Autore
Indice
- La questione
- Realificazione e metafisica
- Fine della metafisica e… destino dell’uomo
S&F_n. 15_2016
Abstract
Human Destiny at the End of Space […and Time]
The common idea of time and space that we still have is surely due to Newton. Space, similar to a plank, is the entities on which and within take place all facts of the world, while time is the fundamental reason of self-identification and self-comprehension. With Einstein come to lay the foundations for the revolutionary concept whereby space and time do not exist. All this – and it is the fundamental reason for the unusual form of connection between physics and philosophy – can achieve extraordinary, speculative, acquisitions: a) the end of traditional metaphysics; b) each time this make-space, how about the existence of the entities/objects only as of the effective possibility (that is establishing actually) in their interrelationship, is preceded by a radical absence of being: there is existence only in the effectiveness of all this; c) that the Being of Western Tradition, being no longer something of a pre-writable in its pre-existence, being instead led, each time, of probabilistic, not causal, interrelations, opens to a new meaning of ontology as de-ontology. A de-ontology where being can be said only closed in the logos, in this-logos-here as the way of a strategy of man in his interrelation with the world.
Il vuoto consiste, a quanto pare, nella mancanza d’essere e nell’assenza.
DK 68 C 249
Succedeva continuamente qualcosa. E quando succede continuamente qualcosa si ha l’impressione di produrre qualcosa di reale.
Musil, L’uomo senza qualità
- La questione
Il recente rilevamento, e dunque l’attestazione e accertamento, dell’esistenza delle onde gravitazionali è solo l’ultima conferma diretta delle rivoluzionarie tesi einsteiniane databili oramai un secolo fa.
Non v’è dubbio che dette oscillazioni e vibrazioni dello spaziotempo schiudano a nuove e diverse possibilità del pensare, non più e non solo per la fisica contemporanea ma, altresì, per altre regioni del sapere. Sicuramente per quelle che si occupano a pieno servizio dello scandaglio e dell’interpretazione della relazione tra l’uomo e il mondo esterno; ma, anche e soprattutto, per quelle che si interessano e si cimentano, a partire dai nuovi modi della relazione tra uomo e mondo esterno, nel rielaborare piattaforme autonarrative, e perciò autosignificative, dell’uomo stesso.
Fuor di dubbio, indi, la filosofia.
Si tratta allora, principalmente, di cogliere e registrare il contenuto e la portata di detti elementi rivoluzionari al fine di individuarne i motivi davvero determinanti e risolutivi in vista di inedite autorappresentazioni dell’uomo.
Come si accennava, dunque, il rilievo dell’esistenza delle onde gravitazionali, nell’inverare ulteriormente le teorie einsteiniane, ci dice fondamentalmente un qualcosa di dirompente e decisivo, oramai non più sfumabile: e cioè che le concezioni di spazio e tempo che avevamo prima di Einstein sono non solo irrimediabilmente entrate in crisi come si è ritenuto nel secolo appunto einsteiniano ma, anzi e di più, a seguito proprio di queste ultime acquisizioni, risultano davvero del tutto vetuste e assolutamente non più agibili per l’uomo.
Ciò a ulteriormente dire che se è vero come è vero quanto proprio i fisici contemporanei si sforzano di sostenere da decenni, e cioè che la realtà è tutt’altro da quel che appare, qualsiasi questione d’ogni presunta, scontata, immediatezza della realtà, sembra da subito dissolversi, perché per comprenderla, per comprendere ciò a cui fisicamente accederemmo con istantaneità ed evidenza, è necessario tenere presente che quello a cui ci riferiamo, quando parliamo della realtà, è strettamente legato a una rete di relazioni, di informazioni reciproche tra enti, che tesse il mondo in cui, appunto, lo spazio e il tempo tradizionali non sorreggono più.
Ma, allora, proprio perché la realtà è un flusso continuo e continuamente variabile in cui i nostri tradizionali apriori di riferimento hanno completamente perso la loro significatività e utilità, da ultimo, quale destino per l’uomo, per quell’uomo che è arrivato a elaborare e verificare, in maniera sostitutiva, una concezione dello spazio quale immenso campo gravitazionale in continuo movimento e ha oramai derubricato il tempo a mera illusione?
Quale destino per quell’uomo che è arrivato a concepire il mondo, il complesso degli enti, non più solamente formato e composto di particelle e campi che poi vivono dinamicamente in uno spazio come entità fissa, ma da campi che, l’uno sull’altro, sovrapposti e/o in continuità, si muovono in una dimensione, il campo gravitazionale appunto, a sua volta dinamico e senza scansione temporale che tenga e aiuti, indi, a conoscerlo?
