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Indice
- Filosofia e psicoanalisi
- Debito simbolico e debito economico
- Debito e dono
- “Amare è donare quel che non si ha”
- Praesentia in absentia
- Heidegger e il dono del niente
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S&F_n. 14_2015
Abstract
The Give-Nothing and the priceless Debt. Jacques Lacan between Heidegger and Mauss
Jacques Lacan used authors and philosophical concepts in a very original manner in order to make clearer some aspects of psychoanalytical theory. The aim of this essay is to show how Heideggerian ontology is important in order to understand the way in which desire, which is basically lack, wait and vow according to Lacan, is transferred through generational chains. In other words, also using Marcel Mauss’s theses on the gift, this essay contributes to the topical discussion about the economic debt interpreted in the light of the Lacanian notion of symbolic debt. In the end, debt and gift are the key words to understand the human condition.
- Filosofia e psicoanalisi
Fra gli esempi, riusciti, di implicazione fra filosofia e psicoanalisi va certamente annoverato l’uso spregiudicato, ma non per questo meno rigoroso, che Jacques Lacan ha fatto della cassetta degli attrezzi filosofica. Fermo restando che la finalità del seminario tenuto da Lacan dai primi anni cinquanta fino al 1980 è la formazione degli analisti e che l’insegnamento ivi condotto non va confuso con forme generiche di comunicazione e aggiornamento culturale, non c’è dubbio però che esso si configuri come un luogo in cui si fa teoria.
Rovesciando una tradizione consolidata per la quale è considerata psicoanalisi applicata quella che, trascendendo i confini della clinica e della teoria costruita su di essa, invade i territori limitrofi, ma distinti, dell’etnografia, dell’estetica e dell’interpretazione letteraria, della storia delle religioni, della sociologia e della morale, per Lacan, al contrario, va chiamata applicata quella psicoanalisi impegnata nella clinica e pura o psicoanalisi tout court l’altra, una psicoanalisi teorica e speculativa. Proprio perché è il luogo di un insegnamento, il seminario, a differenza dell’analisi didattica che in quanto veicolo della formazione ha il suo punto d’approdo nella sospensione nell’analizzante della presunzione di sapere, realizza il suo scopo nella costruzione dei concetti e nella loro trasmissione. Da questo punto di vista allora la psicoanalisi rientra nello spazio dei saperi in generale e si confronta con la tradizione filosofica, con quella letteraria e artistica, con quella scientifica e infine con il più recente sviluppo delle scienze umane. Nulla di più ovvio, quindi, e di più scontato, che utilizzare il Simposio di Platone per formalizzare da un lato e insegnare dall’altro agli analisti quella condizione imprescindibile, e nello stesso tempo estremamente difficile da gestire, del rapporto analitico rappresentato dall’amore di transfert; allo stesso modo diventa inevitabile quando in gioco è la questione dell’etica in analisi, ossia della direzione da imprimere alla cura, chiamare in causa la filosofia pratica di Aristotele, la moderna etica libertina del godimento illimitato combattuta o inverata da quella kantiana del dovere e infine le posizioni dell’utilitarismo benthamiano sulla massimizzazione del piacere o utile, al fine di trarne batterie concettuali, argomentazioni discorsive e analisi comportamentali, atte a costruire il quadro di riferimento in cui collocare qualcosa come un’etica della psicoanalisi al cui centro campeggi il desiderio. Non ultima si potrebbe ancora ricordare l’importanza ricoperta per Lacan dalla figura della fenomenologia hegeliana della lotta delle autocoscienze per il riconoscimento – il cui approccio fu mediato, come è noto, da Kojéve – per la teorizzazione del registro immaginario, del rapporto conflittuale fra l’ego e l’alter-ego, insieme al ruolo che, almeno nel primo insegnamento di Lacan, gioca la dialettica nel render conto dell’andamento dell’analisi scandito dai momenti del misconoscimento e della sovversione, via desiderio, del soggetto.
Qui ci si vorrebbe soffermare su di un possibile uso da parte di Lacan del pensiero di Heidegger che oltre ad aver influito sulla distinzione fra sapere e verità e sulla interpretazione di quest’ultima come rivelazione e illatenza, sembra aver avuto qualche parte anche nella teorizzazione di come si trasmetta il desiderio, ovvero la mancanza, lungo la catena delle generazioni, in base all’ordine delle filiazioni e alla filiera delle genealogie. A ciò si aggiunge che proprio il modo con cui Lacan cerca di spiegare la trasmissione della posizione desiderante come un dono del niente, permette, anche se indirettamente, di affrontare un problema di grande attualità come quello del debito: se desidero perché mi è stato donato il niente, non posso che sentirmi in debito per questo dono gratuito e inaspettato.
Non affiancheremo, però, come si aspetterebbe, al nome di Heidegger, la cui chiamata in causa d’altronde si deve a Derrida che per primo ha attirato l’attenzione sulla referenza heideggeriana di Lacan a proposito del dono e dell’enunciato lacaniano «Amare è donare ciò che non si ha»[1], quello di Nietzsche. Più utile, ci sembra, è evocare Mauss e il suo saggio sul dono[2]: sebbene Mauss sia citato da Lacan a proposito del rapporto fra debito e dono soltanto nel seminario sull’angoscia[3], tuttavia è a questa teorizzazione antropologica che ci si deve riferire se si vuole comprendere la questione del dono e del debito come è affrontata nel seminario di cui ci occuperemo qui, quello sulla relazione d’oggetto del ‘56-57 (quello sull’angoscia è più tardo risalendo al ‘62-63).
