigionieri – pur conoscendo i rudimenti della cultura dei due condannati e non avendo dunque commesso l’errore di scambiare alcune credenze e tratti culturali per sintomi di un disturbo psichico, tanto da dichiararli “legalmente sani di mente” – intuisce, di colloquio in colloquio che c’è qualcosa che “non quadra”, decide allora di chiedere un consulto a Georges Devereux e lo invita presso il centro medico per detenuti federali di Springfield, in Missouri. In pochi minuti entrambi i prigionieri, ascoltati separatamente a causa della loro condizione di isolamento, forniscono allo studioso una vasta gamma di informazioni inerenti la stregoneria e le pratiche a essa connesse, «un indiano pueblo – commenta in proposito Devereux –sospettoso e diffidente per tradizione, per di più condannato a morte, il quale, in capo a dieci minuti di colloquio, parla liberamente delle sue credenze e delle sue esperienze esoteriche connesse alla stregoneria, davanti a un interlocutore veduto per la prima volta, agisce altrettanto razionalmente, press’a poco, quanto un agente del controspionaggio che parlasse del codice segreto della marina con un estraneo appena incontrato al bar»[17]. Questo indizio, questo “sintomo”, porta Devereux a concludere che non solo i due condannati avevano smesso di intendere le loro credenze nella maniera diffusa ed erano in preda a un vero e proprio delirio, ma anche che avevano perso ogni contatto con le pratiche e le usanze in vigore nella loro comunità: minacciati dallo stregone invece che rivolgersi alle società rituali deputate, come previsto nella cultura acoma, avevano provato a sbarazzarsene da soli, uccidendolo. Secondo un procedimento simile, ipotizza Devereux, «un ingegnere elettronico, uomo brillante ma paranoide, può pensare di essere perseguitato da un radar; può persino disegnare lo schema progettuale del radar che lo perseguita e questo schema può persino rappresentare un progresso reale e considerevole rispetto agli strumenti radar esistenti. Il suo nuovo dispositivo può fare benissimo tutto quanto fanno gli altri radar e farlo anche meglio, ma qualunque cosa esso faccia, non saprebbe perseguitarlo»[18].
Distinguere la manifestazioni di una psicosi da una manifestazione della cultura del paziente non è dunque una questione quantitativa, ovvero stabilita a partire da quanto la data manifestazione si discosta dalla nostra cultura – questo procedimento oltre che gerarchizzante sarebbe fuorviante – ma qualitativa, ovvero legata alla deformazione che il paziente fa della realtà e dei suoi meccanismi, all’incapacità di gestire i materiali culturali, dall’essere sopraffatti dalle proprie credenze e bloccati nella propria maschera sociale. In quest’ottica non si tratta, come mostra bene l’esempio dell’ingegnere paranoico e del suo radar, di formulare una diagnosi sulla base di una cultura specifica, ma a partire da meccanismi universali, generali. Devereux cerca di prendere le distanze da due atteggiamenti contrapposti nei confronti dell’alterità culturale: uno che individua ogni espressione non immediatamente riconducibile a quelle della cultura dominante come nevrotica, l’altra che catalogando tutto ciò che è diverso come inconoscibile in quanto radicalmente altro, precipita nel relativismo più radicale (da questo punto di vista obbiettivo non taciuto degli strali del pensatore magiaro è l’antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss). Fermamente convinto della possibilità – e della necessità – di marcare una linea di separazione netta tra normale e anormale, tra delirio e credenza[19], Devereux si farà portavoce di una psicoterapia di carattere transculturale (che egli stesso definirà in seguito, per scongiurare ogni possibile fraintendimento circa l’interpretazione del termine, metaculturale) che, rifiutando ogni definizione etnocentrica della personalità normale[20], andrà però sempre alla ricerca di una sua definizione assoluta, in rapporto a una «Cultura in sé intesa come fenomeno umano universale»[21]. L’analisi transculturale – o metaculturale – si propone così di studiare non il rapporto tra le singole culture (si parlerebbe in questo caso di psicoterapia interculturale), ma la quello tra la Cultura in sé, una cultura specifica e le psicopatologie che in essa insorgono[22]. D’altro canto compito dello studio etnopsichiatrico di Devereux è anche – tenendo sempre al centro il paradigma e lo schema interpretativo fornito dalla Cultura in sé, ovvero dai meccanismi che costituiscono il minimo comune denominatore degli uomini di ogni luogo e ogni tempo – quello di individuare i disturbi provocati dal contatto tra le culture e analizzare i modi che ciascuna società ha di codificarli.
