S&F_scienzaefilosofia.it

Interdisciplinarietà e innovazione

Autore


Rossella Bonito Oliva

Università di Napoli "L'Orientale"

Dipartimento di Scienze Umane e Sociali

Indice


  1. Un tutto coordinato e complesso
  2. Immagini d’artisti e di scienziati
  3. Adattamenti reticolari
  4. Pensiero multidimensionale come antidoto all’interdisciplinarietà
  5. Il metodo? Le spirali di una conchiglia

↓ download pdf

S&F_n. 11_2014

Abstract



Talking about Interdisciplinary means to define methodological ranges and spheres of research which in the progress of Knowledge seem to open wide in a more and more significant way. But on the back of the order of things it seems to arise the only Mind that, in different spheres, always goes toward the connection of phantasy, representation and reason.

  1. Un tutto coordinato e complesso

Uno dei più versatili e geniali studiosi del nostro tempo, Stephen Jay Gould in una raccolta di saggi, I Have Landed, sottolinea il salto prodottosi tra l’epoca di Bacone che si ripromise la “grande instaurazione” della conoscenza umana nel dominio di tutto il sapere e il momento in cui si produce l’allargarsi delle conoscenze e il successivo loro «frammentarsi in discipline dai confini sempre più rigidi e ben sorvegliati dall’interno»[1]. Questo salto non ha dissuaso gli scienziati dal coltivare interessi artistici o filosofici, né tanto meno filosofi e artisti a inoltrarsi nel campo della scienza. Sorge allora la domanda sulla legittimità di ogni tipo di interdisciplinarietà, non nel senso dei tentativi intrapresi, confermati da esempi in cui potremmo includere lo stesso Gould, ma sul valore di queste incursioni in campi diversi da quelli in cui ciascuno di questi pensatori viene riconosciuto come professionista, rendendolo per tutto il resto, indipendentemente dagli sforzi, un dilettante. La risposta non può che prendere atto del fatto che il dialogo tra i saperi, più o meno riuscito, più o meno felice, costituisce un ingrediente fondamentale del processo culturale, nonostante la rigidità dei confini e la sorveglianza che ogni scienza esercita al suo interno per evitare tanto sconfinamenti, quanto invasioni. Nella prospettiva di Gould la difficoltà del dialogo sorge più dal controllo compiuto all’interno degli ambiti disciplinari, che da un impedimento reale a passare da un registro all’altro. In realtà il dibattito sulle differenze di approccio tra scienze della natura e scienze umane ha una lunga tradizione, che sarebbe lungo ricordare. Quanto può mantenere fruttuoso il confronto è l’assunzione del fattore di mobilità dell’esperienza e della conoscenza in qualsiasi campo, che trattiene dalla ricaduta negli specialismi conflittuali, come dalla tentazione di stabilire una gerarchia tra saperi indipendentemente dalle visioni del mondo, dagli interessi o degli obiettivi che li animano.

Ancora Gould, riprendendo Nabokov, ricorda che «non esiste scienza senza fantasia, né arte senza fatti», mettendo a nudo il fatto che la mente umana lavora per immagini elaborando fatti: ha un’istanza fondamentalmente pragmatica e procede a partire dai dati dell’esperienza tradotti in una visione d’insieme nell’unica mente da cui procede ogni avventura conoscitiva. In definitiva se la spinta proviene dal desiderio di conoscenza, gli obiettivi sono raggiunti attraverso una metodologia che disciplina questo desiderio e si perfeziona nella messa a punto di modelli sulla base della tradizione e dei nuovi strumenti di osservazione e sperimentazione. Nonostante confini e difese d’ufficio di ambiti diversi, «la creatività umana sembra lavorare in larga misura come un tutto coordinato e complesso, quale che sia la diversa enfasi richiesta da materie molto diverse – e se ci limiteremo a sottolineare le distinzioni esterne di queste ultime ignorando l’unità della procedura interna, finiremo per lasciarci sfuggire l’aspetto comune di fondo»[2]. Là dove l’ordine dei discorsi determina divisioni, l’«aspetto comune di fondo» rimane l’unità della mente umana nell’intreccio tra desiderio, capacità di osservazione e gratificazione per i risultati che caratterizza scienza e arti in quanto espressioni dell’unica creatività umana.

