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Complessità decifrata, trasmissione culturale

Autore


Carmelo Colangelo

Università degli studi di Salerno

insegna Filosofia Morale all’Università degli Studi di Salerno

Indice


  1. Improvvisazione vivente
  2. Differenza “semplificante” e sua trasmissione

 

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S&F_n. 13_2015

Abstract



According to cognitive neurosciences the living is capable of basic strategies to reduce complexity. This confirms the phenomenological theories which maintain that the body, through perception and action, is immediately operational and able to rework and reduce the uncertainty of the real. On the other hand, the cultural fact inherits and transcribes the body’s ability to decrypt complexity. How to rethink the relationship between transmission of non-genetic information, awareness of the complexity and its reduction? Can cultural transmission be seen as a narration of creative “simplifications” that follow one another in history, understood as «the history of human beings that exceed the received ideas»?


  1. Improvvisazione vivente

Il reale è eterogeneo, discorde, ossimorico: alcuni lustri di enfasi posta sulle teorie della complessità avranno certo convinto chi aveva bisogno di esserlo. Nella sua intricata stratificazione, ciò che chiamiamo “realtà” consiste di una congerie disparata di sistemi aperti in continua autorganizzazione, nel cui alveo ogni elemento singolare risulta da una molteplicità irriducibile di eventi simultanei.

Anche a partire da una attenzione sostenuta alle elaborazioni della filosofia contemporanea, le ricerche che negli ultimi anni si sono svolte al confine tra neuroscienze, psicologia, psichiatria descrivono il vivente in generale, e l’animale umano in particolare, come portatori di strategie fondamentali di riduzione della complessità. A fronte del permanente rischio traumatico implicito nell’incontro con il polimorfo e l’imprendibile del reale, una delle proprietà del vivente è la capacità d’improvvisazione di principi semplificativi. Esso è in grado di limitare repentinamente quantità e articolazioni di situazioni e processi. Interagendo con l’esterno per via di selezioni, inibizioni, collegamenti, precorrendo l’avvenire sulla base delle esperienze passate, il vivente si orienta nella eterogeneità del reale, altrimenti indomata, e pone così le prime condizioni perché, per la via lunga della trasmissione dell’informazione genetica, si dia sopravvivenza della specie.

A partire dal decisivo antefatto kantiano, dalle elaborazioni della fenomenologia, dalle acquisizioni della psicologia della Gestalt e dell’etologia, gli studi dei fisiologi della percezione e dell’azione hanno ribadito che in nessun caso il cervello umano si accontenta di ricevere passivamente informazioni dall’esterno. Esso piuttosto attribuisce un valore alle forme, impone griglie interpretative, proietta supposizioni. Le descrizioni dei neuroscienziati cognitivi confermano ciò su cui pensatori come Husserl, Merleau-Ponty, Goldstein, Canguilhem, Maldiney non hanno smesso di richiamare l’attenzione: attraverso percezione e azione, il corpo, apertura originaria al mondo, è immediatamente operativo, espressivo, comunicativo. Esso struttura, elabora, progetta, trasforma la problematicità e l’incertezza del reale. L’atto della percezione non si esaurisce nella mera riproduzione di uno stimolo in ingresso, ma è già sempre evento strutturato. Lungi dal presentarsi come un insieme caotico di elementi sensoriali, il campo percettivo si organizza in gruppi significativi di configurazioni. Nell’esperienza del mondo percezione, azione e comprensione non sono processi separati, come a lungo si è voluto credere. Essi piuttosto vanno concepiti come simultanei. Nel dettare al reale simmetrie e continuità, nell’attribuire valori affettivi alle cose, nell’istituire un’immediata relazione con i movimenti e le espressioni percepiti, i processi neuronali permettono di simulare l’azione senza eseguirla, così creando per l’animale umano lo spazio per opzioni che costituiscono il portato di decifrazioni istantanee della complessità.

In che modo le acquisizioni delle neuroscienze possono stimolare un ripensamento di fini, stili, modalità di articolazione della trasmissione culturale? Il tema del rapporto tra trasmissione del sapere e “semplificazione” – ovvero di un’azione culturale che, nel destare la coscienza della complessità, al contempo trasmetta le modalità plurali della sua riduzione – può essere utilmente discusso alla luce delle ricerche sul sistema neuronale e la sua plasticità fondamentale? La trasmissione dell’informazione non-genetica – in altri termini la cultura – può modellarsi sul modo in cui avvengono le riduzioni interpretative, geneticamente determinate, di cui il plesso corporeo percezione-azione-memoria è immediatamente capace? Sempre più spesso accade che gli scienziati cognitivi stimolino le scienze umane a “ispirarsi” al vivente, a “prendere esempio” dalle decifrazioni di cui il corpo, il cervello sono incessantemente protagonisti. Questa sollecitazione va senz’altro raccolta e rilanciata.

A partire dalla considerazione generale per cui è urgente che l’idea della complessità non diventi giustificazione per l’immobilità o, viceversa, per la fiducia ingenua in spiegazioni totalizzanti, è utile anzitutto una comprensione della natura specifica dello schema attivo in ogni trasmissione culturale e della scena su cui essa è chiamata a esercitarsi. È opportuno sottolineare come le scienze cognitive rafforzino e rilancino alcune prospettive centrali della riflessione contemporanea, particolarmente quelle che indicano come il complesso possa essere affrontabile grazie al ricorso a una accorta articolazione narrativa, congiunta a gradualità, pluralità, elasticità di approcci.

