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Umano post-Umano. Verso l’homo technologicus?
Abstract
Human post‐Human. Towards homo technologicus?
The fifth edition of TriesteNext, European Exhibition of scientific research has gathered students and young graduates, scientists and philosophers, businessmen and men of the institutions in order to discuss the latest achievements and future developments of scientific research, from biotechnology to logistics, from robotics to astrophysics, from informatics to marketing. The dialogue between science and philosophy, hosted by TriesteNext, analyzed the specific characteristics of the human being, the only being in the world able to produce language, to get in a cognitive relationship with the world and to undertake a recognition process with other men, a relationship that affects his very being and his way of acting in the world.
Umano post-Umano. Verso l’homo technologicus?
La ricerca della verità possiede tuttora il fascino di porsi ovunque in forte risalto contro l’errore, divenuto grigio e noioso; questo fascino va perdendosi sempre di più.
Oggi invero viviamo ancora nell’età giovanile della scienza, e corriamo dietro alla verità come a una bella ragazza; ma che accadrà,
se un giorno essa si trasformerà in una donna anziana dallo sguardo arcigno?
In quasi tutte le scienze, il principio fondamentale o è stato trovato in tempi recentissimi, o lo si continua tuttora a cercare;
ciò è ben altrimenti stimolante che se tutto l’essenziale fosse già stato trovato, e al ricercatore non restasse che una magra spigolatura autunnale.
Nietzsche, Umano, troppo umano
La quinta edizione di TriesteNext, Salone Europeo della ricerca scientifica, ha testimoniato il carattere gioioso di una scienza eternamente giovane, che dai suoi recenti sviluppi sa trarre nuova linfa per alimentare e rinverdire la ricerca della verità. Siamo ancora molto lontani da quanto paventato da Nietzsche: il fascino di un organismo in evoluzione come la scienza sembra non tramontare mai, la sua fresca bellezza si conserva intatta grazie a un’infinita riserva di domande, che nascono e si rigenerano costantemente grazie alla mai compiuta riflessione sul rapporto tra l’uomo e la tecnologia. Un rapporto a sua volta frutto dell’incontro tra la ricerca scientifica, i bisogni e gli interessi delle persone e le attività di nuovi settori industriali come il BioHigh Tech.
Un fitto programma di conferenze, workshop e seminari ha raccolto studenti e giovani laureati, scienziati e filosofi, imprenditori e uomini delle istituzioni per discutere intorno alle recenti conquiste e ai futuri sviluppi della ricerca scientifica, dalle biotecnologie alla logistica, dalla robotica all’astrofisica, dall’informatica al marketing. Ma, se la tecnica è il luogo del disvelamento dell’essere e se l’uomo è quell’ente chiamato a prendere posizione circa se stesso e il suo rapporto con il mondo, rapporto che proprio nella tecnica trova la dimensione del suo dispiegamento, il dialogo tra scienza e filosofia intorno agli specifici modi d’essere dell’uomo, ospitato dal Salone, diventa la trama essenziale all’interno della quale comprendere il ruolo della scienza nella società contemporanea, che alla sfrenata corsa verso il progresso scientifico unisce l’irrinunciabile ricerca di senso e valore, affinché l’umano non si smarrisca nelle reti della tecnologia e la scienza non cessi mai di essere un sapere al servizio dell’uomo.
I dialoghi tra scienza e filosofia, condotti da Luca Illetterati, docente di Filosofia teoretica presso l’Università di Padova, hanno analizzato le caratteristiche specifiche dell’essere umano, l’unico ente al mondo capace di produrre linguaggio, entrare in un rapporto conoscitivo con il mondo e ingaggiare una relazione di riconoscimento con gli altri uomini, relazione che incide sul suo stesso essere e sul suo modo di agire nel mondo.
