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Jean Starobinski e la storia della medicina

Autore


Aldo Trucchio

Université de Genève

Indice


  1. La «visione binoculare»
  2. Scienza e mito
  3. Per una storia delle idee senza frontiere
  4. « … mon patient le plus célèbre»
  5. Storia semantica
  6. Medicina e letteratura

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S&F_n. 11_2014

Abstract



Jean Starobinski is well-known for his critical studies on XVIII century French literature, but has also been constantly interested in the history of medicine. Before starting to teach History of ideas and French modern literature at the University of Geneva, he graduated with a thesis on the history of the treatment of melancholy and practised medicine at the Hôpitaux Universitaires de Genève and at the Psychiatric clinic of Cery. His familiarity with both literary theory and scientific practice allowed him to develop what he called a « binocular vision » embracing the progress of the sciences all along with the literary expressions of modern Europeans. This essay aims at exploring the origin and implications of this facet of Starobinski's reflection, focussing on his attempt at understanding aesthetic and artistic expression in its dialectical relation with techno-scientific experience, while respecting the specificity of the two languages.


  1. La «visione binoculare»

Montaigne, Montesquieu, Rousseau: il nome di Jean Starobinski evoca ai più i suoi studi sulla letteratura francese moderna, che hanno radicalmente rinnovato la lettura di questi autori. Con la sola eccezione dei saggi sulla melanconia – solo di recente raccolti in volume[1] – le sue riflessioni sulla storia della medicina restano invece poco conosciute. Eppure, l’attenzione che, come critico letterario, egli porta alla scrittura di sé e all’autopercezione del corpo, deriva direttamente dai suoi interessi nel campo della medicina. Una disciplina che rappresenta da sempre, per Starobinski, qualcosa di decisamente familiare.

I suoi genitori, Aron e Sulka Frydman, ai quali era stata rifiutata l’iscrizione all’Università di Varsavia a causa delle loro origini ebraiche, si erano trasferiti a Ginevra dove erano divenuti entrambi medici[2]. Aron Starobinski, inoltre, era molto attivo nella vita culturale della sua città d’adozione e offriva frequentemente delle conferenze su questioni di igiene pubblica, ma anche di etica e di letteratura. Egli incarnava ancora pienamente quella figura del medico-letterato che era stata tipica del XIX secolo[3].

Da studente universitario di letteratura francese, Starobinski legge Gaston Bachelard su indicazione di Marcel Raymond, del quale è allievo e, dopo la laurea, assistente. Per Raymond, Bachelard ha il merito di proporre, soprattutto nei suoi libri sugli elementi e l’immaginazione[4], una concezione della poesia come concreto rapporto al mondo, cioè come un’alternativa alla scienza moderna, ma altrettanto legittima di quella, nell’indagine sulla realtà. Starobinski condivide senz’altro il punto di vista di Raymond, che resterà centrale nel suo pensiero, ma vi aggiunge, lo vedremo a breve, una maggiore attenzione alla questione bachelardiana della distinzione tra ciò che è scienza e ciò che invece è rêverie, mito, immaginazione. In seguito, Starobinski s’interessa anche alla riflessione di Georges Canguilhem sulla distinzione tra il normale e il patologico, all’impostazione filosofica dei medici vitalisti tedeschi che rifiutano gli approcci riduzionisti e localizzazionisti, come Kurt Goldstein e Viktor von Weizsäcker, e alla rielaborazione delle loro riflessioni da parte di Maurice Merleau-Ponty.

Mentre già lavora a una tesi di dottorato ès Lettres – che descrive a Raymond come un libro su «l’existence masquée»[5], e che diventerà in seguito il noto saggio Jean-Jacques Rousseau: la transparence et l’obstacle[6] – Starobinski fa pratica come medico all’Hôpital Cantonal de Genève e riflette sulla possibilità di addottorarsi anche in storia della medicina con uno studio sui «problèmes de l’organisme chez Descarte»[7]. La pratica medica riveste un’importanza fondamentale nella formazione di Starobinski, nell’elaborazione del suo pensiero e della sua pratica di critico, poiché, come ricorda in una intervista:

il metodo stesso della medicina, cioè una certa sperimentazione del reale, un certo approccio all’uomo che soffre, una certa azione allo scopo di alleviargli il dolore, tutto questo gli studi letterari non me l’avevano dato, e la medicina è stata per me essenzialmente una disciplina formatrice e un’iniziazione al pensiero scientifico. […] La medicina è un campo nel quale bisogna raccogliere dei sintomi, fare delle diagnosi e prendere delle decisioni pratiche e questo per me è stato un apprendistato capitale[8].

Tra la fine degli anni ‘40 e l’inizio dei ‘50, dunque, Starobinski lavora contemporaneamente su due fronti: critica letteraria e storia della medicina. In tal modo, inizia a sviluppare quella che diverrà la sua originale «forma di vita […e] di pensiero», che egli stesso definisce come una «visione binoculare – un occhio sulla medicina e lo sviluppo della scienza e l’altro sull’avventura intellettuale dell’uomo europeo e le sue espressioni letterarie»[9].