Coerentemente con la sua tesi sull’unità psichica dell’umano, Devereux indica un criterio unico a partire dal quale è possibile stabilire se una data manifestazione è sintomo di una patologia o semplicemente espressione di un universo culturale e di valori altro: la capacità di adattamento creativo del soggetto in analisi. Non bisogna definire la normalità o la anormalità secondo il principio dell’adattamento a un dato contesto o a una specifica alla realtà storica, contingente (ricorre negli scritti di Devereux, a tal proposito, l’esempio del nazionalsocialismo: un soggetto perfettamente integrato in quel regime sarebbe da considerarsi sano, in quanto adattato, o patologico?), ma a partire dall’analisi del rapporto che il paziente ha con questa realtà. «L’accettazione acritica e passiva della cultura manifestamente dereistica e malsana in cui si vive, non è un criterio di sanità mentale e di adattamento di tipo adulto, ma un segno di passività patologica e di dipendenza. L’individuo normale si accontenta di riconoscere la realtà obbiettiva della società malata in cui deve vivere senza per questo introiettarla ciecamente»[23], normale, non patologico, sarà dunque colui il quale è capace di conservare quel distacco necessario a non aderire completamente al proprio contesto, a non appiattirsi in esso, a non esserne sovrastato, di mantenere – o conquistare – la propria umanità «nel quadro stesso della realtà»[24].
A partire dalla categoria di adattamento creativo – accettazione e, al contempo distacco dal proprio contesto, capacità di mutare assieme a esso, di non rimanerne imprigionati – Devereux individua tre tipologie di pazienti: in primo luogo i pazienti che pur appartenendo a una cultura altra rispetto a quella egemone (nel caso esaminato si prende a riferimento quella nordamericana dei maschi bianchi e protestanti) non hanno particolari difficoltà di integrazione (ad esempio gli europei); poi i pazienti che, pur desiderando l’integrazione, in virtù di una cultura o di elementi razziali differenti rispetto a quelli egemoni sono emarginati e dunque costretti ad abbracciare il modello di vita della propria minoranza di appartenenza (Devereux annovera tra questi gli ebrei, gli afroamericani, i cinesi nati in America); infine i pazienti che si relegano volontariamente nella loro minoranza etnica e abbracciano un modello di vita tradizionale (si fa riferimento in particolare ai messicani del Sud-Ovest e agli indiani delle riserve)[25]. Come salta immediatamente all’occhio, accanto al criterio oggettivo – l’appartenenza a un dato gruppo o etnia – il parametro di differenziazione in questo schema consiste proprio nella relazione con la realtà – intesa nella forma della cultura egemonica. In particolare l’ultimo gruppo, quello degli indiani delle riserve, è caratterizzato, secondo Devereux, da una forma di esilio volontario, di rifiuto del cambiamento: a una cultura inanimata, mummificata, corrisponde l’esistenza bloccata dell’indiano che, incapace di sottrarsi al destino della sua comunità, si estingue con essa. La riserva dovrebbe conservare lo spirito tradizionale, essere il luogo dell’accettazione incondizionata e spontanea, della solidarietà e del mutuo riconoscimento, ma in realtà non di rado si trasforma in una prigione – neanche tanto dorata – nella quale i disordini della personalità e il disagio trovano terreno fertile.
Compito del terapeuta non è dunque né costringere il paziente a un adattamento che non sarebbe altro che simulazione, costringendolo a interpretare il ruolo impossibile del «tipico americano bianco»[26], né ancorarlo a un modello ideale altrettanto statico e destinato a confliggere continuamente con la realtà, quello dell’indiano guerriero, piuttosto egli deve cercare di restituire al paziente i suoi meccanismi culturali di difesa[27], restituirlo a se stesso[28], ovvero riallacciare il filo della sua storia personale e collettiva senza che questo lo imprigioni in un’identità etnica iper-investita[29], ovvero che cancella l’individuo, nella sua concretezza, in nome di una collettività astratta e di una tradizione superata. Sia nell’assunzione del modello di vita altrui, sia nella ripetizione meccanica del proprio, il rischio corso da tutti, e non solo dai soggetti psicologicamente più deboli o instabili, è così quello di essere ridotti all’unidimensionalità[30], alla ritualizzazione della propria identità[31], all’impossibilità di costituirsi autonomamente come soggetti.