Quale avvenire per quell’uomo che è giunto alla sconcertante conclusione che non esiste più una posizione assoluta nello spazio, perché non c’è più uno spazio assoluto predeterminato su cui far leva e che non è più possibile individuarci e computarci nei termini della temporalità perché il tempo, anch’esso da apriori assoluto, è letteralmente fuor di sesto giacché la freccia temporale s’è indefettibilmente spezzata?
- Realificazione e metafisica
In apertura di un suo celebre scritto dell’inizio degli anni ’60, Prostor a jeho problematika (Lo spazio e la sua problematica), Jan Patočka ha posto una serie molto lunga di interrogativi a proposito della questione-spazio, che è così possibile condensare:
Che cos’è lo spazio? Esiste, di fatto, un’entità a cui diamo il nome di spazio? Se esiste, qual è il suo statuto ontologico, quale ne è il senso? Si dà in quanto esistenza autonoma o come momento di qualcos’altro? Se è momento d’altro, questo altro è oggettivo o soggettivo, e se soggettivo, secondo quale significato?
Lo spazio è, di fatto, un’entità semplice oppure è una struttura complessa? Se vale la seconda, quali sono i suoi componenti, quale la costruzione? Lo spazio appartiene ai concreta o ai generi regionali, oppure addirittura alle categorie? Come si pone rispetto ai principi generali e alle categorie, e quali sono i principi categoriali dello spazio? A quali categorie lo spazio è maggiormente legato?
Se lo spazio è la concretizzazione di una struttura relazionale, non si rende necessario allora porre, oltre a uno spazio onnicomprensivo del mondo (elemento dello spazio-tempo del mondo), anche una pluralità di spazi intesi come schemi concettuali e come entità relative ai diversi gradi della realtà?
[…] È soprattutto lo spazio in quanto tale qualcosa che rende possibile l’accesso alle cose? Oppure si deve necessariamente distinguere uno spazio come forma dell’accesso alle cose e come struttura delle cose? Quali sono i fenomeni fondamentali in cui consiste lo spazio inteso quale nostro accesso alle cose e quale struttura delle cose? Esiste una spazialità differente dallo spazio concepito come insieme di punti o di luoghi, analogamente a come esiste una temporalità differente dal tempo concepito come insieme di istanti o durate?[1]
Ora, al cospetto di una tal messe di questioni sollevate dal fenomenologo ceco allievo di Husserl e Heidegger, verrebbe sicuramente fatto di dire che ci si trova di fronte alla concreta eventualità di dover mettere mano a un vero e proprio Trattato, una vera e propria Enciclopedia sullo spazio [e parimenti si potrebbe dire del tempo] per venirne a capo. Tuttavia, così come Patočka stesso nel suo scritto non ha inseguito l’intento di «risolvere le domande poste, ma solo di sviluppare i problemi»[2], di sviluppare alcuni dei problemi, nelle considerazioni a seguire sicuramente non si perseguirà alcuna intenzione risolutiva. In tal senso si proverà, sebbene in maniera limitata anche rispetto allo stesso Patočka, a circoscrivere il vasto complesso di suddette domande nella condivisione piena del fatto che «lo spazio» – così come il tempo – «è uno dei concetti più comuni, fra le componenti sostanziali della […] visione del mondo» dell’adulto europeo dei nostri giorni; cioè «è parte di quell’inconscia metafisica che egli ha ricevuto dalla storia tricentenaria della scienza e della filosofia moderna»[3].
Anzi, di più e meglio: l’intenzione delle considerazioni a venire sarà quella, in prima battuta, di iniziare a riflettere su di un dato ritornante nella nostra tradizione, ancor prima della filosofia moderna e almeno sino a Einstein, in virtù del quale la traccia metafisica è, sia pure a livello inconscio (?), all’un tempo, costitutiva e dirimente segnatamente alla comprensione del comune concetto plurisenso di spazio [così come rispetto al concetto, altrettanto plurisenso, di tempo]. E che, per di più, detta plurisignificatività, già ben emergente da alcune delle domande di Patočka, proprio perché si radica nella metafisica, ivi ne rinviene chiaramente una sua configurazione di strutturante univocità.
Solo da questo, poi, sarà possibile porre la domanda circa il destino di ànthropos nella giusta ottica.