- Debito simbolico e debito economico
In un saggio lucido e preciso Enrico Redaelli ha indicato la tesi cui deve pervenire inevitabilmente qualunque tentativo di leggere con il dispositivo di pensiero lacaniano una questione come quella dei debiti sovrani che tanta parte ha acquistato nelle attuali analisi dello sviluppo e/o della degenerazione del capitalismo: in qualunque modo lo si affronti, per la psicoanalisi il debito è impagabile, di esso non si dà né remissione né estinzione. E a nulla vale distinguere un debito simbolico, che è quello di cui parla Lacan fin dallo scritto sulla cosa freudiana del ‘55, da un debito economico che risponderebbe ad altre leggi e a un altro sistema di riferimento: posto che una simile distinzione sia possibile e abbia un senso, anche il debito economico è inestinguibile. La verità è che il cosiddetto debito economico è una, se non forse la più importante, delle tante possibili trascrizioni del debito simbolico: forte delle conclusioni cui è giunta la paleografia secondo le quali la scrittura sorse originariamente come «un sistema di conteggio del debito»[4] con cui i sacerdoti mesopotamici tenevano i conti delle entrate e delle uscite dal Tempio, Redaelli può sostenere la tesi per cui il debito economico non è altro che il debito simbolico messo in scrittura, ossia contabilizzato, in modo da produrre l’illusione di poterlo misurare e controllare. Ma nella misura in cui il debito economico è una versione (perversa, una péreversion) del debito simbolico, questo tentativo di tenerne il conto va perennemente a vuoto.
Il debito primordiale l’uomo lo contrae con il linguaggio. È solo perché viene sussunto da quest’ultimo che l’uomo diviene capace non solo e non tanto di dare significazione agli oggetti di cui circonda la sua vita ma in primo luogo e soprattutto a se stesso: il ruolo del significante linguistico, infatti, non è quello di significare un significato per un soggetto, ma di rappresentare un soggetto per un altro significante, cioè di rappresentare il soggetto di fronte all’intero ordine simbolico. Poiché il significante non è altro che un elemento del sistema del linguaggio e significa solo in quanto legato da nessi di opposizione pertinente con altri significanti, è come se quel grumo pulsionale, non ancora umano, ma non più animale, che è il piccolo della specie umana, per pervenire a una qualche significazione sia costretto a prendere in prestito un significante dall’insieme del linguaggio perché gli faccia da rappresentante. È vero che così facendo si espone a tutta la rete degli inganni e dei fraintendimenti che la realtà del linguaggio comporta, ma allo stesso tempo si installa nello spazio della verità, almeno di quella verità propria dell’umano che è rivelazione e sorpresa, atto mancato e lapsus, di quella verità che dimora nel discorso dell’Altro, vale a dire nell’inconscio.
Il soggetto è quindi in debito di un significante: se mai fosse possibile portare il conto del linguaggio, allora il soggetto vi comparirebbe necessariamente sotto la forma di un ammanco originario. Nel bilancio dell’essere si è aperto da qualche parte un buco che non sarà riempito in nessun modo: il linguaggio ha scavato nel reale fino ad annichilirlo. Ma poi ha offerto un significante che rappresentasse questo buco, questo ground zero in cui sprofonda l’essere. Il significante di questo vuoto è il soggetto che se è mancanza a essere, vale a dire desiderio, lo è appunto nel senso di essere il titolare di un debito impagabile.
E il denaro, come spiega Redaelli[5], non è da meno: nato insieme alla scrittura, a meno che non ne sia una conseguenza necessaria, funziona anch’esso come il significante di una mancanza. Una volta che il suo valore sia stato definitivamente distinto dalla sostanza di cui era fatto – il metallo più o meno prezioso – e ricondotto, dopo essere stato trasformato dapprima in carta e adesso in una cifra sullo schermo di un computer – un denaro che non si vede e non si tocca -, alla sua autentica prima fonte di legittimazione, l’istituto di credito che lo emette – il Tempio, il sovrano o la banca centrale -, esso rivela la sua autentica natura che è quella di un credito anticipato, ossia di un debito. E di un debito che continua a riprodursi lungo tutta la serie degli scambi e delle transazioni di cui è l’origine senza che lo si possa mai saldare. Tutto il sistema degli scambi si fonda sulla credenza che, come noi facciano credito agli altri, gli altri continuino a darci credito, a credere cioè nella nostra buona fede per cui non saremo mai insolventi e pagheremo tutti i nostri debiti a condizione che ci si permetta di continuare a farli. Come le credenze infantili di cui parlava Freud non possono essere smentite prima di aver trovato un degno sostituto perché esse costituiscono la verità inconscia e una loro cancellazione anticipata provocherebbe un crollo soggettivo, così anche quella che regola il regime degli scambi, ossia il mercato, non può essere sospesa pena il disordine economico. Cancellare il debito o attraverso la sua remissione totale o semplicemente non pagandolo, azzererebbe qualunque scambio umano come tale.
Dal punto di vista psicoanalitico quindi la questione del debito non potrà essere affrontata che a partire dal binomio legge-godimento. Se la legge è quella simbolica, allora essa prescrive il debito, è una legge indebitante, davanti a essa il soggetto è sempre in debito. E in psicoanalisi il debito si paga con la rinuncia al godimento: come spiega Il disagio nella civiltà l’assunzione della postura civile comporta per l’uomo la rinuncia alla soddisfazione pulsionale. Dall’altra parte però il principio del piacere che regola l’inconscio mira al godimento, quindi a non pagare il debito. Da questa impasse il soggetto esce costruendosi una formazione di compromesso, ossia un sintomo, che cerca di soddisfare insieme la legge – i debiti si pagano – e il godimento – i debiti non si pagano. Per la psicoanalisi il debito è un sintomo, anzi come scrive l’ultimo Lacan un sinthome, ossia l’unico e vero indice della condizione umana[6].