Partendo dalla complessa azione del parlare, la riflessione filosofica si concentra in primo luogo sulla definizione aristotelica di uomo, che nella Politica è detto zoon logon echon, ossia il vivente che ha il logos, intendendo per quest’ultimo l’unità inscindibile di pensiero e discorso. Raimon Panikkar, teologo e filosofo contemporaneo, intende la definizione aristotelica in modo diverso rispetto alla tradizione occidentale: il logos non è una proprietà dell’umano, una delle funzioni che lo qualificano come ente unico al mondo e di cui può disporre; piuttosto, l’ente uomo è attraversato dal logos e agisce all’interno di esso. Il logos sarebbe allora una dimensione eccedente le funzioni dell’umano, intercettata dalle nostre prestazioni cognitive ma non riducibile a queste. La definizione aristotelica risulta ulteriormente problematica se si considerano i risultati degli studi sull’etologia animale, i quali hanno rivelato la labilità del confine tra le facoltà dell’umano e quelle dell’animale. Il primo dei nodi problematici a emergere è proprio questo: arrogandosi l’esclusivo uso del linguaggio, l’uomo tende a separare se stesso dal mondo della natura, rivendicando su questa un primato fondato proprio sulla presunta superiorità intellettiva. Sul versante opposto, quello artificiale, si profila la possibilità che l’esternalizzazione delle attività umane in artefatti tecnologici produca un mondo capace di comunicare con noi, traducendo in simboli linguistici determinate azioni o mancate azioni, come il mancato salvataggio di un file sul nostro computer. Felice Cimatti, docente di Filosofia del linguaggio presso l’Università della Calabria, estende ulteriormente l’orizzonte problematico all’interno del quale concepiamo il fenomeno linguistico, catturando l’attenzione dell’uditorio attraverso la rottura di un’equazione che tradizionalmente consideriamo consolidata, ossia parlare=comunicare. L’idea che il linguaggio sia il veicolo attraverso il quale trasmettiamo i nostri pensieri agli altri non è affatto a-problematica. Lo stesso Aristotele pensava il logos non come uno strumento che funge da contenitore del pensiero, ma come l’immagine fisica e percepibile del pensiero stesso, ossia un’estrinsecazione fonetica di atti cognitivi inscindibile rispetto alle operazioni che il nostro intelletto compie nell’intenzionare gli oggetti. I simboli linguistici costituiscono la forma del nostro pensiero e rendono possibile la stessa attività intenzionale della coscienza, che in assenza di questi non potrebbe individuare e distinguere chiaramente l’oggetto del suo pensiero: ad esempio il numero √-1 sarebbe impensabile in assenza della simbologia matematica, infatti questo numero si dice “immaginario” proprio perché nessun numero reale elevato al quadrato può dare come risultato un numero negativo. Possiamo però “immaginare” un numero di questo tipo e per farlo ci serviamo di simboli, ossia di un linguaggio specifico. I segni che adoperiamo per costruire i ragionamenti costituiscono la prima e più potente forma di tecnologia di cui l’uomo dispone, che ha modificato radicalmente le nostre strutture cognitive. Una prima differenza tra il mondo umano e quello animale consiste allora non tanto nella presenza-assenza del fenomeno linguistico, ma nell’uso di questa capacità. Per l’uomo il linguaggio non è principalmente comunicazione, come per gli animali, ma è soprattutto un modo specifico di ragionare, un pensare in modo tale che gli oggetti dell’attività intenzionale risultino chiari e distinti. Come ogni altra tecnologia, il linguaggio modifica il nostro essere e il nostro relazionarci al mondo, eccedendo in qualche modo la nostra capacità di governarlo.