La proposta di Devereux ha avuto il merito di sperimentare la «possibilità di una scienza dell’uomo dotata di autentica oggettività»[32], inserendo nel campo allora ancora poco battuto dell’etnopsichiatria, dove si incrociano antropologia e indagine psicologica, l’elemento universale e universalizzante della Cultura in sé, e provando così a trovare un minimo comune denominatore dell’umano. Ha però certamente anche alcuni limiti, ad esempio, a un fin troppo accentuato volontarismo – nonostante indugi spesso sulle pressioni sociali che gravano sull’individuo sembra che, in ultima istanza, questo sia sempre fino in fondo libero di aderire o meno ai modelli che gli vengono imposti –, si accompagna un individualismo assoluto. La trasformazione immaginata dal pensatore magiaro si pone sempre e solo sul piano del singolo: Devereux non si propone di “salvare” la cultura indiana, né di suggerire modelli generali di integrazione, è solo l’indiano Jimmy che egli intende – e può – far ristabilire (recovery), nessuna trasformazione della dimensione collettiva, nessuna proposta che immagini la trasformazione dell’esistente – di una realtà di discriminazione e sopraffazione – trova spazio nel suo orizzonte, dove, benché creativo, è il principio dell’adattamento a regnare incontrastato. Bisogna conformarsi alla realtà, sia pur criticamente, mantenendo il distacco e non aderendovi totalmente. Come sottolinea il suo allievo più celebre, Tobie Nathan, per criticare l’etnocentrismo e il modo di vita occidentale, Devereux non attacca frontalmente, apertamente, preferisce piuttosto adottare una tecnica di aggiramento e di guerra di trincea[33] conquistando silenziosamente e sottilmente il suo lettore alla causa dei popoli la cui cultura così meticolosamente racconta nei suoi lavori. L’attenzione e il rispetto con i quali descrive le abitudini, le tradizioni, le pratiche mediche, degli indiani Mohave o dei Sedang, mettono in discussione, come conseguenza logica e non come dichiarazione d’intenti, il modello culturale egemone e la pretesa di stabilire normalità e patologia a partire dai suoi parametri. Attraverso una strategia altrettanto sottile, Devereux propone il mimetismo consapevole come possibile espediente in grado di salvarci da un destino di omologazione o di annientamento, una resistenza microfisica, una battaglia sotterranea combattuta palmo a palmo per guadagnare il premio della sanità e dell’equilibrio, contro un modello di vita dominante che ci vuole sì adattati, ma anche bloccati, incapaci di qualsiasi autonomia.
Devereux ci restituisce il quadro di una realtà claustrofobica, di una lotta perenne per la sopravvivenza, di una società in decadenza nel cui crollo non dobbiamo lasciarci travolgere: forse questa visione è da considerarsi datata, eredità delle sue origini in un’epoca incerta – quella della dissoluzione dei grandi imperi – e di una gioventù segnata dall’avvento dei totalitarismi e dalla difficile convivenza – che lo ha portato alla dissimulazione e infine alla conversione – con la sua identità di ebreo, eppure è difficile non intuirne, al di là della differente congiuntura storica, anche la terribile attualità.
[1] G. Devereux, Psychothérapie d’un indien des Planes (1951), Fayard, Paris 1982, pp. 163-164; e Id., Normale e anormale (1956), in Saggi di Etnopsichiatria generale (1973), tr. it. Armando, Roma 2007, p. 29.
[2] R.H. Lowie, The test theme in North American mythology, in «Journal of American Folklore», 21, 1908, pp. 97-148, cit. in G. Devereux, Psychothérapie d’un indien des Planes, cit., p. 164
[3] Cfr. E. Roudinesco, Préface a G. Devereux, Psychothérapie d’un indien des Planes, cit., p. 23
[4] G. Devereux, Normale e anormale, cit., p. 26.
[5] Ibid., pp. 27-28.
[6] G. Devereux, Psychothérapie d’un indien des Planes, cit., p. 201.
[7] Cfr. Id., L’etnopsichiatria come quadro di riferimento nella ricerca e nella pratica clinica, in Saggi di Etnopsichiatria generale, cit., p. 67.
[8] Ibid., p. 66.
[9] Ibid., p. 74.
[10] Ibid., p. 69.
[11] Ibid., p. 68.
[12] Ibid., p. 152.
[13] Id., L’etnopsichiatria come quadro di riferimento nella ricerca e nella pratica clinica, cit., p. 73.
[14] Ibid.
[15] Ibid., p. 74.
[16] Ibid., p. 89.
[17] Ibid., p. 85.
[18] Ibid.
[19] Ibid., p. 84.
[20] Id., Psychothérapie d’un indien des Planes, cit., p. 33.
[21] Ibid., p. 40
[22] Cfr. p. 40 e sgg.
[23] Id., L’etnopsichiatria come quadro di riferimento nella ricerca e nella pratica clinica, cit., p. 106.
[24] Id., La schizofrenia, psicosi etnica o la schizofrenia senza lacrime, in Saggi di Etnopsichiatria generale, cit., p. 266.
[25] Cfr. Id., Psychothérapie d’un indien des Planes, cit., p. 149.
[26] Cfr. S. Inglese, Georges Devereux: dietro i nomi, la natura molteplice dell’etnopsichiatria, in Saggi di Etnopsichiatria generale, cit., p. 379.
[27] Ibid.
[28] G. Devereux, Psychothérapie d’un indien des Planes, cit., p. 229
[29] Id., Saggi di etnopsicoanalisi complementarista (1972), Bompiani, Milano 1975, p. 199.
[30] Ibid., p. 200.
[31] Ibid., p. 186.
[32] R. Bastide, Prefazione a G. Devereux, Saggi di Etnopsichiatria generale, cit., p. 17.
[33] Cfr. T. Nathan, Préface a G. Devereux, Ethnopsychiatrie des Indiens Mohave (1976), Syntelabo, Paris 1996.