 

  1. Immagini d’artisti e di scienziati

È necessario perciò richiamare quell’aspetto comune di fondo, il cui paradigma di lettura e di interpretazione si è trasformato nel tempo per il succedersi e accrescersi delle esplorazioni e delle scoperte. In questo percorso la ricerca di una legittimazione sulla base del principio dell’unità della conoscenza ha prodotto successivamente egemonie interpretative, orientando in senso neurologico, psicologico, psicanalitico gli studi, adottando come valido il metodo anatomico, causalistico o ermeneutico. Nell’unica tensione alla conoscenza, il privilegiamento della descrizione, della spiegazione, dell’interpretazione ha caratterizzato approcci diversi e determinato una rappresentazione dell’uomo sulla scorta della tradizione e insieme in maniera innovativa le credenze, le decisioni e i costumi. Da questo punto di vista se l’affinamento degli strumenti di studio ha permesso di allargare lo sguardo su un maggior numero di elementi e processi, non ha tuttavia azzerato l’intervallo tra ciò che l’uomo è in grado di costatare e ciò che é in grado di comprendere, tra il piano della conoscenza e lo sfondo da cui prende corpo l’attività in senso lato degli individui. In ogni sistema di lettura agisce una chiave come condizione di accesso al profilo significativo di quanto ci appare, individuando i nessi e l’architettura di determinati fenomeni: dall’idea della teleologia a quella della risposta meccanica agli stimoli per finire alle condizioni logiche che presiedono alle reazioni di ogni organismo. Allo stesso modo nella mente umana la possibilità di rendere visibili reti neurali, sinapsi fornisce una chiave interpretativa e un modello ermeneutico che interagisce con la percezione di sé dell’uomo. Al di là delle metodologie e degli approcci diversi, perciò, la possibilità di un’interdisciplinarietà decide in primo luogo nella rappresentazione delle operazioni della mente da cui si generano le connessioni, anche quelle tra i saperi.

Se la mente umana secondo Aristotele conosce per immagini, proprio l’uso di queste secondo Gould consente di cogliere il nesso tra l’opera dello scienziato e l’opera dell’artista nella comune esperienza del mondo e degli altri. «Quando gli scienziati fanno proprio il mito secondo il quale le teorie scaturiscono esclusivamente dall’osservazione, tralasciando di esaminare le influenze personali e sociali emergenti dalla loro stessa psiche, non solo interpretano erroneamente le cause che portano a modificare le proprie opinioni, ma possono anche non riuscire a comprendere il mutamento psicologico profondo e dilagante codificato dalla loro stessa nuova teoria»[3]. Non si può accusare Gould di essere un biologo dilettante, per cui è da prendere molto sul serio quanto osserva a proposito delle conseguenze delle argomentazioni di Blumenbach ritenuto il padre delle teorie sulla razza[4]. Da questo punto di vista se le ipotesi e le enunciazioni delle leggi rispondono della pertinenza e congruenza rispetto alla realtà indagata, lo scienziato non può non tener conto dei presupposti e degli effetti della sua teoria che spesso si chiariscono in un terreno esterno alla ricerca, sia pure a essa intrecciato per la condivisione di una specifica domanda del tempo, più che del singolo ricercatore: tutto quanto l’immagine restituisce. In altri termini l’immagine è carica della prospettiva culturale in cui si colloca tanto la ricerca quanto l’enunciazione di un paradigma, più che essere un’ingenua riproduzione del dato, essa rinvia all’intervallo tra l’interrogazione teorica e il materiale indagato portando allo scoperto nel processo d’ideazione lo scarto soggettivo e prospettico: nell’arte come nella scienza la mente si fa collettore e traduttore di aspettative, intenzioni e risoluzioni nella consonanza con il corpo che si specializza e si potenzia anche attraverso i suoi strumenti: ogni sua espressione si lega alla sua capacità di risposta a problemi emergenti. Questo non comporta una rinuncia, ma l’assunzione del contesto di connessioni in cui i saperi si generano, si confrontano e si sostengono: essere nel vero non comporta un allontanamento, ma la coscienza di un cammino sempre aperto di cui la verità costituisce la stella polare. Ogni forma in linguaggi diversi parla di questa avventura del pensiero umano, portando allo scoperto la sua feconda incompiutezza e la responsabilità di ogni teoria verso tutto quanto riesce o meno a dire o a provocare, come ha ricordato Gould a proposito di Blumenbach.