E che sia quella metafisica la stretta decisiva appare evidente al solo esame dei termini in ballo. Già infatti la segnatura di entità e, conseguentemente, l’eventualità della sua esistenza nei termini di un supponibile – e perciò indicizzabile – statuto ontologico, o anche l’indicazione in direzione di un che tale da render possibile, in via esclusiva, l’accesso alle cose, ha detto spazio [e tempo], dice spazio [e tempo] nei modi di una Tradizione, originariamente soprattutto filosofica, che s’è innervata e incarnata lungo i percorsi e i traccianti di una più che bimillenaria impresa.
L’impresa della metafisica, della Metafisica come Struttura.
Come è chiaro e come pure si accennava, si rende necessario procedere per gradi e stabilire dei punti, veri e propri crocevia, per inquadrare la questione-spazio [e la questione-tempo] all’interno della succitata avventura identitaria. E dunque, ma di conseguenza, estrarre quegli elementi di continuità che, in precedenza, hanno condotto a considerare che proprio perché elaborato nel solco di Metafisica come Struttura, proprio perché prodotto che appieno si inscrive all’interno della strategia persistentiva dell’uomo Occidentale che, in quanto realificazione vitale nei modi della metafisica – e perciò l’uomo Occidentale come anche, e principalmente, l’uomo della metafisica – hanno fatto il concetto plurisenso di spazio [e il concetto plurisenso di tempo] a partire da una sua configurazione strutturante che al fondo è univoca proprio perché metafisicamente disposta.
Bisogna, dunque, anzitutto constatare che nel non-ancora-distinguibile di un irredimibile scorrere qual è l’Oscurità originaria, ànthropos ha giocato la pressione del suo irresistibile impulso persistentivo dall’interno stesso del fagocitante divenire, escogitando simulati arresti di sé. Immaginando e persino inventando inizi per iniziarsi, ogni volta, nei modi di un artificioso quadro stabile che è la realtà.
E da ciò, la presente proposta del termine realificazione.
Realificazione, perciò, quale azione di edificazione di realtà come necessità persistentiva nei termini di una temporanea stabilità, nei termini quindi di una stabilizzazione, quale azione sempre attiva di precaria stabilità.
Perciò, di conseguenza, inizi per iniziarsi, ogni volta, nel segno del lògos che è, all’un tempo, il risultato di questa presa artificiosa del/sul mondo esterno originariamente anonimo, ma anche la piattaforma di un nuovo inizio da cui, ancora, realificazione che conclude in un lògos.
Inizi per iniziarsi, ogni volta e di nuovo, che nel magmatico poliformarsi dei lògoi di ànthropos su ànthropos, ha visto irrompere quel lògos la cui grammatica si è costruita entro i confini del verbo essere e che sapendo dire, ridicendolo ogni volta e di nuovo, ànthropos nei modi del divenir-philosophía, ha mostrato di «saper coordinare e subordinare un’immensa congerie di rappresentazioni astratte»[4].
Una capacità della coordinazione e della subordinazione che ha impresso la specificità di una realificazione, cioè del modo di far incominciare a essere e cessare di essere delle cose quale reificazione centripeta e senza soluzione di continuità, per istituire l’artificio della familiarizzazione con il divenire, altrimenti avvolgente e divorante, che s’è portata al suo acme. Acme del realificare che ha voluto dire vera e propria im-presa, presa-in carico onnicomprensiva e integrale.
Questo modo peculiare di far incominciare a essere e cessare di essere delle cose quale realificazione nelle forme di una reificazione ininterrotta è, e ha un senso, sotto la spinta del rispondere alla pressione dell’impulso persistentivo di ànthropos, solo se è riconducibile e, indi, codificabile e leggibile, nell’ottica di una costante individuazione e re-individuazione di ànthropos stesso all’interno della reificazione stessa: ente tra enti che nel mentre dello svolgere il ruolo al quale s’è autopromosso della perimetrazione costante dell’originaria oscurità, risponde alla pressione persistentiva dandosi anche un senso, un significato, fornendo e raccontando[-si] un contenuto specifico al re-individuarsi all’interno-di e a partire da questo stesso all’interno-di sempre più artificiosamente reso domestico e affidabile.