Giorgio Vallortigara, neuroscienziato e direttore del Centro Mente-Cervello dell’Università di Trento, interviene nel dibattito soffermandosi su alcuni sorprendenti risultati di esperimenti condotti sul funzionamento del cervello animale, capace, in taluni casi, di riconoscere parole dotate di senso all’interno di un determinato set linguistico, in base a una regolarità statistica. Nell’uomo, le capacità neuronali preposte al compito di riconoscimento delle forme linguistiche non sarebbero innate e nemmeno frutto di un processo di selezione naturale o di mutazione genetica, poiché troppo breve sarebbe l’intervallo temporale all’interno del quale l’uomo ha sviluppato la facoltà linguistica e in particolar modo la scrittura, ossia intorno al terzo millennio a. C.. Sarebbe piuttosto intervenuto un processo di riciclaggio neuronale: alcune aree cerebrali originariamente responsabili del riconoscimento di alcune forme naturali sarebbero poi state impiegate per riconoscere i simboli linguistici. Questo fenomeno può verificarsi anche in altre specie animali, così come sono possibili forme elementari di calcolo numerico. In particolare, alcuni recenti esperimenti hanno dimostrato che attraverso un lungo addestramento alcune specie animali sono in grado di associare una particolare numerosità (ad esempio 7 oggetti proiettati su uno schermo) con il numero 7, ossia con un simbolo. Successivamente, i neuroni inizialmente impiegati per associare 7 oggetti al numero 7 si attivano anche in assenza del referente esterno, riconoscendo immediatamente il numero 7. A questo punto si pone un quesito fondamentale per individuare il modo d’essere specifico dell’essere umano: perché nell’uomo il processo di riciclaggio neuronale è intervenuto spontaneamente mentre nel resto del mondo animale è necessario indurlo attraverso un meccanismo di prove ed errori, altrimenti non si verifica? Perché nel mondo animale non si è sviluppato il linguaggio, pur essendovi potenzialità adatte al suo sviluppo?
Posti questi interrogativi, con Marcello Monaldi, docente di Estetica presso l’Università di Trieste, la riflessione ritorna sul valore e il significato del logos nella cultura occidentale, in riferimento alla sua facoltà di essere luogo di accertamento dei principi primi del sapere, ossia fondamento di ogni discorso vero. Se durante il XIX secolo oggetto della riflessione filosofica era l’aspetto ontologico-veritativo del linguaggio, oggi prevale un’indagine di tipo antropologico, che insiste sullo studio della zona di confine tra il mondo umano e quello animale. Da attributo fondamentale di Dio, con cui Egli crea il mondo, il logos diventa modalità specifica con cui l’uomo comprende i principi che governano il cosmo. Considerando il linguaggio da un punto di vista antropologico, esso si pone come un fondo inattingibile rispetto al quale la nostra capacità di tematizzazione si ridimensiona, poiché ogni nostra riflessione sul linguaggio ha già una forma linguistica, dunque inevitabilmente sfugge al nostro controllo, al punto da eccedere la nostra stessa facoltà di concettualizzazione. In questo modo, posta l’identità indissolubile di linguaggio e pensiero, a ogni lingua corrisponderà un modo diverso di concettualizzare il pensiero, rivelando così la dipendenza delle strutture cognitive dalle forme linguistiche. In questo modo, la filosofia del linguaggio assume una prospettiva scetticheggiante, in base alla quale si nega che la parola possa accedere alle verità ultime delle cose, ossia si nega al logos quel compito fondativo che in passato invece gli veniva riconosciuto, facendo del fenomeno linguistico una semplice prestazione, che si consuma nel momento stesso in cui viene eseguita senza lasciare traccia di sé. Al depotenziamento della funzione veritativa del logos corrisponde però un nutrito interesse nei confronti del mondo animale, dalla cui comprensione possiamo ricavare gli strumenti per individuare l’essenza specifica dell’essere umano sia rispetto agli animali, sia rispetto agli artefatti tecnologici che simulano prestazioni umane. Proprio su questa duplice linea di confine, che separa l’uomo sia dal regno animale, sia dalle intelligenze artificiali, si snoda la riflessione filosofica ospitata dal Salone, che dopo aver analizzato la dimensione del linguaggio, prende in esame il complesso e variegato mondo della conoscenza, intesa sia da un punto di vista strettamente filosofico, sia da un punto