 

  1. Adattamenti reticolari

Di fatto proprio dalle più rigorose analisi scientifiche emerge l’impossibilità di raggiungere semplificazioni nei processi viventi, al cui interno tanto un’univoca evoluzione, quanto la regolarità vengono smentiti da un’osservazione capace di spingersi in profondità. A. Portmann, in Lo studioso della natura afferma che «[…] la funzione globale dello scienziato naturalista può essere riconosciuta soltanto da chi sia capace di intuire il vasto e misterioso mondo interiore, la grandezza del profondo creativo inconscio, da chi sa che, soltanto attraverso questa attività nascosta, la realtà esterna è in grado di trovare la sua collocazione e il suo significato»[5]. Si tratta di trovare chiavi di lettura della complessità dei legami del vivente, non certo passando da un registro materiale a uno ideale, o correggendo l’occhio prospettico con la mente logica, ma trovando la traccia dell’intreccio tra staticità e movimento, tra ritardo e adattamento, tra entropia e ordine in cui la stessa distinzione rigida tra un soggetto osservatore e un oggetto osservato viene meno. Dovunque si ripete in modo differente un’interazione tra organismo e ambiente che non è mai neutrale né statica, se è vero che ogni organismo ha una modalità di relazione, una percezione di sé all’interno dell’ambiente attraverso il sistema sensoriale da cui riceve input non solo puntuali, partecipando di una totalità più ampia di connessioni tra i diversi organismi e mondo. Né l’organismo, né l’ambiente hanno uno status di fissità o di assolutezza, ma si intrecciano secondo la duplice istanza del principio di conservazione delle strutture consolidate e della necessità di trasformazione: l’ambiente provoca, sollecita fino a portare al punto di crisi queste strutture, che sono perciò identificative di un carattere e difensive di uno status allo stesso tempo. Il metodo da solo non garantisce la congruenza di una scoperta, anche se mette in chiaro strumenti e percorso della ricerca, nella misura in cui ogni indagine si trova dinanzi una rete di connessioni che si allarga piuttosto che una serie di parti che si assommano.

Bateson suggerisce di partire dall’entropia come «grado di mescolanza, disordine, indifferenziazione, imprevedibilità e casualità delle relazioni tra le componenti di un qualunque aggregato», non solo fisico[6]. L’entropia negativa è la risposta del vivente in quanto ristabilimento di condizioni di equilibrio nella risultante delle due tendenze: quella conservativa dell’organismo e quella destabilizzante proveniente dall’ambiente. Nella loro circolarità vita della natura e vita della mente, perciò, non hanno né un andamento lineare, né un andamento circolare, configurandosi piuttosto come un complesso reticolo che si dispone lungo una spirale in cui ogni trasformazione proviene e incide sui tratti già consolidati e ogni capacità di conservazione decide sulla possibilità di sopravvivenza dell’organismo allo choc ambientale. Quanto più l’organismo è in grado di attivare relazioni tanto più è stimolato alla tensione tra conservazione e trasformazione, dal momento che le informazioni che riceve dipendono dalle differenze tra organismo e ambiente e la capacità di attivare un’entropia negativa è data dalla forza con cui esso annulla gli effetti di imprevedibilità, di disordine che potrebbero determinarne la morte. Nell’allargarsi del raggio e nel moltiplicarsi delle sinuosità scorre il mistero che richiede di spostarsi dall’astrazione quantitativa e polarizzante all’intuizione della continuità del ritmo del divenire: ogni processo è difesa del consolidato e adattamento ai mutamenti continui e imprevedibili dell’ambiente, il risultato è sempre derivante nella sua configurazione e nella sua durata delle due componenti e dalla lenta verifica del successo delle mutazioni, prima provvisorie, poi consolidate, ai fini della sopravvivenza. In definitiva se si potesse fornire un modello per le possibili immagini della realtà della vita, questa dovrebbe essere in grado di restituire il movimento più che la fissità, la profondità più che la superficie, il mutamento più che l’essenza della realtà osservata.

