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Indice
- L’animale come soglia fra natura e cultura
- L’uomo come cucciolo e l’antropologia filosofica
- L’animale e l’aperto: Rilke contra Heidegger
- Il gatto di Derrida e la cagna di Lacan: i confini dell’uomo
- Bestiari e storie naturali: per un’archeologia della classificazione
S&F_n. 13_2015
Abstract
The essay analyses the issue of the animal in several respects: biological (Bolk, Von Uexküll), anthropological (Gehlen), philosophical (Bentham, Heidegger, Derrida, Foucault) and psychoanalytic (Freud, Lacan). The thesis of the essay is that the primacy accorded to man in the Western tradition cannot be defeated by adopting the approach “animal rights”; it is necessary to change the classification criteria instead. In order to achieve these new criteria, the Theories of Derrida and Foucault are decisive.
Gli animali di specie più rara
prossima a estinguersi
destano costernazione
in chi sospetta che il loro Padre
ne abbia perduto lo stampino.
Non è che tutti siano stati vittime
degli uomini e dei climi
o di un artefice divino
Chi li ha creati li ha creduti inutili
al più infelice dei suoi prodotti: noi.
Eugenio Montale, Gli animali
Non dobbiamo più compensare con offerte l’abuso che l’uomo ha fatto delle specie vegetali, animali, umane.
La riduzione degli uomini stessi alla servitù ha ora (del resto, da molto tempo) conseguenze nell’ordine politico (è opportuno, invece di trarne conseguenze religiose, abolire gli abusi).
Ma il supremo abuso che l’uomo fa tardivamente della propria ragione richiede un ultimo sacrificio: la ragione, l’intelligibilità, il terreno stesso su cui si regge,
l’uomo li deve respingere, in lui Dio deve morire, è il fondo del terrore, l’estremo in cui soccombe.
Georges Bataille, L’esperienza interiore
- L’animale come soglia fra natura e cultura
Il mondo di Hans, il bambino fobico analizzato da Freud attraverso il padre, è popolato di animali, in particolare cavalli e giraffe. E declinati secondo attitudini e posture molto differenti: cavalli che mordono e cavalli che trainano carrozze, carri da trasloco, omnibus, tutti rigorosamente carichi, cavalli che si mettono in movimento, cavalli grossi e pesanti, cavalli che vanno di corsa, cavalli con i baffi; e giraffe grandi e piccole, giraffe sgualcite, giraffe disegnate, giraffe appallottolate, giraffe con un grande fa-pipì. Sembra di trovarsi di fronte a una variante dell’enciclopedia cinese citata da Borges
nelle cui remote pagine è scritto che gli animali si dividono in (a) appartenenti all’imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che s’agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche[1].
Come è noto, è da questa buffa classificazione del regno animale, in particolare dal riso che la sua lettura suscita, che Michel Foucault ha tratto lo spunto per scrivere Le parole e le cose: come nota proprio all’inizio della prefazione, il testo di Borges, «scombussolando tutte le familiarità del pensiero – del nostro, cioè: di quello che ha la nostra età e la nostra geografia – sconvolgendo tutte le superfici ordinate e tutti i piani che placano ai nostri occhi il rigoglio degli esseri, facendo vacillare e rendendo a lungo inquieta la nostra pratica millenaria del Medesimo e dell’Altro»[2], rende possibile un’indagine archeologica sullo stato dei saperi che riguardano l’uomo attraverso la messa in discussione dei regimi di verità, delle faglie epistemiche e delle pratiche discorsive che di volta in volta li fondano e li governano. L’impossibilità – per noi moderni – di pensare una classificazione simile se non come una bizzarria di secoli passati, in cui il regime di verità della scienza moderna non si era ancora imposto come unico e esclusivo, si rovescia nell’apertura di una possibilità di critica della nostra attualità storica che può cessare di pensarsi come la conseguenza inevitabile, l’effetto storicistico, di una verità anteriore ricuperando invece il suo carattere di interruzione e di rottura.
Ma torniamo ancora per un attimo al piccolo Hans: facendo da supporto alla fobia, da causa manifesta, soprattutto il cavallo, del sintomo fobico, l’animale sembra essere ancora una volta tenuto a distanza, situato in un ambito distinto da quello propriamente umano, qualcosa di cui avere paura e da cui guardarsi; in realtà, come mettono in evidenza sia Freud che Lacan, l’animale ha per Hans una funzione terapeutica, placa, proprio perché suscita paura, l’angoscia del bambino, lo aiuta a superare l’impasse prodotta dalla scoperta della differenza sessuale nonché di quella fra il proprio fa-pipì e quello degli adulti. L’animale supplisce una funzione paterna debole e carente: se un rimprovero Hans rivolge al padre è di non arrabbiarsi a sufficienza tutte le volte che la madre si mostra troppo accondiscendente verso il suo desiderio di volerla tutta per sé, di essere eccessivamente “uxorioso”[3] e non riuscire di conseguenza a fare da barriera fra lui e la madre. Nel faccia a faccia con la madre Hans è preso dall’angoscia di non essere in grado di soddisfarla vista l’esiguità del suo attrezzo sessuale se commisurato non solo a quello paterno ma finanche a quello in dotazione della madre. Di fronte a un padre incapace anche solo di simulare uno sguardo accigliato, Hans allora ricorre all’animale attribuendogli quella capacità di incutere paura che il padre, fin troppo innamorato della madre e smanioso di mostrarsi “moderno”, cioè non autoritario, più un fratello o un amico che un padre vero e proprio, non riesce a esercitare. La paura dell’animale para l’angoscia e la rende maneggevole.
Sullo sfondo il grande mito freudiano di Totem e tabù, l’iscrizione della specie umana nella continuità darwiniana dell’evoluzione naturale, la sua parentela con i mammiferi superiori, la vita in branco, la lotta a morte dei maschi adulti per il diritto esclusivo alla riproduzione, la ribellione dei figli-fratelli contro il padre dell’orda, l’assassinio, il pasto dell’animale morto, l’irruzione della colpa e la nostalgia del padre-animale, l’instaurazione dell’esogamia e il ritorno dell’animale come totem. L’animale fa da soglia fra la natura e la cultura, è contemporaneamente segno della discontinuità, della frattura al limite violenta che separa la specie umana dal resto della natura, e della continuità che nonostante tutto reinserisce l’uomo nell’alveo del vivente in generale. L’animale totem nel momento stesso in cui fa da sentinella che impedisce l’accesso alla natura, che sbarra all’uomo la strada del ritorno, testimonia tuttavia la profonda nostalgia dell’animale che abita l’uomo ormai civilizzato, l’affinità che sente con ciò che di più prossimo esiste nella scala degli esseri. La familiarità dei bambini con gli animali ne è la prova lampante.