  1. Scienza e mito

Dopo la guerra, Starobinski si rende conto che quella sensazione di esclusione, impotenza e angoscia che aveva portato tanti ad aderire ai miti nazionalisti, organicisti e identitari propugnati dai regimi totalitari nazifascisti – e la cui analisi aveva fatto da sfondo ai suoi primi saggi sulla letteratura e la poesia[10] – non è sparita con essi, ma ha assunto nuove forme. In un breve intervento tenuto nel 1946 alle Rencontres Internationales de Genève, Starobinski spiega che quel sentimento era stato generato dalla messa in scena, da parte dei regimi nazifascisti, di una «caricature» della naturale «ambition de totalité»[11] dell’uomo. In altri termini, la spinta politica e ideologica a integrarsi rapidamente in una totalità genera, per contrasto, una sensazione di disagio profondo, di esclusione, di «absence»[12]. Nei suoi appunti del Dopoguerra, oggi consultabili presso lo Schweizerische Literaturarchiv di Berna, Starobinski mette invece in relazione questa tonalità emotiva caratteristica della contemporaneità con lo sviluppo incontrollato delle tecnoscienze, che sempre più spesso appaiono agli uomini come una forma di dominio esterno e incontrollabile, anziché come un loro prodotto. Soprattutto, egli insiste sul fatto che, nella ricerca scientifica, il passaggio dall’analisi dell’inesauribile complessità del reale a una spiegazione univoca, complessiva, insomma totale dei fenomeni osservati, comporta sempre semplificazioni e imprudenti forzature, e assume dunque un valore esclusivamente immaginativo. Anche per questo, la medicina assume un ruolo centrale nelle sue riflessioni.

Tale disciplina, infatti, ha uno statuto essenzialmente duplice, poiché, pur accettando sostanzialmente l’impostazione quantitativa e riduzionista della scienza moderna, si rivolge poi alla totalità dell’uomo e ha per fine qualcosa d’indefinibile in termini quantitativi come il benessere e la salute individuali. È nella medicina, dunque, che la sovrapposizione, o la mancata, distinzione di oggettivo e soggettivo, di scienza e di rêverie, può mostrare tutta la sua pericolosità e ambiguità. Il ginevrino segnala dunque, negli scritti di questo periodo, che la sovrapposizione, o la mancata distinzione, tra pensiero razionale e pensiero mitico, tra scienza e immaginazione, tra soggettivo e oggettivo, genera inevitabilmente delle aberrazioni, sia nel campo della cultura, che in quello della politica.

I primi lavori in storia della medicina di Starobinski, pubblicati su «Critique» tra il 1951 e il 1953, sono appunto caratterizzati dal tentativo di evidenziare gli elementi immaginativi presenti in due sistemi medici all’epoca molto discussi, quello di Alexei Speransky[13] e quello di Hans Selye[14]. Secondo Starobinski, i due medici dalle aspirazioni filosofiche cedono all’ambizione totalitaria della scienza e sacrificano la complessità del reale nel tentativo di trovare una spiegazione unica per i differenti fenomeni osservati in laboratorio.

In particolare, Speransky, nel suo Grundlagen der Theorie der Medizin (1934)[15], afferma che non ci potrà essere una vera teoria della medicina finché non verrà scoperto un metodo in grado di spiegare l’origine unica di tutte le malattie. La sua proposta è che ogni patologia derivi inizialmente da una reazione sbagliata del corpo a determinati stimoli esteriori, un errore originato sempre dal sistema nervoso. «Il n’est pas étonnant dès lors que l’élément nerveux puisse passer pour initial et décisif» – commenta Starobinski, dopo aver sottolineato i progressi recenti della medicina psicosomatica – «sitôt qu’on se refuse à chercher plus loin l’origine des séries causales»[16]. Nelle sue sperimentazioni, Speransky ha ovviamente buon gioco a evidenziare l’importanza della componente nervosa in un gran numero di disfunzioni organiche, ma, una volta rilevata l’importanza del sistema nervoso centrale, egli interrompe arbitrariamente la sua «décomposition»[17] analitica del problema in questione, cioè rinuncia a spiegare i motivi della preminenza del sistema nervoso sugli altri sistemi fisiologici, e si abbandona a considerazioni di ordine puramente ideologico.

Starobinski può dunque concludere affermando che la teoria del sovietico «est l’image d’une société innervée par un parti unique», poiché Speransky «construit l’organisme animal à la façon d’un organisme politique»[18]; e ribadendo che tale «sociomorphisme», presente in alcuni sistemi scientifici, rappresenta «la pensée mythique par excellence»[19]. Difatti, alcune delle rêveries che Starobinski smaschera nei medici-filosofi Speransky e Selye, come l’aspirazione a offrire un nuovo cominciamento alla propria disciplina e l’ambizione di riunire i dati dell’esperienza in un’unica grande teoria, sono traducibili in quelli che aveva definito come miti identitari durante la guerra: la distruzione dell’uomo inautentico, la costruzione dell’uomo nuovo, l’unità del popolo che deve marciare compatto contro le aggressioni da parte di elementi esterni.