Per questo e non per altro, gli interrogativi iniziali circa il destino dell’uomo al cospetto delle nuove, sconcertanti ed esaltanti acquisizioni delle scienze coeve. E già perché se la realificazione è l’attivarsi-dispiegarsi effettivo della strategia e che trova nel lògos, nei lògoi e poi, soprattutto, in questo lògos-proprio, i modi traspositivo-rappresentativi che esibiscono, fondamentalmente, l’efficacia della stessa realificazione, il costante individuarsi e, dunque, il proiettato, potenzialmente all’infinito, re-individuarsi di ànthropos, non potrà mai conoscere un qualcosa come la cristallizzazione identitaria. Ossia, non potrà mai conoscere un rappreso una volta e per tutte, e che si presume dire l’identità di ànthropos.
Realificazione è, allora e primariamente, girandola che sempre gira di processi di riconoscimento che essendo, unicamente, puntiformi segnature di stabilizzazione dentro lo scorrere tracimante del divenire, procurano l’impressione di rallentare questo tracimante stesso.
Un rallentare in cui sempre più familiarizzo con l’oscuro originario e da cui, in maniera direttamente proporzionale, rinvengo sconosciuti, e perciò altri, motivi di re-individuazione per potermi dire ancora e nuovamente ànthropos.
L’uomo Occidentale, però, almeno sino a ora, elaboratore al massimo grado di questa strategia persistentiva quale autentica realificazione vitale, ha preteso di trasfigurare questo rallentamento, questa decelerazione del divenire magmatico (e incontrollabile) originario, proprio in arresto.
In un arresto consolatorio, vero e proprio fermo immagine artificioso che è stato la matrice e, sicuramente, l’approdo ricercato di ogni metafisica sorta su quel terreno ideale che ha legato, e lega ancora per certi versi, non più e non solo la Ionia a Jena, ma anche la Ionia a Berlino, Princeton e Ginevra.
L’approdo di quella che già in precedenza s’è indicata essere la Metafisica come Struttura, cioè quella strutturazione che si è pretesa permanente nel cantilenare la novella del risollevamento dagli spasmi e dallo smarrimento per l’incerto e l’ignoto, dal terrore dell’estinzione dell’assenza radicale. Metafisica come Struttura è, in altri termini, quella straordinaria costruzione che, calata dall’alto, ha consentito una retificazione e reticolazione del perimetro circostante e alieno, di quel complesso psichedelico di divenienti che mi viene incontro e mi minaccia e che ha consentito giungere alla sempre più indiscutibile e precisa messa in ordine di questo alieno e che, pur tuttavia, più si ordina più si slarga, e che per porre argine a questo slargamento ha rinvenuto nel suggello Totalistico il suo culmine e la sua fine.
Un suggello Totalistico che s’è retto, per oltre due millenni, sul complessivo lavorìo di una stabile e stabilizzante certezza di quel genere-modo dell’epistéme e del far-sapere-conoscente filosoficamente plasmato e configurato che sovvertendo e invalidando «dottrine [...] ancora più antiche»[5] in ragione delle quali «è assolutamente impossibile rimanere fermi e su uno stesso discorso o su uno stesso interrogativo o rispondere e domandare tranquillamente, a turno, [...] dato che in questi uomini non esiste un po’ di quiete»[6] tale da «permettere che esista qualcosa di sicuro»[7], ha pre-scritto un paradigma ulteriore. Il paradigma in conseguenza del quale la stessa realificazione, da cui e per cui l’azione costante dell’umanizzarsi, si imposta nei termini di un’ontologia sostanzialistica su calchi dell’ente di cui sarà necessario distinguere, con dovizia e precisione, forma e materia, finalità e artefice.
Il rassicurante, dunque, di una visione che sa già che in nessun caso e per alcun motivo il sopraggiungere dell’inedito potrà travolgere dacché, in qualche modo, ha veduto tutto ciò che verrà contestualmente a tutto ciò che è venuto.
Il Rassicurante di una visione, tautologicamente strutturata, in cui il premesso apriori coincide sempre con i nomói nel mondo. Rassicurante che s’è detto nel modo di una stupefacente impresa.
L’impresa, appunto, della Metafisica come Struttura.
Metafisica come Struttura, quindi, quale sviluppo di questo lògos-proprio che, dal solco del vincolo essere-divenire che è la struttura fondamentale del mondo, la struttura fondamentale del mondo intuita da philosophía sin dalle sue origini eraclitee, ha perseguito e realizzato l’iniziale intenzione di render ancor più stabile (e fisso) il fluire stesso e che, espediente ulteriore di questo diveniente che è ànthropos, ha implicato l’incasso di un surplus di garanzia e sicurezza.
