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Indice
- Le cose che restano
- La febbre delle cose che passano
- Oggetti liquidi e liquide ritualità
S&F_n. 17_2018
Abstract
The indiscreet Charm of Things: from Consul’s Booklet to hydrocarbons Alchemy
This essay intends to investigate the way our perception and use of objects has been changing, by making reference to a series of literary works: from the 18th and 19th “triumphant middle class” – the one of some of Thomas Mann’s pages – preserving and revering objects and surrounding themselves with things intended to last over time, to the objects displayed in the shop windows of the magasins de nouveautés described by Zola, to the bulimic hoarding of soulless things intended to be used and thrown away in a flash, described in Don De Lillo’s novel, Rumore Bianco, where this bulimic hoarding seems meant to exorcise the anguish of death.
Venezia ritratta a musaici, gli acquerelli un po’ scialbi,
le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici,
le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature,
i dagherrotipi: figure sognanti in perplessità,
il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone
e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto,
il cucù dell’ore che canta, le sedie parate a damasco
chèrmisi... rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!
G. Gozzano
- Le cose che restano
Ci sono diversi tipi di oggetti e diversi modi di organizzare lo spazio circostante modellando i propri orizzonti abitativi. Che siano di buon o cattivo gusto, le cose, tutte le cose – gli orologi a cucù, le sedie, i dagherrotipi, i libri e la loro miriade di segni fitti ed evanescenti, fino agli smartphone e alla ridondanza delle immagini digitali – sono lo sfondo più o meno costante, più o meno evanescente, a seconda dei luoghi e dei tempi, a partire da cui prendono vita le nostre tonalità emotive.
L’umano pare essere un collezionista compulsivo di cose: con esse tenta forse di riparare alla propria originaria solitudine e di fare del mondo a poco a poco la sua dimora.
Gli oggetti hanno l’impronta del tempo che su di essi va sedimentandosi e sfidano il tempo attraverso la loro muta costanza, il loro permanere a dispetto di coloro che le posseggono, destinati ineluttabilmente a passare.
Eppure ci sono modi diversi di forgiare e di possedere, di utilizzare e di contemplare, di consumare e di cestinare; questi modi sembrano dirci qualcosa sul trascorrere del tempo, sui gusti, le mode e le evoluzioni del collezionista.
La borghesia trionfante che conquista pieni diritti e una posizione privilegiata nel mondo a partire dalla fine del XVIII Secolo, quella che stabilizza la sua egemonia nel corso dell’Ottocento, ama circondarsi di cose. Il suo fervore di accumulazione non riguarda solo il denaro, ma si esprime soprattutto negli oggetti, oggetti che potremmo definire “duri”, perché di una consistenza atta a sfidare le leggi del tempo.
Lo spirito di questa borghesia trionfante – che di lì a poco sarà contagiata dalla malattia del sospetto, che tutto mette in questione, valori uomini e cose – intende procedere con passo sicuro verso l’immortalità di un futuro sempre migliore e ama circondarsi di oggetti che paiono riprodurre questa eternità.
Interpreta infatti il passato e tutto quanto lo testimonia – templi, edifici, oggetti, norme e valori – in maniera monumentale: preservare la grandezza del passato e i suoi testimoni vuol dire infatti continuare a tendere verso quella grandezza, prolungandola nel presente e nel domani[1]. Lo spirito borghese è fedele e ottimista: crede nel mondo e nelle cose, nella loro inamovibilità e nella possibilità di trasmettere il bello, il buono e il vero:
Perché devi sapere che quell’uomo era la fedeltà personificata […]. Era fedele persino agli oggetti. Voleva conservare, custodire tutto. C’era questo di borghese in lui – il volto nobile della borghesia. Non voleva serbare con cura solo gli oggetti, ma tutto ciò che vi è di bello, di prezioso, di sensato, sai… le buone abitudini, i costumi, i mobili, la morale cristiana, i ponti; il mondo così come lo avevano costruito gli uomini, a costo di enormi fatiche, con ingegno e sofferenza, il frutto di menti geniali e di mani callose… Per lui era tutto di pari importanza, lui amava il mondo e voleva proteggerlo da qualcosa[2].