Il pasto totemico, fondamento mitico dei divieti alimentari comuni a tutte le confessioni religiose come anche a molte sette del tipo di Scientology, presenta una natura doppia: da un lato giustifica il cibarsi della carne dell’animale con l’idea dell’appropriazione attraverso incorporazione delle virtù di quest’ultimo – anche mangiare dio è mangiare l’animale – dall’altro come forma di espiazione vieta il consumo quotidiano dell’animale totemico riservandolo soltanto al giorno in cui, periodicamente, si rievoca il rito del pasto originario, fondatore della civiltà.
Non vi è dubbio che la nostra attualità storica con la sua abolizione dei divieti e dei tabù fatta in nome del diritto al godimento individuale finisca per esporre il soggetto umano a un accrescimento vertiginoso della colpa che, benché negato dall’ideologia dominante del consumo, lavora silenziosamente le forme di vita a noi contemporanee e si manifesta nei cosiddetti disturbi alimentari, debitamente classificati nei manuali di diagnostica psichiatrica, soprattutto anoressia, bulimia e obesità. Vi aggiungerei, anche se ciò dovesse apparire provocatorio, la posizione di chi vuole estendere anche all’animale la sfera dei diritti trascurando il fatto che quest’ultima altro non è che l’interfaccia giuridico e formale di quel diritto al godimento responsabile nella modernità del consumo illimitato dell’animale come cibo e di conseguenza delle modalità dell’allevamento paragonate dai più accesi sostenitori del diritto dell’animale a non soffrire alle vessazioni cui erano sottoposti i deportati nei campi di concentramento nazisti.
Anche a non voler considerare l’estrema problematicità dell’accostamento che rischia di trasformarsi in un assoluto disprezzo per le vittime[4] resta il dubbio sull’opportunità di trasferire all’animale ciò che già nella sua applicazione all’uomo solleva ogni sorta di perplessità. Giacché proprio il formalismo giuridico d’intesa con l’arcano della forma di merce è il responsabile di quella torsione subita dall’imperativo etico nella modernità che si manifesta nell’affermazione del diritto da parte di ciascuno al godimento masturbatorio e solitario fra i cui oggetti-feticcio è presente sicuramente anche l’animale. Senza contare poi che il concetto del diritto non può fare a meno di quello di persona – esattamente il contrario del soggetto dell’inconscio come soggetto di desiderio – che una volta istallatosi tende a un dominio imperialistico annettendo campi di esperienza una volta felicemente indipendenti, dal corpo sessuato all’embrione fino all’animale. Ciò ricorda vecchie discussioni con l’insegnante di religione sulla questione se le donne avessero anche loro l’anima cui l’unica risposta ragionevole era ed è tuttora che l’anima sostanziale è una fola e non ce l’ha nessuno. Nemmeno l’animale che di conseguenza neppure è una persona[5].
Anche il criterio benthamiano della sofferenza come leva per l’affermazione del diritto degli animali perlomeno a non essere torturati – ché per quanto riguarda l’uccisione le cose vanno altrimenti anche per Bentham[6] – va preso con cautela. Prima infatti della famosa frase in cui viene smantellato il tradizionale discrimine fra l’uomo e l’animale – «La domanda da porre non è “Possono ragionare?”, né “Possono parlare?”, ma “Possono soffrire?”»[7] – Bentham aveva ricordato in stile swiftiano che se si volesse individuare il confine che separa l’uomo e l’animale nella facoltà della ragione o in quella del discorso si sarebbe smentiti facilmente: è verità evidente che «un cavallo o un cane adulto è un animale incomparabilmente più razionale, e più socievole, di un neonato di un giorno o di una settimana, o anche di un mese»[8]. Tutto sta nel concetto di ragione che è chiamato in causa: per Bentham la razionalità è calcolo, computo per la massimizzazione, e per il più gran numero, del piacere o utile. La razionalità è per Bentham, come per tutto l’empirismo inglese, consapevolezza delle proprie preferenze, calcolo sulla loro realizzabilità, adeguazione perfetta fra fini perseguiti e mezzi necessari. Nessuna sbavatura o deriva, nessun eccesso, nessuno spreco. Da questo punto di vista non c’è gara: l’animale adulto – la precisazione è decisiva – è perfettamente razionale, e per di più socievole, e al paragone il neonato d’uomo è irrazionale ed egoista. Si capisce allora perché c’è bisogno della sofferenza: senza, che cosa distinguerebbe l’animale da una macchina e Bentham da Cartesio? O l’animale fa parte degli esseri senzienti oppure l’istinto lo rende simile a un automa.
È dubbio se attribuendo la razionalità e la socievolezza, cioè l’uso del discorso, ai cavalli e ai cani adulti, Bentham si stia battendo per il riconoscimento dei diritti dell’animale o piuttosto stia annettendo imperialisticamente quest’ultimo, solo beninteso nella forma compiuta, al modello del gentleman inglese adulto, maschio e bianco, nettamente contrapposto ai selvaggi e ai popoli da colonizzare, notoriamente accomunati alle donne, ai bambini e ai folli. Nell’equiparazione dell’uomo dabbene e dell’animale adulto entrambi contrapposti all’infante perverso-polimorfo passa forse un disprezzo per il vivente non umano malamente coperto dal tentativo di evitargli di soffrire.
- L’uomo come cucciolo e l’antropologia filosofica
Dal punto di vista della posizione benthamiana, la biologia del novecento che influenzerà sia l’ontologia fondamentale heideggeriana sia l’antropologia filosofica di Arnold Gehlen – le due posizioni filosofiche che insieme all’archeologia foucaultiana si faranno carico della questione animale – non costituisce solamente una mutazione teorica nel campo della scienza del vivente, ma anche una rettifica etica. Distinguendo nettamente fra l’origine dell’uomo darwinianamente intesa e l’insorgenza della forma umana, più propriamente dell’essenza (das Wesentliche) della forma umana, Louis Bolk ne conclude che tutti i caratteri somatici primari dell’uomo sono in realtà «condizioni fetali diventate permanenti» e che in altre parole «le caratteristiche e le condizioni della forma che nel feto degli altri primati sono transitorie, nell’uomo si sono stabilizzate». Ne consegue che «ciò che nel processo evolutivo delle scimmie era uno stadio di passaggio nell’uomo è diventato lo stadio finale della sua forma». Se il feto delle scimmie inferiori e degli antropoformi, insieme ai neonati di questi ultimi, presenta «un aspetto molto simile all’uomo», non è perché «[sia] derivato da un progenitore con un aspetto più umano, ma perché l’uomo conserva il tipo fetale fino alla fine del suo sviluppo»[9]. Anche adulto l’uomo resta un feto, e se non proprio un feto, certamente infantile; il che vuol dire privo di adattamemto preventivo all’ambiente, non specializzato, bisognoso di aiuto per poter sopravvivere, esposto alle spinte pulsionali – l’uomo è un feto sessualmente sviluppato – senza apparati istintuali in grado di guidarlo e sostenerlo nella vita. Fra l’uomo adulto e il cavallo e il cane adulti non c’è alcuna parentela, l’uomo anche se adulto assomiglia piuttosto al puledro o al cucciolo. È il trionfo del piccolo, animale e uomo insieme, del non ancora e forse mai formato, dell’aperto: se, secondo Nietzsche, «l’uomo è l’animale non ancora stabilmente determinato»[10], ciò potrebbe riguardare anche il vivente non umano.
Come è noto la tesi della fetalizzazione non si è sviluppata in questa direzione: applicata all’antropologia ha dato esiti opposti e per dirla tutta reazionari. Nel momento stesso in cui veniva riconosciuta l’indeteminatezza dell’essenza umana, la sua apertura costitutiva, l’obiettivo diventava quello di ridurla, di ricondurla nella sfera dell’anticipabile e del ripetitivo. L’invenzione culturale che suppliva alla carenza di istintualità aveva paradossalmente il compito di produrre un fac-simile dei comportamenti prevedibili e privi di sorpresa attribuiti all’animale adulto e tutto questo a fronte di una distanza sempre più grande posta fra l’uomo e l’animale.
Per Arnold Gehlen l’uomo è “naturalmente” carente, vale a dire esposto, indifeso, bisognevole. Ma carente di che, ed esposto a cosa? Carente, a differenza di tutti i mammiferi superiori, di istinto, cioè «di movimenti, o meglio, figure motorie assai pregnanti di tipo specialissimo, che avvengono in base a un automatismo congenito e dipendono da processi endogeni di produzione degli stimoli»[11]. Come per Bentham anche per Geheln l’animale è intelligente anche se la sua intelligenza confina con la stupidità: se «i movimenti istintivi e dunque le figure comportamentali congenite e proprie delle singola specie, sono naturalmente evocati, di norma, dagli oggetti adeguati, che l’animale trova nell’ambiente, cioè dai conspecifici o dai partners sessuali, dalla preda, dal nemico, eccetera» e se soprattutto sono provocati non tanto dagli oggetti, quanto da «segnali estremamente specifici di volta in volta percepibili, che a questi oggetti rimandano a ai quali si dà il nome di evocatori»[12], può accadere che un segnale scateni la sequenza motoria anche in assenza dell’oggetto facendola funzionare per così dire a vuoto e sostituendo alla percezione reale un’allucinazione.
Esposto d’altra parte, e proprio perché carente di istinto, a «una profusione di stimoli assolutamente estranea alla natura animale, […] alla piena “senza scopo” di impressioni che lo raggiungono e che egli deve in qualche modo padroneggiare». L’uomo infatti non ha di fronte a sé «un ambiente in cui i significati siano articolati e istintualmente ovvi, ma un mondo – ossia, in termini negativi, un campo di sorprese, dalla struttura imprevedibile, che va elaborato, cioè esperito, con circospezione e prendendo ogni volta misure e provvedimenti»[13]. Da questo mondo di sorprese, da questa profusione inesauribile di stimoli, l’uomo deve esonerarsi: non avendo a disposizione i movimenti innati dell’istinto, dovrà darsi da fare, dovrà agire, industriarsi con il poco che gli è stato dato in dotazione. Estrema propaggine del mito della nascita di Eros, l’uomo geheleniano è figlio di povertà e espediente, ma non è erotico: piuttosto eroico perché su di lui ricade il peso di trasformare, «con l’attività su se stesso e con l’azione», tutte quante le «carenze della costituzione umana, le quali in condizioni naturali, per così dire animali, rappresentano un onere estremo per la sua vitalità, […] in strumenti appunto della sua esistenza»[14].
Il paradosso della tesi di Gehlen è dunque questo: ciò che costituisce l’essenza dell’uomo, la sua posizione, è anche ciò da cui deve essere al più presto, pena la morte quasi immediata, alleggerito e sollevato, in una parola esonerato. Rapidamente l’uomo deve inventare un sostituto dell’istinto, costruire un automatismo artificiale che però funzioni con lo stesso carattere coatto dell’istinto naturale. Si pone infatti per Gehlen una questione fondamentale sia sul piano teorico che su quello pratico: «data la sua apertura al mondo e la riduzione degli istinti, e date l’inverosimile plasticità e l’instabilità potenzialmente insite in lui, come perviene l’uomo, propriamente, a un comportamento prevedibile, regolare e quindi evocabile, in condizioni date, con relativa sicurezza, come perviene dunque a un comportamento che si potrebbe chiamare quasi-istintivo e quasi-automatico, e che, nel suo caso, sta al posto di quello istintivo autentico ed è il solo, palesemente, a definire la stabilità della compagine sociale»[15]? La risposta sta nelle istituzioni. Ma le istituzioni, ossia il linguaggio e i riti, la cultura in generale e anche lo stato, non sono per Gehlen il trampolino di lancio per l’innovazione, non costituiscono la condizione necessaria per ribadire e incrementare l’apertura al mondo della specie umana. Sono conservative, rassicuranti, chiuse, impongono regole e divieti, difendono il legame sociale esistente contro le sue possibili trasformazioni, portano al trionfo della nevrosi ossessiva se non di forme di dissociazione psichica[16]. Le istituzioni sono nicchie, sfere, bolle, in cui l’umanità tende a rinchiudersi per fare fronte a un fuori vissuto come una fonte costante di minaccia. Nessuna meraviglia che Gehlen si sia riconosciuto nel nazismo.
- L’animale e l’aperto: Rilke contra Heidegger
Pur senza scalfire in nessun modo la discriminazione fra l’uomo e l’animale, Heidegger tuttavia salva almeno del primo la prerogativa dell’apertura e della modificazione che Gehlen finiva per mortificare. Ciò dipende molto probabilmente dal fatto che sin dall’inizio Heidegger non solo si muove in una dimensione di pensiero che nulla ha a che fare con l’antropologia, ma è di quest’ultima anche un critico feroce. Ben prima della Lettera sull’umanesimo Heidegger si situa sul piano dell’ontologia e affronta la questione del posto dell’uomo nel mondo – questione che da Scheler in poi è la domanda fondativa dell’antropologia filosofica – a partire dall’essere e dalla sua verità. Verità dell’essere che, essendo essenzialmente manifestazione, passaggio dal nascosto al non nascondimento – valore etimologico del greco aletheia – è sin dal principio essere-nel-al-mondo, intendendo per mondo il luogo della manifestatività dell’essere realizzata attraverso la totalità degli enti. Cosicché la domanda antropologica su quale sia il posto dell’uomo nel mondo si trasforma in quella ontologica su quale sia il tipo di rapporto che lega l’uomo al mondo dal momento che egli altro non è nella sua essenza che essere-nel-al-mondo.
In altri termini l’essere-al-mondo non è un predicato inessenziale, accidentale, del soggetto ‘uomo’, ma la sua essenza stessa, il suo modo d’essere primordinale da cui scaturiscono poi tutti gli altri. E il modo d’essere dell’uomo è ex-sistere, appunto andare fuori di sé nel mondo, essere costitutivamente aperto al mondo: essere qui gettato nel mondo, quindi ‘esserci’. Certo anche per Heidegger l’uomo si difende dall’apertura che lo costituisce, ma lo fa non rinchiudendosi in nicchie protettive, bensì abbandonandosi alla vita fattizia, vale a dire aderendo sempre di più al mondo fino a confondersi con esso: una immedesimazione antropologica da cui lo salva la tonalità emotiva dell’angoscia, sottraendolo al mondo e richiamandolo a se stesso.
Non andremo oltre nell’analisi del pensiero heideggeriano[17]. Quel che conta qui è che la differenza fra l’uomo e l’animale, che, se in Heidegger non muta di una virgola, non è però pensata né a partire da una scala naturale e/o metafisica degli esseri né da un presunto primato antropologico, ma dal rapporto che l’animale e l’uomo, con l’aggiunta della pietra, cioè dell’inanimato, intrattengono col mondo, ossia dal loro essere. Da qui la famosa tripartizione elaborata da Heidegger nel seminario del 1929-1930 dedicato ai concetti fondamentali della metafisica: mondo, finitezza e solitudine. Poiché l’uomo non è una parte del mondo, ma è essere-al-mondo, poiché, per essere ancora più precisi, l’uomo non sta nel, ma ‘ha’ il, mondo, si pone la questione se anche il resto dell’ente, pietre, piante e animali, stia nel mondo, sia una sua parte, o abbia mondo, sia anch’esso essere-al-mondo. La risposta di Heidegger è positiva; ma proprio perché è positiva richiede che si faccia differenza fra i modi con cui il resto dell’ente “ha”, ed è al, mondo. E allora: «1. la pietra (l’ente materiale) è senza mondo; 2. l’animale è povero di mondo; 3. l’uomo è formatore di mondo»[18].
Anche Heidegger fa un uso abbondante della biologia contemporanea, nello specifico quella di Jakob von Uexküll che sin dagli ultimi anni dell’ottocento contro la tradizione meccanicista che considerava l’animale nient’altro che una macchina aveva deciso di attribuirgli la qualità “soggettiva”, cioè di essere un ente dotato di alcune attività essenziali di tipo operativo e percettivo. Se ne deve dedurre che se l’animale è un essere che percepisce e agisce esso abbia anche un suo mondo percettivo (Merkwelt) e un suo mondo operativo (Wirkwelt), di cui, come l’uomo, «costituisce il centro»[19].
Peccato però che questo mondo-ambiente sia una bolla in cui non solo l’animale ma anche l’uomo resta incapsulato. È vero che ciascun mondo è differente, ma è anche vero che come mondo è chiuso: tutti gli animali che vivono intorno a noi – coleotteri, farfalle, mosche, zanzare e libellule – dobbiamo pensarli come «chiusi dentro una bolla di sapone che circoscrive il loro spazio visivo e che contiene tutto quello che per loro è visibile»[20]. E non serve indignarsi dal momento che questa condizione vale per tutti, uomini e animali: «anche ciascuno di noi vive chiuso dentro il suo mondo, cioè dentro la sua bolla. Tutti i nostri simili sono circondati da bolle trasparenti che si intersecano senza attrito perché formate solo da segni percettivi soggettivi»[21]. Il punto è che per von Uexküll il soggetto e l’oggetto, l’animale e il mondo «si incastrano l’uno con l’altro, costituendo un insieme ordinato». Anche qui non si dà nessuno scarto, nessuna asimmetria, dal momento che «i soggetti animali sono adattati al loro ambiente con la medesima perfezione. All’animale semplice fa da contraltare un ambiente semplice, all’animale complesso un ambiente riccamente articolato»[22].
Questa versione aggiornata, e in parte anche stravolta, della monadologia leibniziana Heidegger l’accetta in pieno, applicandola tuttavia solo all’animale. Il mondo del quale esiste ma è povero, vale a dire sprovvisto di quell’apertura che costituisce il mondo ma che si manifesta esclusivamente all’uomo. L’animale nel mondo ci sta ma come stordito, cioè da stupido: annebbiato da quell’istinto, ovverosia da quelle sequenze motorie che, scatenate dalla percezione del segnale, ci sia o no l’oggetto corrispondente, costringono l’animale volente o nolente a quelle azioni che denotano d’altronde il suo perfetto adeguamento all’ambiente. Come l’ape che continua a succhiare nettare anche quando quello che ha ingerito le fuoriesce dal suo ventre squartato o come le mosche maschi che partono in quarta in un mortifero volo nuziale solo perché hanno scambiato un pisello oscillante nel sole ricoperto di carta moschicida con una femmina pronta per la riproduzione.
La polemica che Heidegger conduce contro Rilke è la spia che non appena ci si provi a invertire la relazione fra l’uomo e l’animale nei confronti dell’Aperto – un altro modo con cui si dice il mondo – si diventa complici di quella «completa dimenticanza dell’essere che sta alla base del biologismo del diciannovesimo secolo e della psicoanalisi» da cui scaturisce quel disconoscimento di tutte le leggi dell’essere la cui conseguenza ultima è una mostruosa antropomorfizzazione della “creatura”, in questo caso dell’animale, e una corrispondente animalizzazione dell’uomo»[23]. Che cosa aveva sostenuto Rilke di tanto grave e pericoloso da suscitare la reazione rabbiosa di Heidegger? Aveva appunto detto che è l’animale a stare nell’Aperto, cioè nel mondo, mentre l’uomo, anziché formarlo, se ne tiene a distanza e addirittura gli si rivolge contro. Come recita l’attacco dell’ottava elegia duinese:
Con tutti gli occhi vede la creatura
l’aperto. Gli occhi nostri soltanto
son come rivoltati e tesi intorno a lei,
trappole per il libero suo uscire.
Ciò che è fuori, puro, solo dal volto
animale lo sappiamo; perché già tenero
il bimbo lo volgiamo indietro, che veda
ciò che ha forma, e non l’aperto, che
nel volto animale è sì profondo. Libero da morte.
Questa noi solo la vediamo; il libero animale
ha sempre dietro a sé il suo tramonto
e a sé dinanzi Dio, e quando va, va
nell’eterno, come le fonti vanno[24].
Si potrebbe rimproverare a Rilke l’ennesima discriminazione nei confronti dell’animale considerato incapace di avere esperienza della morte. Ma a parte il fatto che per Rilke questo è un vantaggio e non un difetto, manca ogni appiglio per sostenere l’identità dell’Aperto di cui parla il poeta con il trionfo della volontà di potenza e della tecnica. Un pregiudizio antianimale è sotteso alla tesi che, se solo la “creatura” è nell’Aperto, allora quest’ultimo non è veramente tale, è un surrogato che ne ha preso il posto. L’animale per Rilke è in un rapporto originario con l’Aperto dal quale semmai è l’uomo a essere esiliato. Fra sé e l’Aperto l’uomo pone la forma, mette cioè un filtro che è sempre a rischio di trasformarsi in muro. L’uomo non è, esiste, ossia sta fuori di quel fuori che è l’Aperto di cui ha sentore solo se si perde nel volto dell’animale che invece lo abita come un fiore sul punto di dischiudersi. Forse l’uomo lo ha abitato allo stesso modo solo quando era bambino e vi si perdeva in segreto e scosso dalla commozione. O lo abiterà quando sarà in procinto di morire
poiché vicino a morte più non si vede morte
si guarda fisso fuori, forse con sguardo grande d’animale[25].
Tutto ciò non toglie che, pur non provando brama, pungolo che invece agita gli umani, l’animale non sia del tutto felice: una malinconia grande grava su di lui, lo rende costantemente preoccupato. Come per Benjamin la natura – le cose e gli animali – non era triste perché muta, bensì muta a causa della tristezza che provava per dover esistere al di fuori di Dio, cioè del suo creatore, così l’animale soffre di memoria: ciò a cui tende era già suo nel passato, più vicino e più fedele di quanto non sia oggi. Anche l’animale ha dovuto abbandonare la sua prima patria e vive oggi in una seconda «ibrida e ventosa» che gli produce il desiderio – malinconico perché impossibile – di tornare indietro. Allora essere era ritmo del respiro, oggi è pathos della distanza, e la prima condizione non si ripeterà più nemmeno per l’animale. Stare nell’Aperto non è dunque per l’animale né un idillio né l’abitare il paese di Bengodi: l’animale soffre come noi la distanza dall’origine, sa come noi la morte. Ma vive l’una e l’altra non camminando a ritroso come i gamberi, bensì avanzando nell’Aperto, guardando fuori, guardando verso il fuori.
- Il gatto di Derrida e la cagna di Lacan: i confini dell’uomo
La diffidenza heideggeriana nei confronti dell’antropologia e dell’intero campo delle scienze umane, si trasmette, con la sola vistosa eccezione per il pensiero di Claude Levi-Strauss, a Derrida, a Lacan e a Foucault. Per ognuno di loro l’“uomo” in quanto soggetto-oggetto delle scienze umane è un concetto che va o decostruito o dissolto o cancellato. Di conseguenza per ognuno di loro il discrimine fra l’uomo e l’animale che fonda il discorso antropologico va, se non abolito, certamente forzato, e il limite, che serve a separarli, spostato o addirittura costretto a illimitarsi.
Riprendendo nel 1997 a Cerisy la Salle un discorso sui “fini dell’uomo” iniziatovi anni prima e ripreso decade dopo decade, Derrida decide questa volta di spostarsi «dalle “fini dell’uomo” e quindi dai suoi confini al “passaggio delle frontiere” tra l’uomo e l’animale». «Varcando le frontiere, aggiunge, o le fini dell’uomo, giungo all’animale: all’animale in sé, all’animale in me e all’animale che si sente mancante, a quell’uomo di cui Nietzsche diceva pressappoco, non mi ricordo dove, che era un animale ancora indeterminato, un animale mancante di sé»[26]. Lo fa partendo da un’esperienza autobiografica che lega insieme la nudità, lo sguardo e la vergogna. L’esperienza consiste nell’accorgersi di essere guardati da un animale, in questo caso un gatto, mentre si è nudi e vergognarsene. Ma anche, un attimo dopo, di provare vergogna di essersi vergognati: che ne sa il gatto della nudità e della vergogna che si prova a mostrarsi nudo come una bestia lui che è nudo senza sapere di esserlo e quindi senza provare alcuna vergogna, o almeno così sembra, per il fatto di andare in giro come la natura l’ha creato, senza vestiti addosso? Quest’esperienza è vertiginosa, mette in discussione l’identità umana del soggetto che la prova, lo obbliga a chiedersi chi sia rispetto alla differenza fra l’uomo e l’animale. «Di fronte al gatto che mi guarda nudo, scrive Derrida, dovrei provare vergogna come una bestia che non ha più il senso della sua nudità? O piuttosto come un uomo che conserva il senso della sua nudità? Ma io, dunque, chi sono? Chi è che sono? A chi domandarlo se non all’altro? Forse proprio al gatto»[27]?
Ma chi è l’altro? In Derrida chiunque, chiunque arrivi, e arrivando, insalutato ospite, ponga in bilico l’identità ristretta di me stesso. L’altro, dice Derrida, è dell’altro, intendendo con questo che l’alterità dell’altro è irriducibile a ogni chiusura identitaria, a ogni universalismo sia logico che etico e politico. L’altro è l’altro uomo, ma anche l’animale, anche dio, e anche una macchina, è chiunque e qualunque cosa mi invada alterandomi, facendomi diventare altro da me stesso.
Quanto questo tema dell’altro sia importante lo si può comprendere nel momento in cui si affronta la critica che sempre riguardo all’animale Derrida tenta della posizione di Lacan. In quest’ultimo infatti l’Altro, scritto con la A maiuscola, indica il tesoro del significante, ossia la struttura generale del linguaggio, rispetto alla quale il soggetto del desiderio, il soggetto dell’inconscio, nella misura in cui è rappresentato da un significante, cioè da un elemento del sistema del linguaggio, sta in posizione di esclusione interna, dentro l’Altro e contemporaneamente fuori. Dal momento che la differenza fra l’uomo e l’animale sembra giocarsi tutta per Lacan in riferimento all’appartenenza o meno alla sfera del linguaggio, all’esser afferrati o no nella trappola rappresentata dal linguaggio, è su questo punto che si sofferma più attentamente l’analisi critica di Derrida. Dove si situa l’animale, dove collocheremo la sua differenza rispetto all’uomo? Se la questione si gioca rispetto all’ordine del linguaggio, allora l’animale si porrà nella differenza fra la finta e l’inganno.
Ricordiamo prima di procedere alcuni punti importanti: 1) Lacan sa benissimo che gli animali comunicano, cioè usano i segni, e i voli in cerchio delle api per indicare la distanza che separa il nettare dall’alveare ne sono la prova lampante; 2) fra segno e significante va fatta una distinzione essenziale: il segno rappresenta un oggetto per un soggetto, un significante rappresenta il soggetto per un altro significante. La conseguenza è che mentre l’animale sa fingere, vale a dire usa i segni perché significhino altro dall’oggetto che sono deputati a rappresentare – sono gli esempi noti del cambiare colore per fingere di essere il cacciatore del proprio cacciatore o per confondersi con l’ambiente, fare il morto, cancellare le proprie tracce – l’uomo sa ingannare, cioè è in grado di far credere all’altro che sta mentendo mentre dice il vero e dicendo il vero. In altri termini, mentre l’animale sa fingere, l’uomo – ed è tutta la differenza – sa fingere di fingere.
Da qui la conseguenza più importante: l’animale è incapace di responsabilità perché essere responsabili, ossia rispondere di sé, dell’altro e per l’altro, vuol dire prendere su di sé il carico del saper fingere di fingere convincendo l’altro che non si sta dicendo la verità al fine di ingannarlo. L’abisso della veracità per l’uomo, e quindi della fiducia e della fedeltà, sta nel fatto che non basta dire la verità, bisogna dire la verità con verità, bisogna dire veramente la verità, bisogna appunto essere veraci.
Come sempre Derrida non intende dimostrare la falsità di questo discorso di Lacan, vuole decostruirlo; il che significa spostare i limiti, le differenze e le soglie su cui si articola e si fonda. Si tratta di operare su due fronti: mostrare come tutto ciò che si attribuisce all’uomo – la finta e la finta di finta – potrebbe essere presente anche nell’animale e tutto quello che confina l’animale in un altro regno – l’automatismo istintuale, il carattere coatto e ripetitivo di certi comportamenti – sia rinvenibile anche nell’uomo. Come discernere ad esempio fra una finta e una finta di finta? Se per esempio si analizza una parade sessuale e ci si accorge che qui è impossibile fornire un criterio per distinguere una finta da una finta di finta, «se ne può concludere che ogni finta di finta resta una semplice finta (animale, o immaginaria, direbbe Lacan) oppure al contrario, ma altrettanto bene, che ogni finta, per quanto semplice, si ripete e si pone, indecidibilmente, nella sua possibilità, come finta di finta (umana, o simbolica, secondo Lacan)»[28].
Si tratta insomma di stabilire se il luogo dell’Altro in quanto costituito dal linguaggio, questo luogo che, nonostante il ripudio lacaniano dell’ipotesi dell’esistenza dell’Altro dell’Altro, vale a dire di un garante ultimo che attesti la possibilità di distinguere fra inganno e verità più ancora che fra finta e finta di finta, resta comunque il luogo dell’Altro come testimone e pegno della verità della relazione fra i soggetti, sia un luogo esclusivamente umano o non anche animale. Potrebbe essere un luogo anumano? Per Derrida sì; anzi la necessità che sia così, attestata in fin dei conti anche da Freud con l’identificazione fra la Legge, Dio, il Padre e l’Animale, «non agisce segretamente in Lévinas e Lacan, che si incontrano peraltro molto spesso, malgrado tutte le differenze del mondo»[29]?
Il problema, alle volte, di Derrida nei riguardi di Lacan è che si ostina a non leggere i seminari continuando a riferirsi esclusivamente agli Écrits[30]. Posizione comprensibile quando dei seminari si sapeva poco e nulla, ma difficile da condividere successivamente con molti dei seminari pubblicati e gli altri facilmente reperibili in edizioni fuori commercio. Se li avesse letti avrebbe scoperto alcune cose divertenti e, se non delle abiure di pensiero vere e proprie, delle oscillazioni significative presenti tra un seminario e un altro e addirittura tra un anno e il successivo.
È il caso dell’animale; e non di un animale qualunque, ma di uno molto particolare, quasi un essere singolare: la cagna di Lacan di nome Justine (in riferimento a Sade, anche se, precisa Lacan, non viene sottoposta a nessun tipo di sevizie). Nel seminario inedito L’identificazione del 1961-1962, Lacan, per scrollarsi di dosso l’accusa ricorrente di misconoscere «ciò che si chiama il preverbale» e di conseguenza l’animale, di credere che l’uomo abbia, per il solo fatto di parlare, in tutto questo non si sa quale «privilegio», decide di far riferimento alla sua cagna che, dal suo punto di vista e senza alcuna ambiguità, parla. Il che non vuol dire che «abbia totalmente il linguaggio», ma che, quando ha bisogno di parlare, ossia non sempre come capita all’uomo che alle volte parla a vuoto, parla tanto per parlare, bensì in certi «momenti di intensità emotiva e di rapporto agli altri», per esempio a lui Lacan o a altre persone, lo fa attraverso «dei piccoli mugolii gutturali». Se si facessero delle ricerche fonologiche ci si accorgerebbe che in queste situazioni la cagna di Lacan articola differentemente i suoni e quindi, incontestabilmente, parla.
E tuttavia c’è una differenza: a separare la parola di Justine da quella propriamente umana c’è il fenomeno dell’identificazione, ossia il fatto che mentre l’uomo in quanto essere che parla può prendere colui al quale si rivolge per un altro, può prendere, come si dice, lucciole per lanterne, Justine non sbaglia mai, se vuole parlare a Lacan parla a Lacan[31]. In gioco c’è la questione del transfert e quindi lo statuto dell’analisi: giacché è sicuro che la prima cosa che il paziente fa con l’analista è di prenderlo per un altro, attribuendogli per identificazione una posizione e dei sentimenti del tutto diversi da quelli che ha come individuo al di fuori del setting analitico. Justine non può andare in analisi, disgrazia riservata solo all’essere parlante.
Tradotta nella linguisteria di Lacan, questa situazione significa che quando il soggetto in analisi prende l’analista per un altro (ma non capita sempre e la differenza è che l’altro non sia un analista?) lo situa al livello dell’Altro, scritto «con una grande A». Ma aggiunge Lacan: «ciò è esattamente quel che manca alla mia cagna, per lei non c’è che il piccolo altro. Per il grande Altro, non sembra che il suo rapporto al linguaggio le dia l’accesso»[32]. Dunque la differenza è questa: Justine entra in relazione, e da questo punto di vista parla, con l’altro immaginario, l’altro della relazione speculare, nel caso specifico Lacan stesso, ma non con l’Altro simbolico, con l’Altro del linguaggio. Parla e non parla, parla senza sapere di parlare.
Se mi prendessi per un altro, per esempio per Derrida, potrei obiettare: ma non capita anche all’uomo di parlare senza sapere di parlare, senza sapere ciò che dice? E potrebbe anche accadere che Lacan mi sentisse e mi rispondesse. Esattamente un anno dopo, nel seminario sull’angoscia, parlando di alcuni esperimenti (in verità abominevoli) di ispirazione pavloviana rivolti a produrre negli animali forme di nevrosi artificiale, ad angosciarli, costringendoli in situazioni spiacevoli e stressanti, Lacan, riconoscendo implicitamente agli animali la possibilità di provare l’angoscia nevrotica (in modo “naturale” e non provocato in laboratorio), fa notare che la presunte “oggettività” e “neutralità” dell’esperimento sono del tutto illusorie dal momento che la stessa presenza dell’osservatore «in quanto personaggio umano, manipolatore di un certo numero di cose attorno all’animale, doveva essere messa in conto in tale e talaltro momento dell’esperimento». Infatti, «sapendo come si comporta un cane di fronte a qualcuno, che sia o non sia il suo padrone, sappiamo che in ogni caso per un cane la dimensione dell’Altro conta». E le cose aggiunge non cambierebbero se si trattasse di una cavalletta o di una sanguisuga: anche in questi casi, «per il solo fatto che vi è un montaggio di apparecchi, la dimensione dell’Altro è presente»[33]. Non ci sono dubbi: è proprio l’Altro, scritto con una grande A, è proprio l’Altro del linguaggio, l’Altro simbolico. E se pure qualcuno avesse il coraggio di replicare facendo notare che né la cavalletta né la sanguisuga ne sanno niente di questo grande Altro, la risposta di Lacan sarebbe questa: completamente d’accordo, ma quando mai l’uomo ne sa qualcosa del grande Altro, quando mai l’uomo ne sa qualcosa di ciò che lo costituisce? Come per l’animale anche per lui il discorso dell’Altro è (l’) inconscio.
Infine ecco ciò che Lacan, durante il sessantotto, dice parlando a e di Justine di fronte a un pubblico di studenti universitari che lo contesta dileggiando la psicoanalisi e il linguaggio involuto del suo rappresentante:
Parlerò della mia egeria, che è di questo tipo [un cane passa sulla pedana]. È la sola persona che io conosca che sappia ciò che parla – non dico ciò che dice. Non è che essa non dica niente – non lo dice in parole. Dice qualcosa quando ha l’angoscia – succede – posa la testa sulle mie ginocchia. Lei sa che dovrò morire, cosa che sa anche un certo numero di persone. Si chiama Justine, è la mia cagna, è molto bella, e l’aveste sentita parlare... La sola cosa che le manca rispetto a quello lì che va a spasso è di non essere andata all’università[34].
- Bestiari e storie naturali: per un’archeologia della classificazione
La questione animale non si affronta riducendola a una sottospecie dell’esclusione sociale o a un ramo minore del diritto, ma interrogando e decostruendo i sistemi di verità, i criteri delle classificazioni e le distribuzioni delle soglie e dei differenziali che scandiscono la scala o la catena degli esseri. È l’operazione di Foucault del quale è decisivo non tanto l’accostamento fra gli animali e i folli o la schiera degli uomini infami rispetto al fenomeno dell’esclusione e dell’internamento, quanto il ruolo che un cambiamento di episteme produce sul modo di considerare gli animali. Non a caso siamo partiti dalla citazione foucaultiana dell’enciclopedia cinese di Borges e dal suo strano modo di accostare gli animali confondendo realtà e immaginazione, osservazione naturale e racconto di finzione.
Scegliendo come snodo a partire dal quale ci si può accostare ai diversi modi di considerare gli animali quello del passaggio dall’episteme del rinascimento cui non è estranea qualche presenza ancora medievale a quella classica fondata sul primato della rappresentazione, una delle prime cose che incontriamo è il concetto di storia naturale. Lo sconcerto che un siffatto oggetto del sapere produce è dovuto alla sua contemporaneità al meccanicismo cartesiano del quale sembra essere esattamente l’opposto. Per Foucault al contrario «la stessa episteme ha autorizzato sia la meccanica da Cartesio fino a d’Alembert, sia la storia naturale da Tournefort a Daubenton»[35]. Perché la storia naturale si costituisse non fu necessario, quindi, che la natura diventasse densa, oscura e complicata fino al punto da richiedere per essere compresa un metodo distante dal calcolo e dalla misurazione, non fu necessario, in altri termini, che la natura diventasse storia, bensì che «la storia divenisse naturale»[36].
Fino ad allora sul vivente si erano scritte solo storie, mai storie naturali. La storia, infatti, era «il tessuto inestricabile, e del tutto unitario, di ciò che delle cose è veduto e tutti i segni che in esse sono stati scoperti o su di esse deposti». Fare, di conseguenza, la storia di una pianta o di un animale significa disporre sullo stesso piano cose diverse ed eteroclite, elencare ad esempio e senza alcuna soluzione di continuità «quali ne sono gli elementi o gli organi, quali somiglianze possono venire a essi attribuite, le virtù di cui li si dota, le leggende e le storie cui sono mescolati, i blasoni in cui figurano, i farmaci che vengono fabbricati con la loro sostanza, gli alimenti che forniscono, ciò che gli antichi ne riferiscono, ciò che possono dirne i viaggiatori». La storia di un essere vivente, conclude Foucault, «era quell’essere stesso all’interno di tutto il reticolo semantico che lo collegava al mondo»[37]. Valevano i principi della somiglianza, dell’analogia e della corrispondenza: il macrocosmo si rispecchiava dentro il microcosmo.
Col mutamento di episteme cambia in primo luogo lo statuto dei segni: mentre prima «facevano parte delle cose», adesso «divengono modi della rappresentazione»[38]. Se apparentemente non c’è, riguardo al contenuto, nessuna differenza fra una storia naturale scritta prima della metà del XVII secolo e una scritta dopo, in realtà esse sono distantissime: quel che è accaduto è stata la separazione fra parola e cosa. Ora la parola non è più tutt’uno con la cosa, è l’indice che mi permette di vederla nella sua purezza e quindi che decide anche di ciò che ne potrà essere detto: si impone un nuovo regime nei rapporti fra il visibile (le cose) e il dicibile (le parole).
Con Linneo la decrizione del singolo animale ha raggiunto uno statuto epistemico chiaro e definito con il suo andamento specifico e metodico: prima «nome, teoria, genere, specie, attributi, uso» e solo dopo, per finire, «Litteraria»[39]. Ciò che costituiva il nerbo delle descrizioni precedenti è situato sul margine estremo, quasi esterno al discorso, e la cosa liberata da questo linguaggio immaginifico può apparire così come è, naturale, «coi suoi caratteri speciali, ma all’interno di quella realtà delimitata subito dal nome»[40].
Scompare la stranezza: «durante il Rinascimento, la stranezza animale era spettacolo: figurava nelle feste, nelle giostre, in combattimenti fittizi o reali, in ricostruzioni leggendarie, in cui il bestiario svolgeva le sue favole senza età». Ora «il gabinetto di storia naturale e il giardino, nelle forme in cui vengono attrezzati nel periodo classico, sostituiscono al corteo circolare della “mostra” l’esposizione delle cose in un “quadro”». Non si è di fronte all’imporsi di un desiderio di sapere fino ad allora o sopito o impedito, ma a un nuovo modo «di connettere le cose a un tempo allo sguardo e al discorso»[41]. L’obiettivo non è più la descrizione, ma la nominazione: il visibile non va più descritto così come lo si vede ma visto attraverso la sua nominazione.
Il modello foucaultiano di storia antecedente all’avvento dell’episteme classica si adatta perfettamente ai bestiari medievali: come nota Michel Pastoureau «lo studio dei bestiari appartiene più al campo della storia culturale che di quella naturale»[42]. E questo non perché gli uomini del Medioevo non sapessero osservare assai bene la fauna e la flora, ma perché «non pensavano che ciò avesse un rapporto col sapere, né che potesse condurre alla verità». Quest’ultima infatti, non aveva a che fare con la fisica, ma con la metafisica: per il Medioevo «il reale è una cosa, il vero un’altra, diversa»[43].
Per quanto nel Medioevo fosse presente anche una corrente di pensiero per la quale, essendo l’uomo fatto a somiglianza di Dio, egli è contrapposto all’animale considerato naturalmente sottomesso e imperfetto se non addirittura impuro, tuttavia la posizione dominate degli autori cristiani era quella di «un’autentica comunione fra tutti gli esseri viventi e di una parentela – non solo biologica – tra l’uomo e l’animale», che in tal modo poteva diventare anche «un modello per gli umani» citato in questa veste dai teologi, dai moralisti e dai predicatori. Nel medioevo l’animale è onnipresente, se ne parla costantemente, lo si chiama in causa a ogni occasione e lo »si trasforma nel luogo privilegiato di tutte le metafore e di tutti i simboli»[44].
Ci si potrebbe chiedere se un equivalente dei bestiari medievali relegati oggi dopo l’avvento della scienza al rango delle stranezze di epoche non solo passate ma soprattutto buie e irrazionali non sia proprio la psicoanalisi con tutto il suo fantastico bestiario popolato non soltanto di giraffe e cavalli ma anche di lupi, ratti e altri animali.
[1] J. L. Borges, L’idioma analitico di John Wilkins, tr. it. in Tutte le opere, vol. I, Mondadori, Milano 1984, pp. 1004-1005.
[2] M. Foucault, Le parole e le cose, tr. it. Rizzoli, Milano 1967, p. 5.
[3] Termine coniato da Jones a proposito di Freud e ripreso da Lacan nel seminario XI sui quattro concetti fondamentali della psicoanalisi: cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, ed. it. Einaudi, Torino 1979, p. 29.
[4] Sul punto si veda il bel romanzo di J. M. Coetzee, La vita degli animali, tr. it. Adelphi, Milano 2009. Sulla questione dell’animale a partire dal testo di Coetzee si veda L. Meneguzzi, Limine animale. Approssimazioni antropologiche all’alterità animale, in B. Lauretano – F. Arena (a cura di), Anima animale. Prospettive di zoosemiotica cognitiva, ESI, Napoli 2003, p. 169 sgg.
[5] Per una critica del concetto di persona si veda R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007; e E. Lisciani-Petrini, Verso il soggetto impersonale, in «Filosofia politica», 1, 2012, p. 39 sgg.
[6] Cfr. J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, tr. it. Utet, Torino 1998, p. 421.
[7] Ibid.
[8] Ibid., p. 422.
[9] Per questa e le precedenti L. Bolk, Il problema dell’ominazione, ed. it. DeriveApprodi, Roma 2006, pp. 47-52.
[10] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, tr. it. in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, t. II, Adelphi, Milano 1972, p. 68.
[11] A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it. Feltrinelli, Milano 1983, p. 51.
[12] Ibid., p. 52.
[13] Ibid., p. 63.
[14] Ibid.
[15] Ibid., p. 107.
[16] Su questi aspetti si veda M. De Carolis, Il paradosso antropologico, Nicchie, micromondi e dissociazione psichica, Quodlibet, Macerata 2008.
[17] Su questi temi heideggeriani rinvio ai miei Vita fattizia e eros impotente. Heidegger, Benjamin e la questione universitaria, in La lingua muta e altri saggi benjaminini, Filema, Napoli 2000, in particolare pp. 35-67 e Mondializzazione e privazione. Una riflessione sul mondo fra Heidegger e Marx, in «Kainos. Rivista on-line di critica filosofica», 3, 2003, www.kainos.it.
[18] M. Hedegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo - finitezza - solitudine, ed. it. il melangolo, Genova 1992, p. 232.
[19] J. Von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, ed. it. Quodlibet, Macerata 2010, p. 43.
[20] Ibid., p. 74.
[21] Ibid., pp. 74-75.
[22] Per questa e la precedente, ibid., p. 49.
[23] M. Heidegger, Parmenide, tr. it. Adelphi, Milano 1999, pp. 270-271. Su questi punti si veda G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 60-65.
[24] R. M. Rilke, Elegie duinesi, tr. it. in Poesie. II (1908-1926), Einaudi, Torino 1995, p. 91.
[25] Ibid.
[26] J. Derrida, L’animale che dunque sono, cit., p. 37. Gli incontri precedenti dei colloqui di Cerisy la Salle cui Derrida fa riferimento sono quelli del 1980 pubblicati in Les fins de l’homme. A partir du travail de Jacques Derrida, Galilée, Paris 1981 e quelli del 1992 editi in Le passage de frontières. Autour du travail de Jacques Derrida, Galilée, Paris 1994. Quelli del ’97 sono stati pubblicati in L’animal autobiographique. Autour de Jacques Derrida, Galilée, Paris 1999.
[27] Ibid., p. 40. Su Derrida e la questione animale si veda M. Calarco, Zoografie. La questione dell’animale da Heidegger a Derrida, Mimesis, Milano 2012, pp. 109-157.
[28] J. Derrida, L’animale che dunque sono, cit., p. 191.
[29] Ibid., p. 189.
[30] Letti d’altronde non integralmente e pur sempre con qualche pregiudizio: in Una questione preliminare a ogni possibile trattamento della psicosi, quindi già nel 1958, Lacan aveva dichiarato che se l’animale «intrattiene con il suo Umwelt “relazioni esterne” sensibilmente più ristrette delle nostre» ciò non vuol dire tuttavia che «la sua relazione con l’Altro sia nulla, ma soltanto che ci appare unicamente in sporadici abbozzi di nevrosi» (cfr. J. Lacan, Scritti, ed. it. Einaudi, Torino 1974, tomo II, p. 547).
[31] Su questo punto cfr. C. Furlanetto, Justine e Jacques: sulla soglia di una finita differenzialità. Responsabilità e imputabilità a partire da Derrida, Lacan e Contri, in B. Bonato - E. Villalta (a cura di), Animali, uomini e oltre. A partire da La bestia e il sovrano di Jacques Derrida, Mimesis, Milano 2011, soprattutto pp. 60-67.
[32] Per questa e le precedenti cfr. J. Lacan, L’identification. Séminaire 1961-1962, inedito, lezione del 29 novembre 1961. Su Justine e in generale sulla presenza dell’animale in Lacan si veda E. Macola, A. Bradalise, Bestiario lacaniano, Paravia Bruno Mondadori Editore, Milano 2007.
[33] Per questa e le precedenti cfr. J. Lacan, Il seminario, Libro X. L’angoscia 1962-1963, ed. it. Einaudi, Torino 2007, pp. 323-324.
[34] J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi 1969-1970, ed. it. Einaudi, Torino 2001, p. 247.
[35] M. Foucault, Le parole e le cose, tr. it. Rizzoli, Milano 1970, p. 144.
[36] Ibid.
[37] Ibid., p. 145.
[38] Ibid.
[39] Ibid., p. 146.
[40] Ibid.
[41] Ibid., p. 147.
[42] M. Pastoureau, Bestiari del Medioevo, tr. it. Einaudi, Torino 2013, p. 7.
[43] Ibid., p. 7.
[44] Ibid., p. 12.