E ha perseguito e realizzato guardando «l’individuazione in trasparenza, alla ricerca di un tessuto che preceda l’individuazione»[8].
E a partire da questo, ha perseguito e realizzato producendo e fondando in un calco che ha preteso ripetersi sempre uguale, cioè concependo lo schema di un’Unica dinamica inizio-arresto che fosse in grado perpetuarsi (per questo Struttura).
Giustapponendo un fuori che fa essere quello che è per come è e per quello che proprio è, restituendo l’impressione, che è un impresso, di un immutabile che torna a ripetersi sempre regolare e invariabile, Metafisica come Struttura ha dettato i tempi e i modi di questo stesso lògos-proprio, in origine centrato sulla variabilità-plasticità della grammatica del verbo essere, come inquadrato nel bloccato Essere.
Siamo in fondo noi stessi che, ancora, attorno al potente riflesso di questa ulteriore declinazione che è Metafisica come Struttura, torniamo a riconoscerci nella parvenza di questa immutabilità. Nella parvenza di un quel che è stato che corrisponde, nella immedesimazione, a quel che è e quel che sarà, a quel che dovrà essere.
Ovviamente, questa tensione a riprodurre arresti al divenire ha registrato spostamenti e aggiustamenti, non s’è potuta sclerotizzare e cristallizzare in un effettivo sempiterno, tant’è che in quasi due millenni e mezzo i modi di dirsi, di auto-narrarsi, di questo ànthropos-qua si sono modificati in un succedersi davvero sbalorditivo.
Quel che – e questa è stata, a consuntivo, l’istanza organica di Metafisica come Struttura – non è mutato è proprio il disegnarsi dell’intelaiatura, l’imbastirsi di questo tessuto che precede e il relativo automatismo del ricercarsi, definirsi e illustrarsi di ànthropos in esso.
Ovverosia, da un lato non è mutato quel meccanismo del continuo rivelarsi di uno scheletro in conseguenza del quale il fuori è sempre più immedesimato, come già nelle intenzioni del primo vero uomo della metafisica, Aristotele, con il sapere di un Essere che necessita e fa essere quel che è e come è l’ente; dall’altro, e in ragione di ciò, non è mutato il suo irrelato effetto.
L’irrelato effetto del realizzarsi di piattaforme di umanizzazione, autentici umanesimi come lògoi di ànthropos su ànthropos per ànthropos, in cui il chi dell’uomo, essendo inscritto in una cornice pre-stabilita di mondo ed ente nel suo insieme, non ha potuto che concepirsi, e sempre, come predisposizione all’ente nell’ottica di una sua relativa, lineare e monodimensionale, interpretazione.
Di questo e per questo, ovvero anche al fine di questo, spazio e tempo sono stati assunti quali termini imprescindibili per far-mondo nei modi di una realificazione vitale metafisicamente strutturata.
Se, infatti, almeno sino a Einstein, il tempo era concepito, nella sua progressività numerica mai disponibile a ritroso, nella sua cadenzata linearità e ripetitività, come qualcosa di assoluto, un ente-non-ente inattingibile ma comunque pre-esistente e garante di ogni impresa autoidentificativa e quindi conoscitiva – tant’è che nel XX secolo si è giunti alla prevedibile frontiera speculativa in ordine alla quale Essere è Tempo –, e lo spazio, prima regolato dalla geometria euclidea e poi, con la relatività galileiana e, soprattutto, con l’apriorismo (assolutistico) newtoniano, s’è di fatto proposto quale estensione tridimensionale abile a contenere gli enti [da conoscere], tutto ciò ha avuto un’unica finalità.
La finalità precedentemente ascritta alla metafisica, alla Metafisica come Struttura, di trasfigurare i necessari (e vitali) rallentamenti del magmatico e inattingibile fluire originario alla base della strategia antropica della realificazione, in effettivi e incontrovertibili arresti.
Effettivi e incontrovertibili arresti per render sicuro e certo l’incedere di ànthropos all’interno di un mondo, di una realtà, che fosse, quindi, il più monolitica e compatta possibile al fine, spasmodicamente ricercato, della per-existenza.
Una realtà che, perciò, immediata nella sua pur mutevole non-immediatezza, fosse terreno (e per questo un mondo, un mondo come mendace aggiunta) il più ospitale e garantito possibile per quell’ente (particolare?) che avanzava (e avanza ancora) la sua tragica e ossessiva domanda di fuoriuscita dall’anonimato assoluto dell’incontrollabile divenire/tracimare originario.