Sono fatti per restare alcuni oggetti, per accumulare polvere senza stancarsi, sono fatti per essere riparati, per subire l’offesa di mani improvvide e la consolazione di altre mani sapienti a ripararli. Sono testimoni dei giorni alcuni oggetti, in silenzio assistono al mutare dei corpi e delle stagioni e di quanto accade nei dignitosi palazzi borghesi, nulla svelano all’esterno.
Tra i protagonisti di quella grande saga familiare che è I Buddenbrook, c’è sicuramente un libricino, un taccuino conservato gelosamente, sul quale, di generazione in generazione, vengono annotati tutti gli accadimenti, minuti e importanti della vita familiare:
Non mancava nessun particolare del suo breve passato. La sua nascita, le malattie infantili, il primo giorno di scuola, l'ingresso nel pensionato di Mademoiselle Weichbrodt, la confermazione: tutto era registrato con cura e con rispetto quasi religioso dei fatti, con la minuta e corrente scrittura commerciale del console: poiché non era forse anche il più insignificante di quei fatti opera e volontà di Dio, il quale aveva meravigliosamente guidato i destini della famiglia? Che cosa ci sarebbe stato da aggiungere in avvenire sotto quel nome che lei aveva ereditato dalla nonna Antoniette? Certo tutto ciò sarebbe stato letto dai futuri membri della famiglia con la stessa devozione con cui ella seguiva ora gli avvenimenti passati[3].
Quell’oggetto minuto, dalle pagine ingiallite, non solo costituisce un testimone d’eccellenza dei giorni ma contribuisce esso stesso a rendere i giorni monumentali, degni di essere ricordati e annotati, perché negli eventi piccoli come in quelli grandi pare trasparire sempre una mano superiore a guidare i destini della famiglia.
- La febbre delle cose che passano
I Buddenbrook esplicitano proprio la parabola di un mondo nei cui fasti pare già annidarsi il germe della corruzione: tale mondo armoniosamente ordinato e soprattutto l’incrollabile fede in esso saranno sostituiti dal sospetto e dall’incertezza accompagnati da una sorta di perverso piacere per l’effimero e il transeunte. Questa deriva si rispecchia negli oggetti e nella modalità attraverso cui di essi ci si appropria.
I passages di Parigi rappresentano forse la spazialità più significativa di una transizione in atto: quella dall’oggetto unico, “duro”, che si tramanda di generazione in generazione, all’oggetto che ammicca da una vetrina, accattivante ma effimero, destinato a durare quanto le volubili brame delle signore a passeggio. Se i passages costituiscono uno spazio promiscuo e poco sicuro, di consumatori e prostitute, ancora poco frequentato dalle buone dame della borghesia[4], il bon marché, o il Magasin de nouveautés diventa un luogo accessibile a tutti, perché costituisce all’interno della città, uno spazio maggiormente protetto[5]:
Lo spazio mondano interno del capitale non è un’agorà né un mercato a cielo aperto, è al contrario una serra che ha risucchiato al suo interno tutto ciò che prima era esterno[6].
La vetrina allestita da mani sapienti atte a suscitare il desiderio è lo spazio profanissimo, nel quale tuttavia pare celarsi qualcosa di sacro: è al contempo immanenza e trascendenza, un assolutamente visibile, che oscenamente fa mostra di sé ma allo stesso tempo va negandosi, poiché ciò che seduce dietro le spesse vetrine risulta intoccabile, non immediatamente appropriabile e per questo fonte di frustrazione e desiderio. La vetrina infatti rende l’oggetto visibile ma intoccabile, possibile ma non reale[7]. Il capitalismo trionfante del resto capisce subito che più in alto della realtà sta la possibilità, e che da questa sbrilluccicante fantasmagoria del possibile si può trarre grande vantaggio.