  1. Per una storia delle idee senza frontiere

Nel 1953, Starobinski si trasferisce a Baltimora, avendo ricevuto l’invito di Georges Poulet a raggiungerlo presso il Departement of Romance Languages, dove lavora dapprima come instructor per la lingua francese, poi come assistant professor di Letteratura francese. Il soggiorno negli Stati Uniti, per quanto di soli tre anni, si rivelerà essere il momento decisivo della doppia formazione di Starobinski. È difatti una nuova maniera di raccontare il corpo che egli scopre a Baltimora, cioè una storia della medicina non fatta da medici-filosofi (come Goldstein e Canguilhem, certo, ma anche come Selye e Speransky), ma da medici-storici e filologi, nonché da studiosi soprattutto attenti alle implicazioni sociali delle loro ricerche.

Alla Johns Hopkins University, il ginevrino segue assiduamente i corsi di Ludwig Edelstein, che rinnova radicalmente lo studio della storia della medicina antica e in particolar modo di Ippocrate[20], e quelli di Owsei Temkin, autore, tra l’altro, di una fondamentale storia dell’epilessia[21], che sarà uno dei modelli dei saggi sulla storia della medicina di Starobinski. Seguendo l’esempio di Temkin, Starobinski assiste regolarmente ai ward rounds settimanali, nei quali i medici del Johns Hopkins Hospital espongono ai colleghi i casi clinici più interessanti[22]. Inoltre, egli partecipa alle Clinical Pathological Conferences, segue i corsi di psichiatria e di neuro-oftalmologia[23], nonché le attività del gruppo di ricerca di filosofia della scienza. Ma Starobinski partecipa anche, assieme a Poulet, Edelstein e Temkin, alle riunioni dell’History of Ideas Club, creato da Lovejoy nel 1923 e diretto all’epoca da George Boas; segue le lezioni di Alexandre Koyré (che saranno raccolte in From the closed World to the infinite Universe[24]); e frequenta quotidianamente Poulet e il suo collega di dipartimento Leo Spitzer, all’epoca protagonisti di una celebre querelle sull’impostazione soggettiva o formale della critica letteraria[25].

Questa ricerca intellettuale interdisciplinare, tanto vasta da risultare apparentemente confusa e disorganica, non sfocia mai, in realtà, nello smarrimento di una direzione teorica precisa, e Starobinski conserva la continuità con il suo progetto teorico giovanile. Ricordando gli anni di Baltimora, egli racconta in questa maniera il suo percorso di studi:

Mes projets nouaient histoire littéraire, histoire de la pensée médicale, problèmes posés par la psychiatrie contemporaine. Le commun dénominateur ne pouvait être que philosophique, plus exactement anthropologique, au sens le plus général. A partir d’une interrogation première (portant sur le phénomène du masque et sur les attitudes qui dirigent les accusations contre le «monde masqué»), analyses littéraires et recherches guidées par le savoir scientifique, ou portant sur le langage même de la science, pouvaient devenir complémentaires. Ce n’était pas un mariage forcé. J’ai toujours rêvé une histoire des idées sans frontières[26].

La storia delle idee immaginata, teorizzata e infine praticata da Starobinski, attraversa, in effetti, un gran numero di frontiere disciplinari (quelle tra critica letteraria, storia dell’arte, pratica medica, filologia, filosofia, sociologia e storia), nonché i confini esistenti tra tradizioni culturali molto distanti tra loro (pragmatismo americano, organicismo e vitalismo tedeschi, epistemologia storica francese, critica letteraria ginevrina…). Lo sforzo principale di Starobinski è difatti quello di mostrare che l’esistenza di queste frontiere disciplinari è affatto recente e spesso teoricamente ingiustificabile.

Per rimediare a ciò, diviene allora importante rivolgere l’attenzione a tutte le esperienze umane, a tutte le maniere nelle quali l’uomo si relaziona al mondo e agli altri: l’analisi di una ricerca scientifica, di un testo poetico o letterario, di un’opera d’arte e persino del corpo del paziente disteso sul letto d’ospedale divengono altrettante maniere di situarsi là dove:

toutes les prétentions scientifiques sont à la fois conservées et questionnées sur leur source et leurs sens, – où l’esprit se retrouve enfin en face de lui-même et du réel, dans une incertitude vigilante qui, sans rien refuser, ne consent à se plier toutefois à aucun système d’autorité, pour objective qu’il se prétende [...][27]

I tre anni a Baltimora si rivelano in tal senso cruciali per Starobinski. Alla fine di questo percorso, i suoi strumenti intellettuali sono abbastanza affinati da permettergli di terminare la redazione e discutere la sua tesi mentre esercita la professione medica (nell’Ospedale psichiatrico di Cery) e riflette teoricamente su di essa. Non è un caso che i tre insegnamenti che Starobinski impartirà nella sua carriera di professore universitario, che inizia ufficialmente meno di due anni dopo il rientro da Baltimora, saranno quelli di Histoire des idées, Langue et littérature françaises e Histoire de la médecine.