di vista neuroscientifico. Alessandro Treves, docente di Neuroscienze cognitive presso la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste, evidenzia lo straordinario processo di espansione della corteccia cerebrale, ossia l’area deputata alla ricezione ed elaborazione di stimoli provenienti dal mondo, durante le prime settimane di vita del neonato. Nel corso della filogenesi, un differente sviluppo della corteccia cerebrale ha causato la separazione dei mammiferi dal resto dei vertebrati e questa differenziazione è testimoniata dalla diversa conformazione della corteccia, che nei mammiferi presenta una molteplicità di strati, mentre nel resto dei vertebrati ha un unico strato. La conformazione cerebrale dell’essere umano non differisce di molto da quella dei primati, per cui l’origine del fenomeno linguistico e del diverso modo di intenzionare la realtà, cogliendo essenze, forme e valori, risulta ancora più misteriosa. Se da un punto di vista anatomico il cervello umano non è dissimile da quello dei primati, l’origine della capacità linguistica deve risiedere in una differente organizzazione ed elaborazione delle informazioni, ossia in una diversa modalità di processamento dei dati, cui però non corrisponde la presenza di un “organo” specifico. La celebre metafora del cervello come hardware e delle connessioni neuronali come software trova qui la sua giustificazione: è come se nel cervello umano fossero impiantati programmi di funzionamento diversi rispetto a quelli animali, benché le strutture fisiche siano grossomodo simili. Non vi è dunque nel cervello umano una traccia fisica del processo ricorsivo e generativo che caratterizza le prestazioni linguistiche e cognitive. Interessante è notare che la differenziazione dell’essere umano dal resto dei mammiferi è diversa rispetto alla differenziazione dei mammiferi dal resto dei vertebrati: la prima non incide sulle funzioni cognitive, la seconda invece ne determina una profonda trasformazione, pur non modificando sostanzialmente le strutture fisiologiche. Proprio questo è il problema fondamentale delle neuroscienze: comprendere il motivo per cui da strutture fisiologiche pressoché identiche emergano funzioni cognitive radicalmente differenti. La tecnologia della cognizione umana, nonostante i grandiosi progressi neuroscientifici, resta un insondabile mistero.
L’intervento di Maurizio Ferraris, docente di Filosofia teoretica presso l’Università di Torino, fornisce utili indicazioni rispetto ai problemi sollevati dalla riflessione di Treves. Innanzitutto, se non è possibile riscontrare differenze sostanziali tra le strutture cognitive umane e quelle di altre specie animali, occorre individuare la radice di questa diversità non nell’interiorità del vivente, ma in quei dispositivi esterni che egli usa per relazionarsi con il mondo, ossia nella tecnica. Ferraris delinea quattro forme di conoscenza, che si sono susseguite nel corso della storia del pensiero: la contemplazione, dove il mondo è dato e accessibile al pensiero e gli errori conoscitivi dipendono da illusioni percettive; la costruzione, dove le cose esistono solo nella misura in cui sono a noi note, ossia sono costruite dai nostri processi cognitivi (per cui non esiste una realtà indipendente dal pensiero); la decostruzione, che smaschera le false immagini del mondo costruite dalla scienza e si pone con atteggiamento critico nei confronti di ogni ideologia. L’ultima immagine prodotta dalla gnoseologia è quella di emergenza, che immediatamente getta luce sulle questioni sollevate dal discorso di Treves, in merito all’emergere di diverse funzioni cognitive da un medesimo corredo fisiologico. Il linguaggio e l’intelletto dell’uomo si sono sviluppati a seguito dell’incontro tra funzioni esterne e interne, ossia tra la tecnica (l’insieme delle strategie adattive che l’organismo adotta per sopravvivere in natura) e le strutture cognitive, che si modificano in base allo sviluppo tecnologico e a loro volta retroagiscono su quest’ultimo, determinandone la direzione e il ritmo. L’intelletto e il linguaggio sono allora modi d’essere specifici dell’umano proprio perché solo l’essere umano manca di adattamento organico a un determinato ambiente, dunque solo nella sua dimensione esistentiva si dà la necessità della tecnica, che, impegnando gli arti superiori per la costruzione e la manipolazione di oggetti, delega all’oralità il compito di interagire con gli altri uomini.
L’ultimo appuntamento dei dialoghi tra scienza e filosofia ospitati dalla quinta edizione di TriesteNext è dedicato al riconoscimento, che insieme al linguaggio e alla conoscenza costituisce una delle caratteristiche specifiche dell’animale dotato di intelletto e strumenti tecnici. Gloria Origgi, docente presso l’Ecole Normale Supérieure di Parigi e l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences sociales, ha aperto il dibattito soffermandosi sulla nozione di riconoscimento inteso come meccanismo di retroazione che contribuisce alla costruzione del sé. Il processo di costruzione della persona, infatti, si svolge anche attraverso l’integrazione nel proprio sé dell’immagine che di noi hanno gli altri, poiché l’uomo è quell’animale capace di vedersi visto negli occhi degli altri, fatto da cui emergono emozioni come la vergogna e l’imbarazzo. Lo psicologo Charles Horton Cooley ha teorizzato il concetto del looking glass self, in base il quale il meccanismo di costruzione della soggettività si fonda proprio sull’integrazione dello sguardo altrui nel sé, ossia sulla stabilizzazione della percezione del sé che si realizza attraverso il riconoscimento dell’altro. Anche la psicologia dello sviluppo contempla lo stadio dello specchio, ossia la fase in cui il bambino, tra i 6 e i 18 mesi di vita, si guarda nello specchio e dà segno di riconoscere la propria immagine. È Jacques Lacan nel 1936 a introdurre nella psicoanalisi freudiana la locuzione di fase dello specchio, intesa come momento in cui nella mente infantile si comincia a costituire il nucleo dell’Io. In questa età il bambino è ancora in uno stato di assoluta dipendenza dagli adulti e di relativa immaturità della coordinazione motoria, ma riconoscere se stesso nell’immagine riflessa nello specchio gli dà un senso di allegria, come testimoniato dalla mimica e dai gesti del piccolo nel compimento di questa esperienza. Questa intuizione si accorda con gli esperimenti condotti nell’ambito della psicologia sperimentale sugli umani e sui primati, che confermano l’importanza, per la costituzione del senso di identità individuale, della capacità di comprendere che la figura nello specchio è il riflesso di sé: una sorta di “forma” della propria unità psicofisica. Nell’epoca della globalizzazione e dei social network, il meccanismo di riconoscimento assume contorni sempre più labili e indefiniti, generando una moltiplicazione all’ennesima potenza del bisogno di essere “visti” dagli altri e riconosciuti per la propria individualità.
Gabriele Beccaria, coordinatore di «Tuttoscienze» de La Stampa, interviene nel dibattito sottolineando che l’intelligenza artificiale si costituisce come tale solo in quanto riproduce meccanismi tipicamente umani, tra cui quello del riconoscimento. Le macchine sono tanto più intelligenti quanto più riescono a riconoscere cose e persone. La tecnologia del deep learnig, infatti, imita il funzionamento dei nostri neuroni e renderà le macchine capaci di interagire con noi, come già accade con il dispositivo Siri di Apple. La funzione del riconoscimento verrà ulteriormente potenziata anche per gestire l’enorme quantità di informazioni prodotte dall’essere umano, ossia il Big data, che non sempre l’uomo riesce a utilizzare in modo corretto. A guidare questo processo di implementazione e sviluppo dell’intelligenza artificiale saranno gli scienziati, ma l’inquietudine e l’angoscia generate dalla straordinaria quantità di possibilità offerte dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale richiederanno l’intervento della filosofia, che dallo studio dell’uomo, della sua natura e dei suoi bisogni sa ricavare strumenti concettuali indispensabili per orientarsi nel complesso mondo della tecnologia. La nuova sfida aperta dal progresso scientifico impone allora la riappropriazione dell’umano come dimensione complessa di essere, valore e senso, affinché la scienza e le tecnologia non siano luoghi di smarrimento del sé, ma di dispiegamento delle facoltà e potenzialità umane.