 

  1. Pensiero multidimensionale come antidoto all’interdisciplinarietà

Da questo punto di vista ogni scienziato deve essere consapevole di promuovere con le sue scoperte una visione del mondo, che incide sulla percezione di sé dell’uomo e alla fine su quelle connessioni che sempre la mente umana condivide con il mondo circostante. Al di là della rigorosità della ricerca, l’opera dello scienziato entra in una dimensione etica i cui confini non sono tracciati dall’interno della sua specializzazione, ma attingono in qualche modo a una dimensione prelinguistica e precategoriale che chiama in causa la filosofia, almeno come esercizio di problematizzazione delle asserzioni, allo stesso modo che la scienza può riportare la filosofia alla concretezza della sperimentazione. Oltre il rischio di generalizzazioni indebite che spesso hanno messo la scienza dinanzi all’incapacità di prevedere irrigidimenti nell’ordine dei discorsi ed effetti sulle visioni del mondo, non è venuta meno la tendenza a riprodurre la polarizzazione tra naturalizzazione o traduzione ideale dei dati, ignorando il campo complesso dell’esperienza e l’approccio prospettico attraverso il quale l’uomo si fa largo nell’esperienza che è sempre all’interno di un mondo e in uno spazio intersoggettivo in cui il dato di osservazione dei processi mentali si innesta su meccanismi acquisiti e si costruisce su emergenze, errori difficilmente spiegabili sulla semplice base di un dato generalizzato sia pure preciso. Le recenti scoperte scientifiche che hanno portato nel cuore segreto della vita, fino a questo momento “invisibile” delle microstrutture degli organismi e nei recessi dell’unica mente da cui provengono le conoscenze hanno creato la convinzione di sanare la mancanza di preveggenza e di predittività dei discorsi scientifici[7]. Rendere visibile l’invisibile ha lacerato il velo di Maya, producendo l’illusione che riproducibilità significasse la definitiva autonomizzazione della conoscenza[8]. La sicurezza con cui questi discorsi si proiettano nel futuro suggeriscono un ragionevole dubbio sulla possibilità di affidarsi a un’astrazione che rimuove le ragioni strategiche e funzionali della ricerca, che fanno da sfondo all’ipotesi. Allo stesso modo proprio mantenendo un livello di rigore critico sui dati, il pensiero riesce a far emergere la differenza tra il dato materiale e la proiezione nel futuro dell’utilizzazione di una scoperta[9]. Un caso emblematico dei nostri tempi è l’alleanza tra neurologia e cognitivismo, in cui progressivamente è venuta meno l’attenzione alla complessità, per il prevalere di una volontà di potenza e di controllo sulle trame stratificate del soggetto[10]. Detto in altri termini per esempio le ricerche sull’intelligenza artificiale hanno portato a sottovalutare la distanza tra la riproduzione di determinati meccanismi cerebrali e la loro riproduzione in intelligenze artificiale e la capacità della mente umana di innovarsi, correggersi, trasformarsi in relazione a situazioni di pericolo, di rischio. In questo orizzonte l’interdisciplinarietà, che potrebbe funzionare in direzione dell’individuazione dell’aspettativa, della visione del mondo, antica quanto l’uomo, del compimento dell’antropocentrismo, ha piuttosto funzionato come acritica accettazione dell’evidenza dei fatti, producendo l’adeguamento del pensiero alla conoscenza, del senso al dato. Si è assistito perciò a una sorta di appiattimento dello spessore stesso dell’esperienza, lasciando sullo sfondo come ininfluenti i fattori di interesse, di decisione alla base di ogni fare umano.