  1. « … mon patient le plus célèbre»[28]

Negli anni di Baltimora, Starobinski dedica un saggio alla medicina psicosomatica[29] e un altro al test di Rorschach[30], che saranno rielaborati in occasione della redazione di La relation critique[31]. Ma è soprattutto nei suoi studi su Rousseau ch’egli mette in pratica la lezione appresa a Baltimora. Nella sua tesi, Starobinski cerca un approccio «physionomique» all’insieme del sistema «apparemment si multiforme» di Rousseau, per districarsi all’interno della sua opera, «dans cette fusion et dans cette confusion de l’existence et de l’idée» che è caratterizzata tanto dalla «dispersion de ses tendances», quanto dall’ «unité de ses intentions»[32]. In questo sistema, dunque, egli parte alla ricerca «des images, des désirs obsessionnels, des nostalgies, qui dominent la conduite de Jean-Jacques et orientent ses activités d’une façon à peu près permanente»[33]. E una delle idee fisse che attraversano l’opera di Rousseau è quella della sua malattia, di un disturbo alle vie urinarie che è assieme un enigma per i medici che lo visitano e oggetto di chiacchiere e calunnie da parte dei suoi numerosi nemici, veri o presunti tali.

Nella sua tesi, Starobinski dedica pagine notevolissime a questo tema, che troveranno una continuazione in un articolo di poco successivo per «Yale French Studies», sul quale vale la pena di soffermarsi brevemente. Starobinski vi redige la lista delle affezioni che sono state attribuite a Rousseau: melanconia, sifilide, nevrosi, degenerazione, delirio d’interpretazione, paranoia, schizofrenia, omosessualità latente con reazione isteriforme, nefrite, delirio tossico dovuto a una malformazione delle vie urinarie, stenosi dell’uretra prostatica…[34] In effetti, seguendo questa traccia sarebbe possibile scrivere una breve storia della medicina degli ultimi secoli e delle scuole e tendenze dominanti in periodi successivi: dalla scoperta della causa infettiva di alcune malattie, alla nascita del metodo sperimentale, alla psichiatria, alla psicanalisi, all’attenzione contemporanea per le lesioni d’organo.

Ma, osserva Starobinski, le diagnosi che si sono accumulate nel tempo sono in realtà divisibili in due grandi gruppi: o la malattia è considerata come appartenente al nucleo fondamentale della personalità di Rousseau, o, al contrario, essa viene vista come un parassita che lentamente si impadronisce del suo corpo e del suo spirito. In entrambi i casi, ciò che fanno i vari interpreti «c’est oublier que le nom de la maladie n’est qu’un être de raison, et que la seule réalité concrète est le comportement de l’homme malade»[35]. Ogni decisione sulla normalità o la patologicità di un fenomeno, ogni discussione sul normale e l’anormale non fa altro che riflettere le norme esistenti in ogni periodo storico, in ogni contesto sociale. Di conseguenza, nella sua tesi, Starobinski afferma che «l’histoire, qui prétend de juger Rousseau, fait appel à ses propres normes»[36], e che quindi la molteplicità delle diagnosi, come delle critiche, che sono state rivolte Rousseau nel corso dei secoli, non attesta nulla, se non lo scarso valore e la transitorietà di quelle stesse norme.

A onor del vero, anche Starobinski, vestendo i panni del medico-filosofo, non resiste alla tentazione di tentare una diagnosi: la patologia dalla quale Rousseau è affetto deriverebbe da una contraddizione che troviamo al centro del suo sistema. Egli è un intellettuale, ma attribuisce alla riflessione un carattere negativo – e qui risiede la vera «aliénation»[37] di Rousseau, nel senso psichiatrico del termine, che lo porta a duplicarsi nelle pagine più «délirantes»[38] dei Dialogues. Ma non possiamo qui mettere in gioco la complessa lettura che Starobinski fa di Rousseau e dobbiamo limitarci a trovarvi le tracce dei suoi interessi nel campo della storia della medicina.