- Debito e dono
E se la legge che ci indebita non fosse a propria volta un dono, non chiedesse almeno all’apparenza né contropartita né restituzione? È esattamente quanto Lacan ci spinge a ritenere leggendo questo seminario sulla relazione d’oggetto. Ci si potrebbe addirittura chiedere se un tale vertiginoso intreccio fra debito e dono non sia uno dei doni che Lacan ci ha fatto, un dono d’altronde attraverso il quale ci ha resi ancor più debitori di quanto già non fossimo. Giacché ciò che dobbiamo accettare è che un dono indebita e, paradosso che attiene al concetto del dono in quanto tale, tanto più indebita quanto più è gratuito. Se ci si ferma, infatti, sul dono “vero e proprio”, sul concetto del dono preso nella sua apparente e presunta purezza, non v’è dubbio che un dono lo si fa per niente, che da un dono non ci si aspetta né si vuole nulla in cambio – ed è per questo che un pensiero del dono tale quale l’ha tentato Marcel Mauss (debito di Lacan? e in che senso?) si oppone punto per punto alla logica e/o alla legge dell’economia politica e domestica, fondate entrambe sul risparmio e sullo scambio. La conseguenza è che il dono è eslege: la sua assoluta gratuità lo situa al di là della legge, fa del dono un fuori-legge. Il dono non fa legge, né ha forza di legge, è anti-nomico. Ma c’è di più: non solo il dono si oppone alla legge, ma la estingue. E l’altro senso dell’oblatività: offerta gratuita, ma anche e soprattutto estinzione del reato, obliterazione del debito. E dal momento che non c’è né reato né debito se non c’è legge, il dono è destituzione della legge stessa, cancellazione di ciò a partire da cui c’è della legge in generale.
Già Mauss, tuttavia, prima ancora dei suoi critici, era stato costretto, forse suo malgrado, a mitigare questa opposizione semplice e univoca che separava nettamente un pensiero del dono dalla legge dello scambio e dalla sfera del debito. La pratica del potlach – che Lacan tradurrà, con un occhio a Kojéve lettore e misinterprete della fenomenologia hegeliana, nella lotta a morte immaginaria per il puro prestigio – mostra come il dono generi un debito tanto più obbligante quanto più incapace di lasciarsi governare dalla legge dello scambio. Giacché ciò che è in gioco nella pratica del potlach non è la restituzione dell’esatto equivalente di quanto è stato ricevuto, restituzione che azzererebbe il debito una volta per tutte, ma una resa in eccesso: l’obbligo del dono è una donazione più grande che, mentre sembra estinguere il debito cui il donatore aveva sottoposto il donatario, operando quindi da oblazione, si limita a rilanciare sul primo l’obbligo, da cui l’altro si era liberato, di una ulteriore e più estesa donazione. La logica del potlach, che è poi la logica e/o la legge dello stesso dono, implica, infine, un dono tale da non poter essere mai restituito, un dono rispetto al quale non ci sia nulla di più grande da donare. Ed è evidente che l’esito di un potlach o di una gara di doni coincida inevitabilmente con la distruzione di entrambi i contendenti: quale dono più grande di quello della vita stessa?
Non è vero dunque che il dono non abbia una sua legge, che non faccia legge; è vero invece che la sua legge non è quella dello scambio, non è quella dell’equivalenza. Piuttosto è quella dell’eccesso, non del risparmio, ma della dépense. Il dono instaura un debito, ma un debito impagabile, un debito cioè non misurabile. E infatti, se l’obbligo del dono è donare di più, non c’è misura, vale a dire raffronto, paragone, commensurabilità, in una parola equivalenza, fra un dono e l’altro. Il dono è incommensurabile. Questo debito, che solo il dono inaugura, è ciò che Lacan chiama il debito simbolico.
Ma esiste un primo dono? Si può pensare un proto-donatore? Ora, proprio la logica e/o la legge del dono che abbiamo tentato di isolare, esclude questa ipotesi: un donante, per il solo fatto di porsi come tale, risponde, che lo sappia o no, alla legge del dono. Il suo dono è già restituzione e la gratuità del suo atto è già contaminata dalla legge: il suo dono è obbligato, è l’effetto di un debito contratto in precedenza. Non c’è quindi un primo dono che splenderebbe isolato come un unico sole nella volta del cielo: c’è costellazione o catena dei doni. Un dono ne presuppone sempre un altro, presuppone un altro dono di cui l’attuale è, o tenta d’essere, la restituzione in eccesso. Ma effetto più sconvolgente ancora, la catena dei doni coincide e si confonde con quella del debito simbolico: c’è sempre una certa contaminazione fra dono e debito, legge e gratuità, oblazione e obbligo. Il che comporta ancora che l’opposizione fra dono e legge, da cui un pensiero del dono non può non prendere le mosse, non solo vada mitigata, come abbiamo già visto, riconoscendo anche al dono il valore e la forza di legge, ma vada, anche se con cautela e pronti come sempre a ripristinarla (legge del dono anche questa), addirittura epochizzata nel senso che un dono si espone, per il solo fatto di scoprirsi sottoposto a un debito, a una trascrizione secondo il registro dello scambio e dell’equivalenza: all’incommensurabilità metaforica del dono corrisponderà sempre la sua reiscrizione in una catena metonimica.
Riprendo la questione di partenza: se la logica del dono è questa logica paradossale per la quale il dono instaura un debito, la gratuità fa legge e l’oblazione non libera ma obbliga, che ne è allora del nostro debito nei confronti del dono di Lacan e che ne è del debito di Lacan di fronte al dono che lui stesso è? In altri termini, se Lacan ci fa dono, in questo seminario sulla relazione oggettuale[7], di un pensiero del dono e perciò solo ci indebita, ci costringe a restituirgli un dono più grande – il quale avrà la forma della comprensione esatta di quanto ci ha trasmesso, della difesa da chi non lo comprende o peggio lo fraintende, della propagazione degli effetti di significazione che questo dono, che è un discorso sul dono, ha e crediamo debba avere nella comunità analitica e nella comunità tout court –, di chi o di che cosa allora Lacan è a sua volta debitore, qual è il dono che lo precede e a cui risponde, in quale catena, di doni e debiti e di debiti e doni, si è già trovato iscritto? Giacché il rischio di qualunque comunità che fonda la propria consistenza sulla potenza del nome di un padre fondatore, è quello di credere che egli sia appunto un proto-donatore, un’origine assoluta, eslege, un inizio ex-nihilo.