- Fine della metafisica e… destino dell’uomo
Ora però questa immediatezza, questa pre-fissata e, dunque poi, dimostrata ed esibita istantaneità e subitaneità, nel XX secolo, dal cuore pulsante della medesima strategia vitale di realificazione elaborata dall’uomo Occidentale, s’è dissolta. E l’immediatezza stessa della realtà – e perciò pure di tutte le sue componenti consolatorie – s’è constatata finanche scabrosa giacché, come anche di recente è stato ricordato da chi, saldamente, ritiene che la realtà non è esattamente come ci appare, essa [la realtà, appunto] consiste propriamente in «una rete di eventi granulari» in cui «la dinamica che li lega è probabilistica».
Tant’è che «fra un evento e l’altro, spazio, tempo, materia ed energia sono sciolti in una nuvola di probabibilità»[9].
Ragion per cui, da pre-fissata immediatezza, la realtà sarebbe più propriamente un cinetico costituirsi probabilistico senza necessaria e necessitata continuità.
Ma di più, senza l’obbligo di accedere a ulteriori e particolari elementi in tal senso provenienti dagli studi in fatto di gravità quantistica, in cui il fattore probabilistico – e perciò singolaristico e situazionale – gioca il ruolo decisivo e per nulla, quindi, trascurabile e/o liquidabile con la sommaria alzata di spalle della sprovveduta e a volte rozza critica al relazionismo che sarebbe sempre e solo il precipitato di una investigazione prospettica ex post, la questione d’ogni presunta immediatezza della realtà, del suo accesso-a è, in questo incavo di riflessione e cimento, non solo altamente scabrosa ma persino risolta dacché dissolta, perché per comprenderla, per comprendere ciò a cui accederemmo con istantaneità ed evidenza, è
necessario tenere presente che ciò cui ci riferiamo, quando parliamo della realtà, è strettamente legato a questa rete di relazioni, di informazione reciproca, che tesse il mondo. In fondo è di questo che parliamo sempre. Noi, per esempio, spezziamo la realtà tutto intorno in oggetti. Ma la realtà non è fatta di oggetti. È un flusso continuo e continuamente variabile. In questa variabilità, stabiliamo dei confini che ci permettono di parlare di realtà. Pensate a un’onda del mare. Dove finisce un’onda? Dove inizia un’onda? Chi può dirlo? Eppure le onde sono reali. Pensate alle montagne. Dove inizia una montagna? Dove finisce? Quanto continua sotto terra? Sono domande senza senso, perché un’onda o una montagna non sono oggetti in sé, sono modi che abbiamo di dividere il mondo per poterne parlare più facilmente. I loro confini sono arbitrari, convenzionali, di comodo. Sono modi di organizzare l’informazione di cui disponiamo, o meglio, forme dell’informazione di cui disponiamo[10].
Come è ovvio, e come si preannunciava, già a questa altezza, la questione si presenta finanche più complessa ancora e tale da far letteralmente evaporare tanto qualsiasi solido motivo metafisico fondato nella e, soprattutto, sulla pre-esistenza del reale, quanto qualsiasi mobile argomento centrato nella organizzazione autoriferita dell’uomo, laddove, ad esempio e ulteriormente, ogni trama probabilistica prevedibile e auspicabile si possibilizza a partire da particelle in movimento in uno spazio quadridimensionale.
Detto altrimenti e nella maniera più asciutta possibile: la presunta consistenza di una realtà che, in virtù della sua persistenza/pre-esistenza, cifrerebbe, e comunque, tanto l’immediatezza quanto, e non troppo curiosamente, l’eventualità che essa sia solo a partire dall’autoriferita organizzazione dei flussi esperenziali da parte dell’uomo – di per sé, anche solo a livello intellettualistico, questa organizzazione è già un pre-fissato e, perciò, in forte sospetto d’esser a sua volta un immediato-dato come ogni declinazione, compresa finanche quella einsteiniana di sistema di riferimento inerziale relativo, apertamente mostra – è destinata a cedere le sue pretese al cospetto di un vero e proprio pullulare di particelle che si muovono senza uno schema prestabilito, secondo logiche al più computabili provvisoriamente e, in conseguenza di ciò, prevedibili solo a livello probabilistico, in quattro dimensioni spaziali. E cioè, ancora: questo brulichio di particelle che si muovono e si dispongono spazialmente in lunghezza, larghezza e profondità, si individua anche a partire dalla coordinata spaziale tempo; in un determinato istante [come luogo fisicamente, ma provvisoriamente, determinabile da cui, propriamente, il tempo sarebbe niente più che la misura del passaggio da un punto-istante a un altro], perciò, detto pullulare configura taluna o talaltra trama al cospetto delle quali è possibile prevedere, appunto con proiezioni di certo grado probabilistico, l’esito, ossia quel o quell’altro ente tridimensionalmente percepito qui e ora in una transitoria unità sincronica che è, di fatto, un sostanziale dinamico identificarsi diacronico in cui, semplicemente, «gli oggetti si protraggono nel tempo, [...] persistono in quanto si estendono anche nella quarta dimensione». In cui, sostanzialmente, «un oggetto si estende lungo la direzione temporale così come si estende lungo le tre direzioni spaziali»[11].