Potremmo allora affermare che la malattia di Rousseau non esiste al di fuori dei suoi scritti, della sua testimonianza. Nessuna traccia ne viene trovata sul suo corpo durante l’autopsia che egli stesso aveva richiesto. L’oggetto della riflessione dello storico e del critico, quindi, non può essere la pollachiuria di Rousseau, ma l’importanza che essa assume nei suoi scritti e, in seguito, nei commenti alla sua opera. Ecco apparire chiaramente quella che sarà la caratteristica fondamentale degli studi starobinskiani in storia della medicina, e che mostra chiaramente la sua originale declinazione di un pensiero che, più che filosofico, sarebbe corretto definire come «critico»[39]. Si può parlare della malattia di Rousseau solamente in relazione all’altro da lui, ai suoi contemporanei, alla sua società. La malattia di Rousseau è una risposta ai problemi posti dalla sua epoca; e le interpretazioni e le diagnosi che si susseguono dopo la sua morte sono altrettante immagini delle epoche nelle quali esse vengono elaborate.

Qui forse troviamo una delle chiavi per comprendere l’originale umanismo di Starobinski. In nessun momento si tratta di accedere a una verità oggettiva celata dietro le visioni soggettive o gli effetti sociali di una data questione: lo scopo è piuttosto rendere conto della complessità della realtà che ha generato quelle visioni e quegli effetti. Il suo lavoro di critico è quindi «de découvrir, de mettre en relation, d’organiser un parcours, de mettre en cause, directement ou indirectement, nos certitudes présentes»[40]. A tal fine, egli mette in gioco tutte le sue conoscenze e le sue risorse scientifiche, senza mai cessare di esercitare la sua «vigilance philologique»[41], consistente nel riportare il senso delle parole presenti nei documenti oggetto di studio al contesto dell’epoca in questione; e nel tenere sempre presente la storia delle arti poetiche, della retorica e dei luoghi comuni[42].

  1. Storia semantica

Dopo aver discusso la sua tesi in letteratura francese su Rousseau e dopo aver lavorato ancora un paio d’anni come medico presso l’Ospedale psichiatrico di Cery, Starobinski viene chiamato a insegnare all’Università di Ginevra e sceglie, per la cattedra che gli viene attribuita ad personam, la denominazione di Histoire des idées. La sua attività medica cessa in quel momento – almeno ufficialmente, poiché, grazie ai documenti conservati a Berna, sappiamo che egli continua in realtà a interessarsi in particolare ai nuovi farmaci psichiatrici e a offrire consigli ad amici e conoscenti. Ma l’interesse per la storia della medicina resta una costante del suo percorso intellettuale, tanto che Starobinski, già da professore universitario, discute una seconda tesi intitolata Histoire du traitement de la mélancolie, già destinata a esser pubblicata per gli Acta psychosomatica dei laboratori Geigy di Basilea[43]. Una volta abbandonato il progetto su Descartes a causa della sua scarsa originalità[44], Starobinski si appassiona a questo nuovo soggetto, al quale dedicherà in seguito numerosi altri studi.

Il tema della melanconia gli permette di combinare la sua esperienza di medico con i pazienti psichiatrici, le sue raffinate conoscenze storico-letterarie e i suoi progetti giovanili. La sua prima idea di tesi in letteratura, come abbiamo visto, concerneva il tema dell’esistenza mascherata e dello smascheramento delle menzogne, e Starobinski aveva notato che un’attitudine melanconica accompagna spesso chi denuncia le apparenze e le convenzioni del mondo, poiché egli soffre di non essere capace di aderire alla realtà esterna così com’essa è[45]. Ma, come indicato già nel titolo, il soggetto di questo saggio è costituito piuttosto dalle maniere di curare la malinconia che si sono succedute nel tempo, tenendo sempre presente che l’oggetto «malinconia» – come e ancor più che l’oggetto «malattia di Rousseau» – non esiste di per sé, non ha un’essenza che resta invariata nel corso dei secoli, non nasconde un fatto dietro l’accumulazione di interpretazioni. Ciò che resta della parola che Ippocrate aveva utilizzato per indicare gli effetti della prevalenza della «bile nera» sul comportamento degli esseri umani è, appunto, una parola. Il saggio di Starobinski si occupa allora di rintracciarne le successive significazioni, soprattutto attraverso la storia del pharmakon più adatto, che viene, di volta in volta, raccomandato dai medici.

Che cosa indica, allora, questa «persistence»[46] della parola melanconia? Un gusto per la continuità verbale, certo, che è, però, funzionale all’affermazione dell’unità della pratica medica – del suo potere, del suo ruolo sociale – attraverso i secoli. La parola melanconia ha indicato malesseri molto differenti e addirittura dai sintomi opposti: depressione, schizofrenia, ansia, paranoia. Grazie all’analisi di Starobinski, vediamo allora come la scienza medica contemporanea si sia costituita attraverso una lunga serie di scissioni, contraddizioni, opposizioni e definizioni successive, sempre più precise e dettagliate; e lo stesso vale per numerosi studi successivi, sulla clorosi[47], sulla nostalgia[48], sulla cenestesia[49] o sul percorso che porta la parola «réaction» dalla fisica alla psichiatria[50]. Questo, almeno, è quello che il medico-storico di oggi vede rivolgendosi al passato. Ma il pensiero critico di Starobinski intende abbracciare una complessità ben superiore. Non occorre difatti dimenticare, a causa del punto di vista necessariamente parziale che abbiamo adottato in questo percorso, che l’attività principale di Starobinski concerne la letteratura francese moderna; e che la melanconia è uno dei topoi letterari occidentali, nonché uno dei soggetti di elezioni di molti dei suoi autori, da Montaigne a Rousseau, da Diderot a Baudelaire, da Balzac a Flaubert.