Per contro, il pericolo insito nel modo stesso con cui si pone la questione sta proprio nell’oblatività: nell’estinguere stavolta non soltanto il debito, ma insieme al debito anche il dono. In parole povere, nell’annullare il dono di Lacan. Che cosa impedirebbe infatti che la reiscrizione del dono di Lacan nella catena del debito simbolico si trasformasse inavvertitamente in quel pietoso reperimento delle fonti, in quell’affannosa quanto inutile ricerca delle filiazioni e delle genealogie, in quel fatale storicismo insomma, che caratterizzano il sapere accademico o se si vuole il discorso universitario? Così facendo il dono di Lacan verrebbe ricondotto a una misura, a una misura di sapere, e in tal modo l’evento stesso che Lacan è, ciò che per parafrasare Heidegger si potrebbe chiamare l’“es gibt Lacan”, il “si dà Lacan”, il “c’è dono di Lacan”, annegherebbe fra le onde calme del sapere, sarebbe sottoposto al calcolo, reimmesso nella legge dello scambio, ed infine archiviato, microfilmato e micro-processato. Tutto questo – è meglio che se ne sia avvertiti – già avviene, è già avvenuto, continuerà ad avvenire.
- “Amare è donare quel che non si ha”
Sembra che quando si tenti di parlare di Lacan – ma vale per tutti, anche se quello di Lacan è un caso a parte, quasi la cartina di tornasole di tutti gli altri casi, ciò che fa da paradigma e da legge – si sia costretti a stare in bilico per non cadere in uno dei due estremi: quello del primo-donatore da una parte e quello dell’oblazione del dono dall’altra. Il ripercorrimento, quindi, di un pensiero del dono di Lacan (frase che si leggerà come sempre nel doppio senso del genitivo) dovrà, sempre che un’operazione simile riesca, articolarsi su una doppia scena: sulla prima si iscriverà il debito, il nostro, nei confronti del dono di Lacan, sulla seconda, invece, il debito, questa volta di Lacan, nei confronti per esempio di Mauss, di Lévi-Strauss e, perché no?, di Heidegger. Di Mauss ho in un certo modo già parlato, ed è evidente che l’emergenza del dono, il dono del dono se così potessi esprimermi, il fatto cioè che il dono sia considerato non solo un oggetto degno di una ricerca sociologica, ma un “fatto sociale totale”, risponda a un’esigenza per così dire “epocale”. Non vi sarebbe discorso sul dono se l’esperienza della modernità non testimoniasse della ormai totale sottomissione delle forme di vita alla legge dello scambio, se non testimoniasse insomma della generale mercificazione che colpisce non soltanto gli oggetti, i cari vecchi oggetti che appartenevano (o almeno tale era la credenza) alla sfera dei bisogni, ma anche i soggetti, i cari vecchi “io”, che godevano (o tale almeno era la credenza) degli oggetti di cui sopra. L’intento di Mauss è di mostrare l’illusione di una vecchia economia politica e della sociologia a essa collegata che dello scambio fa la forma “naturale” delle relazioni intersoggettive e di cui il baratto non sarebbe che l’arcaica prefigurazione. Al di là dello scambio, ma anche contro, e del suo apprendista il baratto, sta il dono. Quest’ultimo non è una pratica che il dominio dello scambio relega, ancora per poco, nella sfera privata dove gratuità e benevolenza, amicizia e amore, si concedono il lusso di ignorare la dura legge del mercato in cui vigono indifferenza e calcolo. Esso è appunto un fatto sociale totale, non una realtà parziale, ma il sociale tutto intero, l’intera rete dell’intersoggettività di cui è anzi l’inaugurazione. E a partire dal dono che una società è possibile, che si stringono alleanze e si contraggono obblighi reciproci. E tutto questo senza che si passi per lo scambio; anzi è lo scambio adesso ad apparire derivato, caduta e deriva appunto dalla e della verità del dono. Il dono non è solo, dunque, l’altro dallo scambio, ne è la critica, è ciò che, se non ne dissolve, almeno ne riduce l’istanza di dominio: il soggetto umano non vive solamente della ricchezza prodotta dal mercato, ma anche e soprattutto della sua distruzione, del suo spreco. E in questa forma, dunque, che un pensiero del dono giunge fino a Lacan, è questo il dono del dono che lo indebita? E questa sarebbe già un’esemplificazione: salteremmo infatti tutta una tradizione della sociologia francese, tradizione in un certo senso unitaria sia quando si esprime nelle forme canoniche della comunità accademica – Lévi-Strauss per esempio – sia quando assume l’aspetto di un saggismo al limite fra letteratura e ortodossia scientifica – Roger Caillois, Georges Bataille, il Collegio di sociologia –, tradizione comunque che già reinterpreta, modifica e stravolge il dettato di Mauss. Ma anche così è in questo debito che Lacan si iscrive. Eppure non del tutto: per la stessa legge del dono c’è resto ed eccedenza, vale a dire c’è di nuovo dono. Giacché il pensiero del dono cui Lacan ci obbliga prende di mira preliminarmente proprio quell’aspetto oblativo, di estinzione del debito, che appartiene al dono nella misura in cui con esso e attraverso esso si vorrebbe sottrarre il soggetto all’arida e fredda legge dello scambio. È sintomatico allora che un pensiero del dono si colleghi in Lacan fin dall’inizio a un discorso sull’amore e che l’enunciato che gli fa da battistrada sia quello per il quale «amare è donare ciò che non si ha»[8]. Ripercorriamo per un attimo la genealogia di Eros quale l’enuncia il mito di Diotima: Eros è figlio di Penia e di Poros. Penia è povertà, assenza di risorse, mancanza radicale; Poros, al contrario, è espediente, astuzia, ricchezza di sapere. Durante il banchetto degli dèi, da cui Penia è esclusa, Poros ubriaco si addormenta. Penia che si aggira nei paraggi lo vede addormentato nel giardino e lo desidera: giace con lui che continua a dormire e dal connubio prende vita Eros. Penia è dunque la desiderante e lo è perché manca, perché appunto è Aporia, la priva di risorse. Ma se amare è donare e, se chi ama, ama solo perché povero, allora ciò che amando si dona è la mancanza. Poros, infatti, quando si sveglierà – e il dormire è qui metafora di un’illusione di pienezza – si scoprirà mancante a propria volta: colui che fino ad allora se la dormiva beato nella sua certezza di sapere si troverà sottomesso alla legge che obbliga a desiderare, a desiderare ciò che non si ha.