 

  1. Differenza “semplificante” e sua trasmissione

Si può dire che non ci sia oggetto culturale, che si tratti di una teoria scientifica, di un’opera d’arte, di un sistema concettuale, che non possa essere interpretato come una modalità di riduzione della complessità. Nella misura in cui tra percezione, azione, espressione, conoscenza esiste un legame essenziale, il fatto culturale eredita e ritrascrive le capacità di decrittazione di cui il corpo è portatore, e lo fa nell’atto stesso in cui, costituendosi al di fuori dell’immediatezza vivente, si offre alla possibilità di una trasmissione affatto diversa da quella genetica, perché caratterizzata dal ricorso a supporti, a “protesi” di vario genere – un certo tipo di oralità primaria, la scrittura, l’immagine, i sistemi digitali. Edelman, e a loro modo un Havelock o un Lotman, invitano a interpretare la cultura come l’insieme delle riduzioni inventive della contingenza che, succedendosi nella storia, si sono date, secondo i contesti, come più capaci di tenere testa alla perturbante stratificazione del reale.

Se si pensa in questo modo ai caratteri generali del fatto culturale, la trasmissione della cultura può essere intesa come ciò attraverso cui si dà effettivo passaggio delle invenzioni “semplificanti”. Il che però – e questo è un punto decisivo – è possibile soltanto a una condizione preliminare: che ognuna di tali innovazioni, nella sua differenza singolare, venga fatta spiccare sul fondo del patrimonio delle precedenti invenzioni. Trasmettere significa far leva su una dimensione “conservatrice” (occorre ripresentare, ribadire un certo sistema di relazioni, di rappresentazioni attraverso cui la complessità è stata ridotta) e, allo stesso tempo, su una dimensione “innovatrice” (è necessario far percepire il gradiente di rinnovamento inscritto in un certo sistema teorico, in una determinata prospettiva speculativa, in una specifica esperienza estetica). Perché si apra lo spazio per ulteriori decifrazioni del complesso, occorre che vengano formulate e descritte le modalità attraverso cui, a un certo punto, nuove interpretazioni del reale sono entrate in una relazione di conflitto con la tradizione. È necessaria, cioè, la ricostruzione della continuità che l’invenzione culturale “semplificatrice” di volta in volta è giunta a interrompere. Proprio alla trasmissione dell’invenzione singolare – al racconto della irruzione di una differenza “semplificante”, non percepibile se non su fondo d’identità – l’animale umano è debitore della propria resistenza ai pericoli della complessità del reale.

È in questo quadro generale che va situata l’attuale sollecitazione delle neuroscienze: con la loro attenzione all’inventività del vivente, esse ricordano che non c’è manifestazione umana che non possa essere considerata come un modo della percezione attiva e del confronto anticipante con un contesto problematico complesso. Esse stimolano così la trasmissione culturale a restare prossima al carattere intrinsecamente corporeo delle esperienze di volta in volta tematizzate, domandando una rinnovata attenzione all’insieme dei modi in cui esse ricodificano simbolicamente l’avventura percettiva, motoria, kinestetica del vivente e invitando a una più acuta consapevolezza del fatto che una effettiva comunicazione dei loro nuclei innovativi è legata alla presentificazione di tali modalità.

In questo senso, non è così sorprendente che le ricerche sui neuroni specchio, sulla psicomotricità, sull’espressività corporea, sulle base neurali della scelta e della decisione paiano confermare alcune delle maggiori proposte teoriche delle cosiddette “scienze dell’educazione” contemporanee. Non solo, evidentemente, i concetti di assimilazione, accomodamento e adattamento, l’approccio multisensoriale, il tema dell’interazione dinamica con l’ambiente fisico, sociale ed emotivo o quello dell’importanza dei gruppi eterogenei, ma anzitutto la centralità dell’articolazione narrativa dell’insegnamento. Nella misura in cui aggregano una serie di prassi da ribadire, e si fanno così portatori dell'informazione non-genetica che ci è indispensabile per sopravvivere, i procedimenti narrativi forti sono in diretto rapporto con la nostra speciazione. Volendo ricorrere a una formula di Bruner, la comunicazione, in parallelo, della tradizione e dell’innovazione, nella misura in cui intende trasmettere la logica della semplificazione della complessità (e farlo dandosi essa stessa come una forma di affrontamento del complesso), richiede che venga promossa un’immagine della cultura in quanto «storia degli esseri umani che superano le idee ricevute», e che in base a tale immagine sia possibile costruire sequenze di eventi latrici di significato. Sequenze, cioè, che lascino emergere le linee essenziali del tentativo permanente di trasformare in problemi le complessità più intrattabili. Il dialogo tra la riflessione sull’apprendimento e i saperi cognitivi pare confermare l’opportunità di avvalersi di prassi di chiarificazione narrativa in cui la ricostituzione di ciò che ha prodotto il presente possa condurre a una possibile semplificazione della complessità delle emergenze di volta in volta attuali. La narrazione del passato può permettere quella di quanto è vigente, dando così luogo a una sorta di traduzione della complessità “reticolare”, “sistemica”, “caotica” in una più trattabile multidimensionalità, in grado di porre le condizioni per il racconto di un futuro pragmaticamente perseguibile.

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