La caratteristica peculiare del pensiero critico starobinskiano, allora, è che esso non si limita ad analizzare parallelamente la maniera estetica e quella scientifica di guardare a un certo fenomeno. Nei suoi saggi di storia semantica, ma anche nei suoi lavori sulla letteratura francese del XVIII e XIX secolo, Starobinski non contrappone, né confonde, linguaggio letterario e linguaggio scientifico, ma indaga piuttosto le maniere nelle quali i saperi estetici hanno reagito all’affermarsi inarrestabile e all’innegabile efficacia delle scienze esatte. Essendo assieme medico e letterato, Starobinski sa ben distinguere ciò che nell’uomo è accessibile grazie a un approccio riduzionista e biologico, e ciò che, al contrario, non è riducibile a un sistema di oggetti naturali scientificamente analizzabili, ma necessita di un tipo di indagine differente. Là dove la maggior parte degli storici delle idee ha elencato le reazioni alla «mécanisation de l’image du monde» operata dalla scienza moderna – preminenza delle scienze umane, delle scienze esatte, rinvio a un’origine comune delle due, ricerca di un’unità futura – Starobinski si domanda se all’origine della nostra epoca non dovremmo piuttosto cercare una serie di «redistributions» e di «ajustements compensatoires»[51] tra questi due campi del sapere. Ancora una volta rivendicando l’esempio di Bachelard, Starobinski si mette allora a praticare un «bilinguisme radical»[52] che tiene conto dell’«existence simultanée», così come dell’«alternance rythmée»[53], di ragione e immaginazione, di scienza e poesia, nella storia intellettuale occidentale moderna.

  1. Medicina e letteratura

Nel corso dei secoli XVII e soprattutto XVIII, le scienze esatte, cioè «mathématiques, physique, mécanique, astronomie», forniscono «des preuves évidentes de leur pouvoir»[54]: esse non hanno bisogno di legittimare la propria esistenza, poiché sono immediatamente efficaci e persino in grado di correggere se stesse, cioè di evolvere sulla base di nuove evidenze sperimentali. Di conseguenza, sono i saperi umani ed estetici a ritrovarsi privi di legittimazione: le espressioni artistiche della cultura vengono sempre meno considerate come una maniera di conoscere se stessi e il mondo, e sempre più una semplice traduzione intima, soggettiva e individuale, della realtà esteriore. Per tutti questi motivi, Starobinski considera il XVIII secolo come la vera origine della nostra contemporaneità, come un’epoca caratterizzata dalla scissione definitiva tra linguaggi estetici e linguaggi scientifici, nonché dalla ricerca di una nuova legittimazione dei primi. Una separazione e una ricerca che non hanno ancora cessato di proiettare le loro luci e le loro ombre su di noi[55].

Tuttavia, è solo nel XIX secolo che la medicina entra a pieno titolo in questa complessa vicenda. Innanzitutto, perché la medicina moderna è una disciplina giovane[56], visto che l’utilizzazione sistematica dell’analisi quantitativa e del metodo sperimentale si affermano definitivamente solo con gli studi di Claude Bernard. In secondo luogo, perché gli esperimenti di Bernard, così come la psicopatologia di Jean-Martin Charcot, divengono, in quest’epoca, oggetto di discussione per la «petite foule» che decide del «climat intellectuelle»[57] del momento, e quindi entrano a far parte del dibattito culturale a pari merito con la politica e, appunto, l’arte e la letteratura. Di conseguenza, la letteratura e la medicina si trovano a competere nello stesso campo della descrizione patologica dell’essere umano – nella quale saranno ben presto seguite dall’antropologia negativa del XX secolo, in seguito alla frantumazione dei grandi sistemi filosofici.

Si assiste in tal modo alla nascita di una letteratura – da Balzac a Zola, da Flaubert a Huysmans – che «prétend rivaliser avec le laboratoire»[58] nell’esposizione di casi patologici, ma riscattando artisticamente la descrizione e l’esposizione oscene del corpo nudo dei malati, delle urla dei folli o dei cadaveri sezionati durante le frequenti dimostrazioni anatomo-patologiche pubbliche. La risposta della letteratura è quella di offrire la priorità nella narrazione al corpo dei protagonisti; che non è più, come nella tragedia classica, il luogo dove le passioni più estreme si scatenano, portando i personaggi alla morte e alla follia, ma piuttosto il nodo dove convergono, in maniera deterministica, le tare ereditate dalla famiglia e i condizionamenti derivanti dalle relazioni sociali.