L’amore antico, dunque, l’Eros pagano e classico, lungi dall’essere oblativo, lungi dall’estinguere la legge, la conferma. Ma di più: l’Eros è ciò attraverso cui la legge si trasmette. Donare ciò che non si ha, donare la mancanza, come fulcro dell’amore, è comunicare, certo al di fuori dello scambio e al di là di ogni equivalenza, la coazione a desiderare, l’obbligo o il debito che fa di noi dei soggetti e non dei meri enti naturali sprofondati – dormienti – nel proprio sapere cinestetico. Ma qual è allora quell’amore il cui dono avrebbe invece la capacità di sostenere il potere della legge? Non Eros certo. Agape forse? Non credo di discostarmi molto dal dettato lacaniano se arrischio la tesi che il pensiero del dono che Lacan ci dona ci aiuta tra le tante altre cose ad articolare la differenza di struttura che separa l’Eros antico dall’amore cristiano, facendo emergere tale differenza dal nucleo più profondo dell’esperienza soggettiva[9]. E l’amore cristiano, quell’esperienza dell’amore per cui la divinità stessa è amore e il suo dono è il dono di se stessa attraverso l’incarnazione e la morte, ad avere il potere oblativo, il potere di sospendere la legge. Basta leggere le lettere di Paolo per cogliere in questo amore, non a caso onnipotente, l’oblazione totale delle legge, l’estinzione del debito che il pensiero cristiano iscrive nell’esperienza soggettiva sotto il significante del peccato. Certo Lacan ha buon gioco nel notare che proprio questo dono d’amore che più di ogni altro dono sembra veramente essere fatto per niente – ciò che è diverso, lo si sarà compreso, dal “donare niente” –, getta il soggetto nella colpevolezza: colpa non di fronte alla legge, per evocare la parola kafkiana, che anzi qui la legge è estinta, ma colpa di fronte a quest’amore che proprio in nome della sua gratuità assoluta fa sentire il soggetto come un verme, schiacciandolo irrimediabilmente sulla dimensione creaturale (D’altronde l’oblazione è sì estinzione, ma anche adempimento della legge. Il biglietto obliterato sull’autobus estingue il debito dell’utente, ma adempie insieme la norma che obbliga al pagamento del servizio).
Secondo Lacan, dunque, se si separa il carattere di gratuità del dono, se si isola, in altri termini, la grazia dalla catena del debito simbolico, l’effetto sarà quello di impedire l’accesso del soggetto al desiderio, vale a dire di impedire la formazione del soggetto in quanto tale. Giacché si dà soggetto solo nella misura in cui esso venga strappato dalla potenza della legge alla pienezza di un reale dove nulla manca. Perché il desiderio emerga, è necessario che il soggetto venga alla mancanza o che della mancanza gli sia fatto dono. Tutti noi, insomma, prima di divenir soggetti siamo come Poros, addormentati nel sogno di un reale in cui a ogni bisogno corrisponde un oggetto messo lì a disposizione dalla benignità della natura. Se non ci fosse Penia a coglierci nel sonno e a renderci gravidi di Eros, non accederemmo mai a una vita umana.
La differenza fra l’Eros antico e l’Agape cristiana sembra, dunque, questa: Eros è l’effetto del dono di Penia, di colei che manca e perciò desidera; donando il niente che lei stessa è, Penia non solo trasmette a Eros la mancanza, ma gli mostra insieme di essere a sua volta sottoposta alla legge che ha introdotto la mancanza nel reale. Eros è quindi in debito, deve alla legge – di cui Penia è nient’altro che il rappresentante – la sua esistenza come desiderante, ossia come soggetto. Agape, invece, viene dalla sovrabbondanza, dall’onnipotenza: non dona la mancanza, ma afferma, al contrario, la pienezza del donante. Colui che dona non è a sua volta sottoposto alla legge, è al di là della legge, ed è per questo che, invece di trasmettere un debito, apre, a suo nome e a esclusivo beneficio del suo nome, un credito infinito. Questo dono, con lo stesso movimento con cui oblitera il reato, rende, cioè, la creatura capace di non peccare, trasforma retrospettivamente il desiderio in colpa: è a partire dal dono, infatti, che il soggetto scopre che essere un soggetto alla/della legge, e perciò desiderante, era per lo sguardo onniscrutante del Dio-Amore la cifra della colpa, il marchio della malvagità.