E l’oggetto, relegato alla muta cosalità di utilizzabile, pare animarsi, vivere di una vita propria e nascosta, sospesa in un altrove, la cui distanza è segnata dall’ostacolo trasparente della vetrina, vivificata dall’occhio che la brama.
Quanto più aumentano gli sguardi posati sulle vetrine, tanto più esse e i loro contenuti appaiono vivi e vibranti. In questo processo di animazione e antropomorfizzazione delle cose[8], dove il soffio vitale è continuamente instillato dalla cupidità dello sguardo femminile, esse paiono assumere gli stessi stati emozionali di coloro che le contemplano: fremono, si celano cariche di mistero, respirano con alito tentatore.
Le vetrine […] sembravano ora riscaldate e vibranti per l’interna animazione. C’era gente a guardarle; delle donne stavano lì ferme contro i cristalli; una folla intera fatta brutale dalla bramosia. E le stoffe in quella passione che muoveva dal marciapiede, vivevano; le trine avevano tremiti e ricadevano nascondendo la profondità del magazzino con un’aria di mistero che turbava; le pezze stesse delle stoffe, fitte e quadrate, respiravano con alito tentatore; gli abiti si drizzavano anche più eleganti nelle loro curve su manichini che divenivano animati, specialmente il gran mantello di velluto, morbido e tiepido come se avvolgesse spalle di carne, con sussulti del petto e fremiti delle anche[9].
L’ordine certosino delle vecchie e umide botteghe di stoffe, delle loro poche mercanzie in mostra, sta per essere trascinato via dall’avvento di questi mostruosi centri del desiderio a buon mercato. Nessuna sobrietà, soltanto eccessi, non c’è alcuno spazio per il calcolo ragionato, i sensi tutti devono essere inondati dalla luce indiscreta delle cose, devono esserne pervasi, senza possibilità di scampo, in una ridondanza barocca che poco ha a che fare col buon gusto e l’eleganza: è un rapporto erotico quello che deve stabilirsi tra l’oggetto e il possibile compratore, ne è assolutamente consapevole Mouret, il proprietario del grande magazzino Au Bonheur des Dames; egli stesso appare legato eroticamente alla merce e al contempo alle donne di cui si serve per arricchirsi. La donna in tale contesto sembra essere proprio il volano di questo nascente e promettente business[10]; Mouret istiga i commessi ad accecare le passanti con un tripudio lascivo di stoffe srotolate a casaccio, dove l’unico imperativo è stordire i sensi attraverso l’abbondanza:
Ma perché cercate di far piacere all’occhio? Non abbiate paura; accecateli […]. Così, rosso! Verde! Giallo! Aveva preso la seta, e la svoltolava, la sgualciva, traendone lampi di luce. Ne convenivano tutti: il padrone era in tutta Parigi l’uomo che sapeva metter meglio la vetrina; a modo suo, a dire il vero; sconvolgendo tutte le tradizioni e fondando la scuola del grottesco e dell’enorme nella scienza delle mostre. Voleva che le stoffe sembrassero cadute a caso dai cartoni sventrati; e le voleva a monti, fiammeggianti dei colori più vivi, ravvivantisi l’una con l’altra. «Quando escono dal magazzino», soleva dire, «i clienti devono avere male alla retina»[11].
Il grande magazzino diventa spazio di condivisione sociale, inaugura pratiche rituali che producono valori collettivi: «È dalla metà dell’Ottocento, con la nascita dei grandi magazzini, che l’acquisto si è trasformato progressivamente da pratica individuale tesa al soddisfacimento dei bisogni, a necessario rito tanto individuale (costruzione dell’identità), che collettivo (socializzazione e identificazione)»[12].