Così, ad esempio, in un saggio intitolato Portrait de l’artiste en saltimbanque, Starobinski si sofferma sulla fascinazione che acrobati e pagliacci esercitano, nel XIX secolo, su artisti, pittori e scrittori, riportando al centro della scena quel corpo tanto spesso dimenticato dalla storia borghese. E si chiede quale sia la causa di questa riscoperta, di questa «identification»[59] tra l’artista e il saltimbanco, se essa non sia da imputare alla ricerca di una nuova legittimità dei linguaggi estetici a partire proprio dal corpo. O, ancora, in un minuzioso articolo su Madame Bovary, Starobinski analizza la maniera in cui Flaubert descrive il vissuto cenestesico della protagonista, soprattutto per quanto riguarda la temperatura del corpo e, dopo aver affermato che il linguaggio del corpo, a causa della sua «inarticulation», è forse l’unica forma di espressione umana libera dal «poncif», cioé dall’influenza delle «idées reçues» e delle «formules toutes faites»[60], conclude domandandosi:

Mais cette vérité du sentir, si proche de la muette vérité des choses, à la frontière du rien, quelle forme saura la retenir et la communiquer pour d’autres, par-delà les frontières du corps singulier ? Pour répondre à ces questions, il faudrait analyser à nouveau tout notre corpus d’exemples corporels, et y ajouter maintes autres pages où, sur fond de silence, les artères battent et la poitrine se serre [...][61]

L’analisi storico-letteraria e storico-scientifica ha sempre il fine, in Starobinski, di porre chiaramente dei problemi di stringente attualità: quale forma può descrivere efficacemente il vissuto di un individuo, la sua autopercezione del corpo; e quale linguaggio è legittimato, oggi, a farlo? Con tale domanda siamo arrivati alla fine del nostro percorso all’interno della riflessione starobinskiana sulla storia della medicina; cioè a un’interrogazione la cui risposta, parziale, temporanea, relativa, è l’opera stessa, intera, di Starobinski, e quindi i suoi lavori su Montaigne, Montesquieu, Rousseau.


[1] Cfr. http://www.scienzaefilosofia.it/recensioni_2524599.html#staro

[2] Cf. J. Starobinski, Discours pour le Prix de la Fondation pour Genève, 5 mai 2010, ora in Notre seul, notre unique jardin, Zoé, Genève 2011, pp. 6-7.

[3] Cfr. J.-B. Montfalcon, alla voce Médecin del Dictionnaire des sciences médicales, Panckoucke, Paris 1819, vol. XXXI, p. 281.

[4] G. Bachelard, La Psychanalyse du feu, Gallimard, Paris 1938; Id., L’Eau et les Rêves: essai sur l’imagination de la matière, José Corti, Paris 1941; Id., L’Air et les Songes: essai sur l’imagination du mouvement, José Corti, Paris 1943.

[5] J. Starobinski, Lettera a Marcel Raymond del 18 dicembre 1955 (Bibliothèque de Genève, ms. fr. 6988).

[6] Id., Jean-Jacques Rousseau: la transparence et l’obstacle, Plon, Paris 1957.

[7] Id., Lettera a Marcel Raymond del 18 dicembre 1955, cit.

[8] Id., La maschera e l’uomo, Casagrande, Bellinzona 1990, pp. 13-14.

[9] Ibid., p. 15.

[10] Cfr. Id., Introduction à la poésie de l’événement, in «Lettres», 1, 1943, pp. 12-23; Id., Situation de Pierre Jean Jouve, in Id., P. Alexandre, Marc Eigeldinger, Pierre Jean Jouve, poète et romancier, La Baconnière, Neuchâtel 1946, pp. 9-53; Id., Interrogatoire du masque, in «Suisse Contemporaine», 2, 3, 4, 1946, pp. 153-159, 209-221 e 358-376.

[11] Id., intervento alle Rencontres Internationales de Genève, pubblicato in L’esprit européen. Textes R.I.G. 1946, La Baconnière, Neuchâtel 1947, p. 239.

[12] Cfr. Id., Le rêve architecte. A propos des intérieurs de Franz Kafka, in «Lettres», 23, 1947, p. 26; Id., La présence au monde, in Incertaine planète. Textes R.I.G. 1995, La Baconnière, Neuchâtel 1996, p. 25.

[13] Id., Une théorie soviétique de l’origine nerveuse des maladies, in «Critique», 47, 1951, pp. 348-362.

[14] Id., La sagesse du corps et la maladie comme égarement: le stress, in «Critique», 59, 1952, pp. 347-360.

[15] A. D. Speransky, Grundlagen der Theorie der Medizin, Sänger, Berlin 1950. 

[16] Id., Une théorie soviétique de l’origine nerveuse des maladies, cit., p. 356.

[17] Ibid., p. 358.

[18] Ibid., p. 361.

[19] Ibid.

[20] L. Edelstein, The Hippocratic Oath: Text, Translation, Interpretation, John Hopkins University Press, Baltimore 1943.