- Praesentia in absentia
Non solo, quindi, il dono per Lacan deve rimandare al debito, essere solo parte di una catena di debiti e doni e di doni e debiti, ma deve soprattutto avere, nell’esperienza soggettiva, la funzione di negazione della pienezza del reale, deve cioè introdurre la mancanza nel reale o sottoporre il reale alla legge. Ma per dirla in un modo ancora più appropriato, il dono non introduce tanto la legge nell’esperienza soggettiva, quanto, introducendo la legge nel reale, introduce qualcosa come un soggetto d’esperienza. In altri termini, è la legge che fa emergere il soggetto come colui che è capace di esperienza in generale: prima non esiste soggetto, semmai cinestesia, auto-affezione, bisogno che “si” sente, squilibrio immediatamente auto-riferito. L’esperienza (Erfahrung, non Erlebnis) implica, invece, la scomposizione e l’articolazione del reale e, quindi, necessariamente la sua preliminare negazione: se il reale fa da fondo e fondale, luogo che non è un luogo e non ha luogo, “chora” primordiale e mitica, in cui si confondono figura e sfondo, soggetto e oggetto, bisogno e soddisfazione, allora il dono ne è lo sfondamento, vi introduce la béance, l’apertura o, per dirla con Heidegger, la Lichtung.
Non è per nulla casuale che il pensiero del dono di Lacan si colleghi non solo al tema dell’amore, ma anche alla domanda su che cosa sia reale: se scopo del seminario del 1956-1957 è la messa a fuoco della sindrome fobica e in particolare della natura dell’oggetto fobico, preliminare sarà, allora, l’interrogazione sullo statuto dell’oggetto in generale e in special modo sulla sua realtà. Strizzando l’occhio a Hegel, Lacan, parlando di quell’unica “realtà” che deve interessare un analista, accenna a una Wirklichkeit simbolica, storica e dialettica, e la mette in contrapposizione con lo Stoff, con un’idea della materia cioè che, per quanto sia letta come impulso, flusso o tendenza, conserva i tratti della sostanza metafisica, permanente e immutabile, e che nel suo “materialismo” non è altro che il residuo di una tradizione meccanico-dinamistica che si riallaccia all’idea dell’Homme-machine[10]. La realtà dell’oggetto consisterebbe, dunque, nel costituire semplicemente uno dei poli dello scambio fra l’individuo e l’Umwelt o non sarebbe piuttosto l’effetto retroattivo, nachträglich, l’effetto après-coup, ossia Wirkung, del simbolico? L’oggetto, aggiunge qualche lezione dopo, non è un dato “naturale”, bensì ciò che è “trovato” in un’invenzione primitiva e che, quindi, nell’esperienza soggettiva è sempre un oggetto ritrovato, l’effetto di una retrouvaille, cioè di un incontro che è insieme un ritrovamento. Incontro, manco a dirlo, sempre mancato e insoddisfacente[11].
Realtà è ciò che viene instaurato dal simbolico, dalla potenza della legge. Ma a che prezzo? A prezzo appunto di quello sfondamento del reale di cui parlavo prima. Si comprende, allora, come realtà e reale siano per Lacan termini distinti e da distinguere accuratamente, significando l’uno ciò che, sottoposto al potere della differenza, viene articolato dal e nel discorso, l’altro ciò che, chiuso nell’identità semplice con sé, resta muto e opaco. Ora è questo passaggio che instaura l’esperienza soggettiva, passaggio dal reale-materia alla realtà, dall’oggetto come corrispettivo del bisogno all’oggetto come oggetto del desiderio umano, a costituire la funzione specifica del dono. Come avviene? L’esempio cui Lacan ricorre è ancora una volta quello freudiano del bambino del rocchetto. Giocando col rocchetto, lanciandolo al di là della cortina del letto in modo da farlo scomparire dal suo campo visivo, facendolo ricomparire richiamandolo a sé, accompagnando questo andirivieni con l’emissione dei suoni Fort-Da, ripetendo questo gesto infinite volte, il nipotino di Freud aveva trovato il modo di sopportare l’assenza della madre.
Il rocchetto sta al posto della madre assente, ma questa – è dono di Lacan – non è una metonimia: è una metafora, è l’entrata del bambino nell’ordine simbolico o, all’inverso, è il marchio a fuoco che il simbolico imprime sul corpo del soggetto umano. Che cosa voglio dire? Che se il rocchetto può divenire metafora materna non è perché, ad esempio, è un oggetto transazionale, non perché sostituisce l’oggetto-corrispettivo-del-bisogno – la madre oggetto-seno –, non perché è un rocchetto tel quel, di cui quel che si può dire non è altro che il rocchetto è un rocchetto, è un rocchetto, è un rocchetto e così via, ma perché è un rocchetto che non è più un rocchetto, che non è più identico a se stesso, è un rocchetto che si scinde secondo l’opposizione significante Fort-Da. Nessun rocchetto reale, in altri termini, può essere “via” o può essere “qui”, giacché se fosse “via” mancherebbe da “qui” e se fosse “qui” mancherebbe da “là” dove l’ho mandato. Ma nel reale nulla manca o, se si vuole, nulla manca al suo posto.
Il rocchetto reale non c’è più, è stato cancellato; quel che esiste ora, ma nel senso forte dell’ex-sistere, dell’esser gettato fuori dal reale, è la realtà del rocchetto, la sua articolabiità come rocchetto-là e rocchetto-qui. Ma il rocchetto stava al posto della madre, e allora anche la madre reale – enorme seno che satura il bisogno – non esiste più; se esiste, ex-siste anch’essa come realtà simbolica. La vocalizzazione – l’emissione dei suoni articolati Fort-Da – va intesa, secondo Lacan, in senso forte: vocalizzare, ossia dare suono al muto, a ciò che solo attraverso la vocale diviene appunto con-sonante, è vocare, vale a dire appellare e chiamare[12]. Vocalizzando, il bambino dà realtà alla madre, la fa venire all’essere; ma, glossa Lacan, l’appello alla presenza avviene sempre su «uno sfondo d’assenza»[13]. Il che vuol dire che, quando è appellata a esser “da”, la madre non è per questo meno assente di quando è appellata ad andar “fort”. Praesentia in absentia: è lo statuto del significante. È come se l’assentarsi della madre nel reale, che di per sé resterebbe nell’insignificanza, costituendo anzi un buco nel reale e rendendo impossibile l’emergenza del soggetto, si metaforizzasse in quell’assenza che, per essere un effetto del significante, appunto la sua Wirkung, diviene, per parafrasare Hegel, razionale, vale a dire discorsiva e articolabile. Ma qual è il rapporto fra questa simbolizzazione arcaica – nulla più di Fort_Da –, che fa emergere la realtà della madre, e il pensiero del dono di Lacan? La madre, certamente, è per il bambino il proto-donatore: gratuito il suo esser là solo per lui, senza ragione il suo porgere il seno, miracolo d’amore il suo corpo caldo e protettivo, pura grazia quel godimento assoluto e irripetibile che da lei s’irradia. Ma poiché la realtà della madre emerge solo a partire dall’opera della simbolizzazione, per quanto arcaica e primitiva possa essere – pre-edipica tanto per rispondere alla Klein –, e dal momento che questa simbolizzazione presuppone lo sfondamento di una madre reale, ecco che la proto-donatrice si trova iscritta nel debito simbolico. Colei che dona è a sua volta in debito, in debito di un dono verso l’altro donatore; essa quindi manca e in quanto manca desidera; allora il suo amore è il dono di ciò che non si ha, il suo dono è il dona-niente[14].