E perciò la cosiddetta realtà sarebbe niente più che la transitoria combinazione di particelle che si estendono nelle quattro dimensioni spaziali come un provvisorio continuum la cui (illusoria, de facto) compattezza e solidità è quel che percepiamo noi. Sarebbe, questa realtà, niente di più che un ricorrente avvicendarsi di parti spazio-temporali che, nel loro non più necessario estendersi, esistono per un balenio per poi scomparire: «man mano che passa il tempo, ciò che era cessa di essere e qualcosa di nuovo prende il suo posto»[12]. E qui, come è chiaro, il passare del tempo è solo un modo convenzionale per dire queste protrazioni ed estensioni che si determinano e rideterminano ogni volta senza uno schema prestabilito e senza, soprattutto, un luogo fisicamente predeterminato abile ad accoglierle in protasi, anche perché un luogo fisico, un tangibile hic et nunc, letteralmente, non c’è, neanche come concretizzazione di una struttura relazionale.
Ma, di più, proprio perché
la relatività generale ci ha insegnato che lo spazio non è una scatola rigida e inerte, bensì qualcosa di dinamico, come il campo elettromagnetico: un immenso mollusco mobile in cui siamo immersi, che si comprime e storce. [Proprio perché] la meccanica quantistica ci insegna che ogni campo di tal sorta è fatto di quanti, cioè ha una struttura fine granulare. Che cosa segue da queste due scoperte generali sulla natura? Segue subito che lo spazio fisico, essendo un campo, è anch’esso fatto di quanti. La stessa struttura granulare che caratterizza gli altri campi quantistici caratterizza anche il campo gravitazionale quantistico, e quindi deve caratterizzare lo spazio. Ci aspettiamo, dunque, che lo spazio abbia una grana. Ci aspettiamo che esistano quanti di spazio, così come esistono quanti di luce, che sono i quanti del campo elettromagnetico di cui è fatta la luce, e così come tutte le particelle sono quanti di campi quantistici. Lo spazio è il campo gravitazionale e i quanti del campo gravitazionale saranno quanti di spazio[13],
la nuova fisica dell’indeterminato, quella della Teoria dei loop ovvero della gravità quantistica (a loop), che si muove nel solco dell’unificazione tra la teoria della meccanica quantistica e della relatività generale, ritiene che «lo spazio non sia un continuo, non sia divisibile all’infinito, ma sia formato da atomi di spazio. Piccolissimi: un miliardo di miliardi di volte più piccoli del più piccolo dei nuclei atomici»[14].
Stima, in ultima istanza, da un lato che «lo spazio è un pullulare fluttuante di quanti di gravità che agiscono l’uno sull’altro e tutti insieme agiscono sulle cose, e si manifestano in queste interazioni come reti di spin, grani in relazione l’uno con l’altro»[15], dall’altro lato che il tempo, «lo scorrere del tempo» è «interno al mondo, nasce dal mondo stesso, dalle relazioni fra eventi quantistici che sono il mondo e generano essi stessi il proprio tempo»[16].
Dal che, in via ultimativa, qualsiasi accesso-a realtà è poco più che cinetico ri-accedere a un inedito che si compone per un punto-istante per poi definitivamente scomparire, in maniera irredimibile, essendo sostituito da un nuovo altro inedito in un altro punto-istante.
E il tutto, tutto questo, senza alcuna possibile soluzione di continuità e, indi, rapprensione in una realtà monolitica, compatta e, soprattutto, omogenea che sia a partire dalle coordinate spazio e tempo così come le abbiamo sino a ora conosciute.
Se è allora in gioco solo tutto questo, ovvero se in gioco è il fatto che ànthropos non può far più leva su una solida immediatezza per identificarsi, qual è il destino di ànthropos?