[21] O. Temkin, The Falling Sickness. A History of Epilepsy from the Greeks to the Beginnings of Modern Neurology, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1945.

[22] Cfr. V. Barras, Entretien avec Jean Starobinski, in «Médecine et Hygiène», 1862, 1990, pp. 3294-3295.

[23] Cfr. J. Zanetta, Entre Genève et Baltimore: Jean Starobinski à Johns Hopkins, », in MLN, CXXIV, 4, 2009, p. 993.

[24] A. Koyré, Du monde clos à l’univers infini, Gallimard, Paris 1973.

[25] Cfr. G. Poulet, La distance intérieure. Études sur le temps humain, II, Plon, Paris 1952, pp. 12-34 e L. Spitzer, A propos de la Vie de Marianne. Lettre à M. Georges Poulet, in «Romanic Review», 44, 1953, pp. 102-126.

[26] J. Bonnet, Entretien avec Jean Starobinski, in Jean Starobinski. Cahiers pour un temps, Centre Georges Pompidou, Pandora, Paris 1985, p. 21.

[27] J. Starobinski, Considérations sur l’état présent de la critique littéraire, in «Diogène», 74, 1971, pp. 91-92.

[28] Così Jean Starobinski si riferisce talvolta a Rousseau durante le sue conferenze.

[29] J. Starobinski, La médecine psychosomatique, in «Critique», Paris, 81, 1954, pp. 165-181.

[30] Id., Des taches et des masques, in «Critiqu», 135/136, 1958, pp. 792-804.

[31] Id., La relation critique, Gallimard, Paris 1970.

[32] Id., Préface, in E. Cassirer, Le problème Jean-Jacques Rousseau, Hachette, Paris 1987, p. XVIII.

[33] Id., Jean-Jacques Rousseau. La transparence et l’obstacle, cit., p. 9.

[34] Cfr. Id., La maladie de Rousseau, in «Yale French Studies», 28, 1962, pp. 64-74.

[35] Ibid., p. 436.

[36] Id., Jean-Jacques Rousseau. La transparence et l’obstacle, cit., p. 240.

[37] Ibid., p. 253.

[38] Ibid., p. 241.

[39] Cfr. C. Colangelo, Il richiamo delle apparenze, Quodlibet, Macerata 2001, pp. 92-118.

[40] J. Bonnet, Entretien avec Jean Starobinski, cit., p. 13.

[41] J. Starobinski, La relation critique, cit., p. 14.

[42] Cfr. Id., La parole est moitié à celuy qui parle, entretiens avec G. Macé, La Dogana/France Culture, Genève 2009, p. 11.

[43] Id., Histoire du traitement de la mélancolie, des origines à 1900, in «Acta Psychosomatic», 3, J.R. Geigy, Bâle 1960.

[44] Cfr. V. Barras, Entretien avec Jean Starobinski, cit., p. 3294

[45] Cfr. Id., La maschera e l’uomo, cit., pp. 17-18.

[46] Id., Histoire du traitement de la mélancolie, des origines à 1900, cit., p. 9.

[47] Id., Sur la chlorose, in «Romantisme», XI, 31, 1981, pp. 113-130.

[48] Id., La leçon de la nostalgie, «Médecine de France», 129, 1962, pp. 6-1; Id., La nostalgie: théories médicales et expression littéraire, in Transactions of the first international congress on Enlightenment, IV. Studies on Voltaire and the eighteenth century, XXVII, Genève 1963, pp. 1505-1518; ripreso e sviluppato in «Diogène», Paris, 54, 1966, pp. 92-115.

[49] Id., Le concept de cénesthésie et les idées neurophysiologiques de Moritz Schiff, in «Gesnerus», 34, 1977, pp. 2-20.

[50] Ora in Id., Action et réaction. Vie et aventure d’un couple, Seuil, Paris, 1999.

[51] Id., Langage poétique et langage scientifique, in «Diogène», 100, 1977, p. 147.

[52] Id., La double légitimité, in «Revue internationale de philosophie», XXXVIII, 150, 1984, p. 236.

[53] Ibid., p. 234.

[54] Id., Langage poétique et langage scientifique, cit., p. 141.

[55] Cfr. Id., 1789. Les Emblèmes de la Raison, Flammarion, Paris 1973.

[56] Id., (con N. Bouvier), Histoire de la médecine, Rencontre, Lausanne 1963, (pubblicazione non autorizzata), p. 7.

[57] Id., Segalen aux confins de la médecine, in V. Segalen, Le clinicien ès Lettres, fata morgana, Montpellier 1980, p. 17.

[58] Ibid., p. 18.

[59] Id., Portrait de l’artiste en saltimbanque, Skira, Genève 1970, p. 9.

[60] J. Starobinski, L’échelle des températures: lecture du corps dans Madame Bovary, in Le temps de la réflexion, Gallimard, Paris 1980, t. I, p. 182.

[61] Ibid., p. 183.

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