Allora l’organizzazione dello spazio diventa questione fondamentale; di lì a poco qualcuno sosterrà che l’ambiente non è affatto dimensione neutra dentro la quale semplicemente “si sta”, bensì costruzione soggettiva e originale che ogni ente elabora a suo modo selezionando e manipolando i “dintorni” in virtù della propria particolare esigenza vitale[13]. Il capitale trionfante comprende quanto l’ambiente sia manipolabile e lo addobba per suscitare i bisogni-desideri dell’animale acquirente.
Allo spirito borghese descritto da Marai, uno spirito fedele, che preserva e venera il passato e i suoi artefatti, va sostituendosi una classe di consumatori il cui rapporto col tempo è completamente stravolto dall’evento effimero dell’acquisto compulsivo: il consumatore è «sradicato dal tempo e ammaliato dall’istante, dall’attimo in cui vede e si nutre dell’oggetto»[14].
- Oggetti liquidi e liquide ritualità
La prima scena del romanzo di Don De Lillo, Rumore bianco, ritrae un rituale collettivo che va ripetendosi da molti anni sempre uguale a se stesso: una fila di station wagon cariche di studenti con famiglie a seguito, attraversa il campus diretta ai dormitori. Tutte uguali le auto, come sembrano essere le persone che le occupano, uguale l’andatura, identico il tragitto; attraversano il settore occidentale del campus, in fila indiana girano attorno alla scultura metallica a forma di I, novello totem, centro cosmico temporaneo, in una società divenuta sempre più liquida.
Se ogni rituale da sempre si configura come la messa in opera collettiva di una serie di significati che rendono viva e pulsante una comunità, poiché ne rappresentano la trama valoriale, allora anche il rituale metallico che ha luogo ogni anno attorno al campus, costituisce l’esplicitazione postmoderna di un’appartenenza a valori e significati. In fila indiana queste automobili tutte uguali, eppure diverse perché diversamente variopinte, non mancavano di suscitare una certa suggestione luccicavano al sole come una carovana nel deserto
È tale congrega di station wagon […] a confermare loro, più dei riti formali e delle leggi, come essi costituiscano un’accolita di persone dai pensieri uguali, dai valori simili, un popolo, una nazione[15].
Siamo all’inizio dell’anno accademico, gli studenti ritornano al campus dopo le vacanze estive. Per affrontare il nuovo anno di studi è necessario che essi carichino fino all’inverosimile le loro lunghe automobili di oggetti indispensabili alla loro esistenza quotidiana. Comincia un lungo elenco:
I tetti delle auto erano carichi di valigie assicurate con cura, piene di abiti leggeri e pesanti; scatole di coperte, scarponi e scarpe, cancelleria e libri, lenzuola, cuscini, trapunte; tappeti arrotolati e sacchi a pelo; biciclette, sci, zaini, selle inglesi e western, gommoni già gonfiati […] gli stereo, le radio, i personal computer; piccoli frigo e fornellini portatili; scatole di dischi e cassette; asciuga e arriccia capelli; racchette da tennis, palloni da calcio, mazze da hockey e da lacrosse, frecce e archi; sostanze illegali, pillole e strumenti anticoncezionali; junk food ancora nei sacchetti della spesa: patatine all’aglio e alla cipolla, nachos, tortini di crema di arachidi, wafer e cracker, cicche alla frutta e popcorn caramellato; gazzose Dum-Dum, mentine Mystic[16].
Ci sono le cose che servono, abiti, scarpe e coperte per affrontare la stagione invernale e man mano che l’elenco procede gli oggetti paiono divenire sempre più inconsistenti, paiono perdere la loro tessitura di cose solide.
È un crescendo bulimico di oggetti di svago, trastulli, divertissement, feticci consolatori di una condizione che già a partire da tali descrizioni, appare inconsolabile.
Al fedele spirito borghese che avvolge di sentimento i vecchi oggetti su cui un passato fatto di storie, identità e appartenenza è andato sedimentandosi, si sostituisce un accaparramento bulimico e senza memoria che consuma e getta via in un eterno presente privo di velleità, oggetti senz’anima.