E perciò, e di nuovo: qual è il destino dell’uomo alla fine della metafisica?
Qui, allo stato, l’unica indicazione che può essere fatta valere centra, e giocoforza, in philosophía, in philosophía e nella sua capacità di re-invertarsi originalmente e, per certi versi, originariamente, su basi a-metafisiche al fine di ridire ànthropos a partire dall’assenza.
Dall’assenza di un Essere che prescrive la realtà nella sua immediatezza, anzitutto.
Ma anche, per ridire e riscrivere ànthropos, a partire dal costante entrare e uscire dall’assenza radicale, che è assenza d’ente, di forme, a-ente dietro di sé e prima di sé e che sapremo dire, in maniera propria nel nostro lògos-proprio, a-essere.
Da qui, se si vuole, un a-venire, un destino, posato e fondato su una scelta stravagante: la decisione appunto per l’assenza d’essere che mostra tracce di un orizzonte speculativo tutto da definire e che è possibile dire de-ontologia.
Stravagante de-ontologia anche e soprattutto perché questa «che s’annuncia [...] non è propriamente una questione d’avvenire», bensì – lo si sarà oramai compreso – «la questione dell’avvenire, della condizione [...] dell’a-venire stesso, della venuta dell’evento a venire»[17], è niente di più che la concreta e tangibile eventualità per ànthropos di permanere.
Di permanere quale isolatissimo èxtra-vagàntem, dacché a-venire che indica in direzione di uno star fuori, allo scoperto come sempre, vagando-errando.
Ma ànthropos è proprio, nella sua solitudine [dacché, anche, estremo isolamento e abbandono] rispetto all’ente, l’arrischiante che più s’arrischia errando per av-verare a-venire.
E questa è, in qualche modo e di continuo, finanche la scelta che da sempre opera ànthropos.
E siffatto il modo: quello di un philosopheîn che, già in origine, s’è detto e proposto quale tensione/aspirazione [e sapere di questa tensione/aspirazione] che, nel rinnovantesi necessario e costante, ridice ancora questo ànthropos, a costo di rivolgimenti tellurici.
È questo, in ultima istanza, il significato profondo del perché e ancora di philosophía quale destino dell’uomo, di quell’uomo che svolge e si svolge nei termini proprio del philosophêin, e che trova pienezza di contenuto nel mero fatto che la meraviglia (thaumázein) implica domanda di una spiegazione che affonda i suoi artigli in una genitura esplorativa, fatta di esperienza e osservazione da cui, poi, il perché e la causa che dicono e diranno nuovamente conoscenza:
l’analitica della finitezza non ci invita a fare la scienza dell’uomo, bensì a tracciare una nuova immagine del pensiero [...]; un pensiero che sarebbe di per sé in rapporto con l’oscuro e che sarebbe attraversato di diritto da una sorta di incrinatura senza la quale non potrebbe esercitarsi. L’incrinatura non può essere colmata, perché è l’oggetto più alto del pensiero: l’uomo non lo colma e non lo ricompone, al contrario l’incrinatura costituisce nell’uomo la fine dell’uomo o il punto originario del pensiero[18].
[1] J. Patočka, Lo spazio e la sua problematica (1960), tr. it. Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2014, p. 21.
[2] Ibid., p. 22.
[3] Ibid.
[4] G. Colli, Dopo Nietzsche (1974), Adelphi, Milano 20086, p. 18.
[5] Platone, Teeteto, 179e.
[6] Ibid., 179e-180a.
[7] Ibid., 180a.
[8] G. Colli, Dopo Nietzsche, cit., p. 155.
[9] C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, p. 11 [corsivo mio].
[10] Ibid., p. 221 [corsivi miei].
[11] A.C. Varzi, Il mondo messo a fuoco. Storie di allucinazioni e miopie filosofiche, Editori Laterza, Roma-Bari 2010, p. 91.
[12] Ibid., p. 101.
[13] C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, cit., pp. 146-147.
[14] Ibid., p. 147.
[15] Ibid., p. 151.
[16] Ibid., pp. 155-156.
[17] J. Derrida, Il tempo degli addii. Heidegger (letto da) Hegel (letto da) Malabou, tr. it. Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2006, p. 14.
[18] G. Deleuze, L’uomo, un’esistenza incerta (1966), in L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, tr. it. Einaudi, Torino 2007, pp. 111-115, in particolare p. 114.