Più utile sembra l’invito di Morin a incamminarsi sulla via di un pensiero dialogico come pensiero multidimensionale in cui far recedere l’illusione di una certificazione assoluta nell’assunzione della complessità come dato e sfida della ricerca scientifica[11], in cui fattore discriminante è la memoria culturale[12] che «reintroduce il mondo tra noi e noi», dà «un senso e una misura alla pertinenza e favorisce all’occorrenza l’innovazione teorica»[13]. Una sfida più che un compito, un rischio più che una tecnica che si gioca in modo distinto, ma non divergente, nell’epistemologia, o nella logica, o nella antropologia, o nella psicologia, né tanto meno si vince con un’osservazione più accurata o a una verifica più approfondita. Si tratta piuttosto di assumere la relazione e il movimento individuando “strutture che connettono” in fenomeni di specie e momenti diversi, registrando da un lato l’istanza conservativa – comune all’organismo come alla mente umana considerate all’interno di un contesto ambientale – dall’altro l’occorrenza dell’innovazione evolutiva o teorica. La pervasività della cultura in altri termini non cancella la natura, ma la cultura si fa natura allargando tanto la connessione che la complessità, modificando il quadro di osservazione e richiamando alla variabilità delle occorrenze e dei contesti anche nell’atto più semplice e neutrale dell’osservazione. La complessità non è data dall’assommarsi di dati, la complessità si costituisce piuttosto nell’infinita serie di circuiti che legano l’elemento più piccolo a quello più articolato all’interno della rete delle relazioni tra organismi, menti, vita. Alla fine si può dire che la stessa acritica assunzione di un naturale di contro al culturale, di un dato rispetto a un prodotto finisce per deformare la realtà: tanto la scienza che la filosofia hanno un compito sempre più arduo.

 

  1. Il metodo? Le spirali di una conchiglia

Si tratta allora di rinunciare a un’immagine della realtà in cui viviamo a cui cooperano scienza e filosofia? O si può assumere invece che il guardare più a fondo riconsegna alla scienza la possibilità di offrire la precisione di una figura geometrica? O invece si tratta soltanto mettere a punto un’immagine che restituisca la complessità? In ognuna di queste domande continua a emergere l’eterno bisogno della ragione umana a cui richiamava Kant, e nella diversità degli interrogativi si fa strada l’impossibilità di appagarlo e riemerge la volontà continua di cercare risposte. La soluzione non è certo la rinuncia, piuttosto il tentativo di rintracciare un’immagine che nello sforzo di unire la complessità dei dati e individuare connessioni tra simmetrie e asimmetrie restituisca il dato di incompiutezza di ogni sapere e ne sveli a un tempo il sogno nascosto del suo produttore: la ricerca di sicurezza e di stabilità. Ci serviremo di un esempio usato in contesti diversi e con funzioni diverse, da Valéry prima e da Bateson poi, per dar conto del rinvio complesso tra ciò che chiamiamo natura – assumendola come esteriore – e la mente umana: la spirale della conchiglia. Se Valéry è incuriosito nel guardare la perfetta forma della conchiglia, avvertendo insieme la perfezione della forma e il mistero dell’assenza di una mano e di una mente[14], Bateson riconosce nella spirale della conchiglia la struttura della vita conservata come sua traccia anche dopo il distacco del mollusco[15]. Permane una traccia della struttura del vivente la cui perfezione è pari a quella di una figura geometrica. Ogni semplice osservazione come ogni puntuale spiegazione non basta, è necessario un cortocircuito della fantasia che restituisce l’unità della figura come traccia del movimento che non è rettilineo, né continuo. Si tratta di un complesso gioco di spostamenti all’interno di un figura perfetta dal punto di vista della forma, ma comprensibile solo in virtù di un approfondimento verso l’invisibile: la struttura della vita stessa là dove venga considerata nella complessità delle sue connessioni nella dipendenza tra stabilizzazione e trasformazione. Così come aveva sottolineato Valéry anche una conchiglia senza mollusco porta nel suo disegno la testimonianza di un processo vivente. Ancora una volta dipende dalla prospettiva con cui la si guarda e da ciò che vi si cerca. Potremmo dire che la spirale fornisce l’immagine di una storia, le sue volute ne tracciano l’andamento, ma tra la traccia e il processo che lo produce non vi è piena sovrapposizione, così come la conchiglia non è il mollusco e il mollusco non è la conchiglia. Si tratta di mettere a fuoco l’insieme che contiene l’occhio dell’osservatore, i modi di osservazione e di riproduzione di realtà che si rendono visibili nella loro interrelazione attraverso la struttura che connette.