Marchiato a fuoco dalla legge del significante, tuttavia il soggetto potrà sempre tentare con un salto all’indietro di ripristinare quella madre reale fonte di un godimento senza pari e il cui amore sembra dotato del potere dell’oblatività. Questo è l’oggetto della retrouvailles, dell’incontro sempre mancato e insoddisfacente; giacché ormai il soggetto è, volente o nolente, al di là della soglia del significante e l’oggetto del suo desiderio gli si può offrire solo come oggetto irrimediabilmente perduto.
- Heidegger e il dono del niente
Manca ancora un tassello per completare il discorso del dono di Lacan: in che modo il dona-niente di una madre simbolica si riverbera nell’esperienza soggettiva o, come si usa dire, sul piano del vissuto? Attraverso l’esperienza della frustrazione. Concetto “evanescente” lo definisce Lacan[15]. E con ragione: giacché la frustrazione non è altro che il nome di un passaggio, mitico senza dubbio, dalla sfera del bisogno a quella dell’ordine simbolico, passaggio che, come quello hegeliano dalla natura al mondo spirituale, si ricostruisce sempre a posteriori, retrospettivamente. Sbagliano, quindi, coloro che leggono nella frustrazione nient’altro che la privazione di un oggetto reale come oggetto del bisogno: se anche per loro, in fin dei conti, la mancanza del seno vale per il bambino come sottrazione dell’amore materno, allora la frustrazione ha già cambiato di registro. Se la frustrazione è l’opera della madre simbolica e se la madre simbolica è colei che dona-niente, allora, più che di frustrazione, occorrerebbe, secondo Lacan, parlare di Versagung, vale a dire di revoca e disdetta. La frustrazione, in altri termini, è la revoca del dono, il passaggio dal dono oblativo, dal dono dona-tutto al dono dona-niente[16].
La frustrazione è la sottrazione dell’oggetto del bisogno; ma se l’oggetto è già il testimone dell’amore materno, allora quel che il dona-niente revoca non è solo l’oggetto, ma l’amore stesso. Il paradosso del pensiero del dono di Lacan sta in questo: se amare è donare ciò che non si ha, allora questo dono come dono del niente, disdice, nell’atto stesso del suo darsi, l’amore che ne era la premessa e la promessa, revoca l’amore come al di qua o al di là della legge. La revoca del dono dell’amore è il dono e al posto dell’amore, giusta la parabola del bambino del rocchetto, stanno i segni. Il dono del niente è il dono del significante[17].
Tutto sta, come è facile capire, a intendersi sul valore di quel niente che fa di un dono un dono-di-niente. Che cos’è il niente, posto che il niente sopporti una domanda che interroga sull’essenza e la sostanza di ciò che è in questione e fa questione? E a questo punto che io vorrei mostrare uno fra i tanti debiti in cui s’iscrive il dono di Lacan: mi riferisco a Heidegger e mi limiterò a un solo esempio. Dalla Seinsfrage o Uber Die Linie che si voglia, cito questo passo: «“L’uomo è il luogo-tenente del niente”. La frase vuol dire che l’uomo tiene libero il luogo per il tutt’altro rispetto all’ente, in modo tale che nella sua apertura possa darsi qualcosa come l’essere-presente (l’essere). Questo niente, che non è l’ente, e che però si dà, non è nulla di nulla, ma appartiene all’essere-presente. Essere e niente non si dànno l’uno accanto all’altro, ma l’uno si adopera per l’altro, in una sorta di parentela di cui appena abbiamo pensato la pienezza essenziale. Né la pensiamo finché tralasciamo di chiederci: che cosa intendiamo con quel “ciò” (es) che qui “si dà” (gibt)? In quale tipo di dare si dà? In che senso appartiene a questo “si dà l’essere e il niente” ciò che si rimette a questo dono custodendolo? Diciamo alla leggera: si dà. L’essere “è” così poco, quanto il niente. Ma si danno entrambi»[18].
Non è mia intenzione quella di tentare un’analisi, non dirò completa, ma neppure parziale di questo passo così complesso e così potente. Tralascerò il testo e il contesto, le linee e le svolte del pensiero di Heidegger. Ma come non notare, e restare allo stesso tempo indifferenti, la corrispondenza fra il discorso di Lacan e questa tesi heideggeriana in base alla quale il niente tuttavia “si dà”, es gibt? il niente non è l’ente, è nessun ente, è la negazione di ogni ente, la negazione attiva dell’ente in generale, e tuttavia appartiene all’essere-presente, anche se in una modalità che testa tuttora non pensata. Si dà niente, c’è dono del niente: eppure questo niente non è nulla, questo dono del niente dona l’essere. È evidente che essere e ente non sono la stessa cosa, che anzi ciò contro cui Heidegger lotta è proprio l’identificazione fra l’essere e l’ente, lo schiacciamento dell’essere sull’ente. Certo l’essere è sempre e soltanto l’essere dell’ente, ciò che fa in modo che l’ente sia l’ente che è, e tuttavia fra essere e ente c’è differenza, l’essere non è l’ente, ne è la provenienza, ciò a partire da cui c’è dell’ente in generale e che, appunto per questo, resta sempre altro dall’ente.
L’essere non è l’ente: ma solo per dirla questa frase non abbiamo forse bisogno del niente? Non abbiamo bisogno che ci sia dato il niente, che ci sia dato niente, non c’è bisogno di un dono-di-niente? Il dono del niente è, quindi, quel dono che donando l’essere e la differenza dell’essere dall’ente, dona infine l’ente esattamente non donandolo, anzi disdicendone la pretesa di sostituirsi all’essere. L’uomo, l’esserci per Heidegger, non è un ente fra gli altri enti, ma se è un essere-nel-mondo, in rapporto continuo con la totalità dell’ente, lo è a partire da quell’apertura d’essere che è il dono del niente.
Così per Lacan: il soggetto sta nella realtà, il suo mondo è popolato di oggetti di ogni tipo; egli può anche misconoscerli interpretandoli come meri oggetti naturali, enti semplicemente presenti; può addirittura prendere se stesso come un ente e può immolarsi di fronte al sacrificio di un ente supremamente essente. Eppure tutto questo non sarebbe possibile se egli non fosse a sua volta l’effetto di un dono dona-niente. Ma per Lacan il dono dona-niente è insieme revoca del dono: è così anche per Heidegger? Sembrerebbe di sì: perché se è vero che il dono del niente dona l’essere presente, vale a dire la manifestazione della totalità dell’ente, è anche vero che proprio il niente fa che l’essere non sia l’ente, sia il tutt’altro dell’ente. L’essere allora nello stesso momento in cui si dà come essere-presente, si sottrae, non si dà a vedere, resta nascosto: se l’essere donandosi fa in modo che il nascosto passi nel non nascondimento, tuttavia “si” nasconde e “si” oblia. Il dono del niente come dono d’essere è insieme revoca dell’essere. Dovremmo dire che l’essere è frustrante o che “si” frustra?
Ma a questo punto non so più se quel che dico di Heidegger sia il dono che indebita Lacan o, al contrario, se sia il dono di Lacan che trascina nel suo debito il pensiero di Heidegger. Chi dona e a chi? Chi è in debito e con chi? Ma se un dono apre sempre un debito e se un debito rinvia sempre a un dono, se non c’è un proto-donatore, allora queste domande sono indecidibili. E se fosse proprio questo il dono di Lacan? Che il pensiero del dono è indecidibile?
[1] Cfr. J. Derrida, Donner le temps 1. La fausse monnaie, Editions Galilée, Paris 1991, pp. 12-13, tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, p. 3 e nota 4.
[2] Cfr. M. Mauss, Essai sur le don, «Année sociologique», serie II, 1923-1924, t. I, ristampato in Id., Sociologie et anthropologie, P.U.F., Paris 1950, tr. it. in Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1966.
[3] Cfr, J. Lacan, Le Séminaire livre X. L’angoisse. 1962-1963, Seuil, Paris 2004, p. 254, tr. it. Einaudi, Torino 2007, p. 238.
[4] E. Redaelli, Soggetto al debito. Il fondo simbolico dell’economico, in «LETTERa. Quaderni di clinica e cultura psicoanalitica», 5, 2015, p. 41.
[5] Ibid., pp. 42-44.
[6] Su questo punto mi permetto di rinviare a B. Moroncini, Debito e sintomo, in «Phàsis», 3, 2015.
[7] Cfr. J. Lacan, Le Séminaire livre IV. La relation d’objet 1956-1957, Seuil, Paris 1994, tr. it. Einaudi, Torino 2007.
[8] La frase compare per la prima volta nello scritto La direction de la cure et les principes de son pouvoir del 1958 (poi ristampato in J. Lacan, Écrits, Seuil, Paris 1966, p. 618) che riprendeva l’analisi sul dono condotta appunto nel 1956-1957 nel seminario su La relation d’objet; ritorna in seguito prepotentemente nel seminario del 1960-1961 dedicato al transfert e in particolare nel commentario del Simposio platonico (cfr. J. Lacan, Le Seminaire livre VIII. Le transfert, Seuil, Paris 1991, passim).
[9] Secondo una linea o strategia di pensiero che era già di Freud: le ipotesi di Totem e tabù, ad esempio, non prendevano le mosse dai dati dell’esperienza clinica?
[10] J. Lacan, La relation d’objet, cit., p. 33, tr. it. p. 28.
[11] Ibid., p. 60, tr. it. p. 55.
[12] Ibid., p. 67, tr. it. p. 62.
[13] Ibid., p. 183, tr. it. p. 182.
[14] Ibid., p. 182, tr. it. p. 181.
[15] Ibid., p. 101, tr. it. p. 97.
[16] Ibid., p. 181, tr. it. p. 180.
[17] Ibid., pp. 182-183, tr. it. pp. 181-182.
[18] M. Heidegger, Zur Seinstrage, pubblicato per la prima volta col titolo Über die Linie, come contributo agli scritti in onore di Ernst Jünger per il suo sessantesimo compleanno: cfr. Freundschaftliche Begegnungen, Vittorio Klostermann, Frankfurt a. M. 1955. Ristampato come opuscolo a sé presso lo stesso editore nel 1956 e ripreso poi in Wegmarken nel 1967 presso Klostermann, ristampato poi nel 1976 come IX volume delle opere complete. La traduzione italiana è a cura di Franco Volpi, cito da quest’ultima edizione, Milano 1987, p. 367.