Se è vero che nel lungo processo di antropomorfizzazione l’umano è andato costituendosi e preservandosi attraverso la fondazione di spazi protetti, serre immunologiche a partire dalle quali è stato possibile abitare un ambiente poi fattosi mondo[17], pare che la serra nel postmoderno abbia le caratteristiche dello shopping mall, un posto sigillato, conchiuso in sé […] senza tempo[18]. Se la modernità inaugura una dimensione esistenziale caratterizzata dal rischio – quello dei grandi spostamenti di uomini, merci e capitali – questi spazi circoscritti, novelli parchi umani a tema, caratterizzati da un controllo costante esplicitato dalla presenza di telecamere e guardie giurate, sembrano riuscire a esorcizzare quella che de Martino indicava come “angoscia della storia”, il rischio di un futuro incerto: «Per il compratore essi sono un sistema – a diversi livelli di esplicitazione – di suggerimenti e orientamenti che vanno bene al di là della semplice sfera economica»[19], poiché aiutano e indirizzano nella scelta, limitando il peso della contingenza[20]. All’interno di questo novello panopticon dunque, l’animale-acquirente sente smussarsi l’asperità della contingenza della storia e si immerge in una dimensione senza tempo, entro la quale si sta nella storia come se non ci si stesse[21], ed entro la quale il rischio della scelta è mitigato dai consigli per gli acquisti. Luogo di attività profanissime certo, dove l’idiozia della merce accumulata non presenta neanche più lo splendore e il fasto della novità rappresentata dal capitalismo trionfante ai suoi esordi. Nell’epoca del nichilismo compiuto e del neoliberismo selvaggio, tanta abbondanza non suscita negli avventori assuefatti lo stupore da cui erano pervase le dame descritte da Zola. Lo shopping mall o semplicemente il supermercato – con i suoi sistemi elettronici inespressivi, lo scorrere e stridere dei carrelli, gli apparecchi di amplificazione per fare il caffè[22] e persino le grida onnipresenti dei bambini – è piuttosto uno sfondo, a partire dal quale l’esserci post-storico sta.
Anche i suoni paiono perdere la loro consistenza concreta: al chiacchiericcio allegro delle borghesi in cerca dell’affare, al tintinnare metallico delle casse, al fruscio delle sete e alle voci suadenti di commessi impegnati a convincere le donne all’acquisto, va sostituendosi un sordo rumore bianco: disumano? Inumano? Postumano? O addirittura qualcosa che ha a che fare con la sfera del sacro?
E sopra a tutto, sotteso a tutto, un rombo sordo e non localizzabile, come di forma di vita sciamante, esterno alla sfera della comprensione umana[23].
Eterotopia per eccellenza – dove lo spazio si profila perfetto, meticoloso e ordinato, quanto il nostro è disordinato, male organizzato, caotico[24] – il supermercato si presenta come un non-luogo metafisico passaggio e transizione, pieno di dati sovrannaturali, come sostiene Murray Jay Siskind, visiting professor di icone viventi, collega di Jack Gladney, il protagonista del romanzo:
[…] Questo posto ci ricarica sotto il profilo spirituale […]. Guarda quanto è luminoso. È pieno di dati sovrannaturali […]. Tutto è celato nel simbolismo, nascosto da veli di mistificazione e strati di materiale culturale […]. Le grandi porte si aprono scorrendo e si chiudono spontaneamente […]. Non dobbiamo aggrapparci artificialmente alla vita e neanche alla morte. Non si fa altro che procedere verso le porte scorrevoli[25].
Le eterotopie «hanno sempre un sistema di apertura e di chiusura che le isola nei confronti dello spazio circostante»[26].
Tripudio della merce in esposizione, si tratta di una iper-realtà scandita dalla presenza greve delle cose dove tuttavia le cose stesse paiono trascendersi, una iper-realtà che sembra trasformarsi nel suo contrario, dando vita cioè a una sorta di derealizzazione del mondo[27], nell’ambito della quale diventano possibili anche esperienze di tipo spirituale.
Nella società liquida descritta da De Lillo, pregna di cose fino alla nausea eppure sempre più rarefatta, l’accaparramento di oggetti, cibo spazzatura, medicine ed elettrodomestici costituisce un continuo scongiuro contro l’angoscia della morte; e anche la catastrofe ambientale che si consuma con la fuoriuscita di materiale tossico da un vagone ferroviario, appare circondata da un’aura di grandiosità e assume toni epici.
Nell’epoca della tecnica totalmente dispiegata il clorulo, le benzine, i fenoli, diventano altri nomi per designare l’inconoscibile e l’istanza sempiterna verso qualcosa che ci trascende:
L’enorme massa scura si muoveva come la nave dei morti di una leggenda norrena, scortata nella notte da creature con armatura e ali a spirale. Non sapevamo come reagire. Era una cosa tremenda da vedere, così bassa, zeppa di cloruri, benzine, fenoli, idrocarburi o quale che ne fosse di preciso il contenuto tossico. Ma era anche spettacolare, parte della grandiosità di un evento travolgente […] Il nostro timore era accompagnato da un senso di reverenza che confinava con il religioso. È certamente possibile essere messi in soggezione da ciò che minaccia la nostra vita, vederlo come una forza cosmica, tanto più grande di noi, più potente, prodotto da ritmi elementari e ostinati. Era una morte costruita in laboratorio, definita e misurabile, ma in quel momento ci pensavamo in un modo semplice e primitivo, come a una perversione stagionale della terra, a un’inondazione o a un tornado, qualcosa di incontrollabile[28].
[1] Cfr. F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, tr. it. Adelphi, Milano 1996.
[2] S. Marai, La donna giusta, tr. it. Adelphi, Milano 2004, p. 62.
[3] T. Mann, I Buddenbrook, tr. it. De Agostini, Novara 1986, p. 351.
[4] Si cfr. W. Benjamin, I passages di Parigi, tr. it. Einaudi, Torino 2010.
[5] V. Giordano, La metropoli e oltre: percorsi nel tempo e nello spazio della modernità, Meltemi, Roma 2005, p. 110.
[6] P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, tr. it. Meltemi, Roma 2006, p. 42.
[7] G. Amendola, La città vetrina. I luoghi del commercio e le nuove forme del consumo, Liguori, Napoli 2006, p. 5.
[8] «La merce subisce una doppia trasformazione: diventa altro da sé e acquista la parola», ibid.
[9] É. Zola, Al paradiso delle signore, tr. it. Newton Compton, Roma 2016, pp. 60-61.
[10] A tal proposito si cfr. W. Sombart, Lusso e capitalismo, tr. it. Unicopoli, Milano 1988.
[11] É. Zola, op. cit., p. 89.
[12] G. Amendola, op. cit., p. 9.
[13] Si cfr. J. von Uexküll, Umwelt und Innenwelt der Tiere, J. Springer, Berlin 1909.
[14] V. Giordano, op. cit., p. 123.
[15] D. De Lillo, Rumore bianco, tr. it. Einaudi, Torino 1999, p. 6.
[16] Ibid., p. 5.
[17] Si cfr. P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere, in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, tr. it. Bompiani, Milano 2004.
[18] D. De Lillo, op. cit., p. 48.
[19] G. Amendola, op. cit., p. 7.
[20] Ibid.
[21] Cfr. E. de Martino, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, Argo, Lecce 1995, p. 62.
[22] D. De Lillo, op. cit., p. 46.
[23] Ibid.
[24] M. Foucault, Utopie. Eterotopie, tr. it. Cronopio, Napoli 2006, p. 25.
[25] Ibid., p. 47 e p. 48.
[26] M. Foucault, op. cit., p. 23.
[27] Si cfr. M. Augé, Disneyland e altri non luoghi, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1999.
[28] D. De Lillo, op. cit., p. 155.