Usando questo esempio si potrebbe dire che anche nell’interdisciplinarietà il dialogo si fa produttivo, là dove si comprende che la struttura che connette sostituisce l’essenza, è dunque rappresentabile solo nella immagine di una voluta che registra ogni volta un cambiamento. In questa prospettiva le modalità d’indagine – più o meno perfezionate sulle microstrutture e sulla macrostrutture – l’interesse e lo scopo della ricerca mantenute nelle loro connessioni possono determinare e valorizzare approcci diversi e produrre un corto circuito che corregge, rende produttivo o rallenta prudentemente conclusioni affrettate.

È quanto può lasciare immaginare la spirale di una conchiglia: una struttura aperta, che testimonia ma non riproduce esattamente quel processo della vita che la disegna. Come la spirale della conchiglia ogni prodotto della mente umana non interrompe il potenziale sviluppo di una spirale che cresce allungandosi sulla parte finale, solo fin quando la conchiglia continua a preservare una vita. Perciò il dialogo tra discipline può liberare latenze e introdurre scarti innovativi quando rimane fedele all’intreccio dialettico tra esperienza e conoscenza, tra movimento e struttura. La spirale della conchiglia lo ricorda nella perfezione della linea e ammonisce per la sua incompiutezza sullo scarto che la mancanza del mollusco vivente genera.


[1] S.J. Gould, I Have Landed, tr. it. Codice Edizioni, Torino 2009, p. 23.

[2] Ibid., pp. 51-52.

[3] Ibid., p. 396.

[4] Si vedano le considerazioni di Gould relativamente allo sviluppo delle teorie e all’utilizzazione di Blumenbach, ibid., pp. 390-402

[5] A. Portmann, L’uomo ricercatore e giocatore, l’esperienza mistica e creativa nella vita umana, in H. Rahner, E. Neumann, A. Portmann, Quaderni di Eranos, tr. it. RED, Como 1993, pp. 127-149, qui pp. 148-149.

[6] Si veda il “Glossario” posto da Bateson in appendice a Mente e natura, tr. it. Adelphi Milano 2008, p. 300.

[7] Cfr. sull’argomento il recente numero della rivista «Humana.Mente», F.Battaglia e A. Carnevale, Refraiming the Debate on Human Enhancement. Special Issue, in «Umana.Mente Journal of Philosophical Studies», 26, 2014 http://www.humanamente.eu/PDF/Complete_Issue%2026.pdf (consultato il 8/6/2014).

[8] Si veda in proposito G. Canguilhem, La connaissance de la vie, Vrin, Paris 19652, in part. pp.9-13.

[9] Cfr. V. Gallese, Corpo vivo, simulazione incarnata, intersoggettività. Una prospettiva neuro-fenomenologica, in Neurofenomenologia: le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, a cura di M. Cappuccio, Bruno Mondadori Editore, Milano 2006, pp. 293-326.

[10] Sull’argomento cfr. G. Tamburrini, La simbiosi cervello-calcolatore e il transumanesimo, in L. Grion, La sfida postumanista. Colloqui sul significato della tecnica, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 83-99.

[11] Cfr. E. Morin, Le vie della complessità, in La sfida della complessità, a cura di G. Bocchi e M. Ceruti, tr. it. Bruno Mondatori, Milano 2007, pp. 25-36.

[12] I. Stengers, Perché non può esserci un paradigma della complessità, in La sfida della complessità, cit. pp. 37-59.

[13] Ibid., p. 58.

[14] P. Valéry, L’uomo e la conchiglia, in Id., All’inizio era la favola. Scritti sul mito, Guerini e Associati Milano 1988, pp. 57-79.

[15] Cfr. G. Bateson, op. cit., pp. 26-27.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *