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Pezzotti in mostra: percorsi giocosi dominati da ombre. Tra didattica anti-fake e tutela della creatività

Autore


Cristian Fuschetto

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


Note a margine della mostra “Con i giochi nun s’pazzea” Napoli, San Domenico Maggiore 9 dicembre 2016 – 19 marzo 2017


  1. Pezzotti in mostra
  2. Il mercato del fake vale una finanziaria
  3. Il valore della creatività e l’urgenza della tutela
  4. Not in my name: Kant e la proprietà intellettuale come mediazione

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S&F_n. 17_2016

Abstract



Colourful, seductive, cheap, seemingly the same as the original, false toys are so widespread that they often get the paradox of not being perceived as such by those who buy them. This paper focuses on the problem of “fake” starting from the exhibition project of the didactic exhibition “Con i giocattoli nun s’pazzea” organized at the Complesso San Domenico Maggiore of Naples (December, 8, 2016 – March, 19, 2017). The paper also focuses on the social and economic implications of counterfeiting in general, starting from the appreciation of the importance of creativity and “cultural industry”. Finally, the paper addresses the issue of the protection of intellectual property based on the Kantian argument of “mediation”.


Note a margine della mostra “Con i giochi nun s’pazzea” Napoli, San Domenico Maggiore 9 dicembre 2016 – 19 marzo 2017


  1. Pezzotti in mostra

Un percorso giocoso dominato da ombre. Quello progettato per la mostra didattica “Con i giocattoli nun s’pazzea” che per quattro mesi (da dicembre allo scorso 19 marzo 2017) ha animato il complesso museale di San Domenico Maggiore, è un percorso che ha ruotato fondamentalmente intorno a questa trama espositiva. E lo ha fatto con semplicità ed efficacia.

Colorati, seducenti, economici, solo ispirati o apparentemente uguali agli originali, i giocattoli falsi sono così diffusi da raggiungere spesso il paradosso di non essere più percepiti come tali da chi li compra. “Che vuoi che sia, è solo un gioco”. E invece no, perché “Con i giocattoli nun s’pazzea”. Promossa dall’Associazione “Museo del Vero e del Falso” in collaborazione con la Procura della Repubblica di Napoli la mostra ha completato la più ampia esposizione “Storie di giocattoli. Dal Settecento a Barbie”, più di mille “piccoli capolavori” provenienti dal Museo del giocattolo di Napoli del Suor Orsola Benincasa nato dalla passione collezionistica di Vincenzo Capuano.



Discreta appendice della collezione di Capuano, la mostra didattica sui giochi contraffatti coglie nel segno e i circa 10mila visitatori in quasi 4 mesi di apertura ne sono testimonianza. Non solo spensieratezza e divertimento, il settore dei giochi è uno tra i più colpiti dal fenomeno della contraffazione. L’ombra diventa quindi il leitmotiv del percorso allestitivo, i giocattoli disposti per gruppi tipologici su bianchi piani astratti, sembrano rivelare l’altra anima, minacciosa, celata dietro oggetti apparentemente innocui. Realizzate direttamente sui pannelli espositivi, le ombre accrescono il senso didattico dell’allestimento, si relazionano con il fruitore e cercano di arrivare direttamente al suo subconscio.

Così il cubo Magico di Rubik, che apre la mostra, oggetto emblematico della storia del giocattolo contemporaneo e ancora il più venduto, allunga la sua diabolica ombra nella versione contraffatta; poi una Lamborghini accentua la sua aggressività nel drappello di auto telecomandate inseguite dalla macchina della polizia; le gambe di una Frozen si allungano minacciose ad alludere la presenza di una strega cattiva; un innocuo cigno dedicato ai più piccoli palesa la pericolosità delle sue plastiche e dei suoi coloranti in un collo arcigno proiettato sul piano.

Tutta la narrazione si dispiega su due pareti a “L” che catturano il fruitore prima del varco di accesso alla stanza, suddividendo lo spazio unico in due macrosezioni allestitive: la prima dedicata agli oggetti provenienti dalla tradizione del giocattolo e votate alla interazione fisica degli utenti; la seconda in cui si affronta marcatamente l’aspetto del danno arrecato ai brand commerciali e alla pericolosità diretta degli oggetti sempre più vicini a una contraffazione ispirata, raffazzonata più che pedissequa.

Ad arricchire l’offerta educativa anche video e giochi interattivi basati su sistemi di intelligenza artificiale sviluppati dal Nac (il Laboratorio di cognizione naturale e artificiale della Federico II di Napoli): una sorta di “quiz” a misura dei bambini e ragazzi per aiutarli a riconoscere i giochi veri dai “pezzotti” imparando, nel contempo, il decalogo per l’acquisto sicuro dei loro genitori. «Il più delle volte – osserva Luigi Giamundo, presidente dell’Associazione Museo del vero e del Falso – nell’acquistare un falso non ci si rende minimamente conto dei danni che si contribuisce ad alimentare. Basti dire che ogni anno in Italia 201 milioni di euro vanno in fumo a causa delle vendite di giocattoli falsi, ovvero il 15,6% delle vendite del settore, e significa anche danni ancora più grandi per la salute dei più piccoli». Provenienti dall’Asia, ma anche dalla Turchia e dall’Africa, i giochi “pezzotti” sono composti di materiali nocivi, male assemblati e trattati con vernici tossiche che per un risparmio di pochi euro producono danni incalcolabili nel tempo.



In uno studio svolto in collaborazione con l’Ufficio europeo dei brevetti, l’Ufficio per l’Armonizzazione nel Mercato Interno (UAMI) ha calcolato che il 39% circa dell’attività economica totale e il 26% dell’occupazione complessiva nell’UE sono generati direttamente da industrie ad alta intensità di Diritti di Proprietà Intellettuale, con un ulteriore 9% di impieghi nell’UE derivanti dall’acquisto di beni e servizi provenienti da altri settori da parte delle suddette industrie ad alta intensità di Dpi.

Si calcola inoltre che l’industria legittima perda circa 1,4 miliardi di euro di entrate all’anno a causa della presenza di giochi e giocattoli contraffatti nel mercato dell’UE, per una percentuale pari al 12,3% delle vendite del settore.

Tali mancate vendite si traducono in una perdita diretta di quasi 6.150 posti di lavoro. Se aggiungiamo gli effetti a catena su altri settori e sulle entrate statali, tenendo conto degli effetti diretti e indiretti, la contraffazione in questo settore provoca un calo delle vendite nell’economia dell’UE pari a circa 2,3 miliardi di euro e ciò comporta a sua volta la perdita di 13.168 posti di lavoro e di entrate statali per 370 milioni di euro.

  1. Il mercato del fake vale una finanziaria

Ma quello dei giochi è solo la punta di iceberg molto profondo. Dall’elettronica all’abbigliamento, dal vino all’intera galassia di prodotti alimentari, siamo di fronte a un fenomeno che si trasforma e diventa sempre più “liquido”, rispetto al quale le attività di repressione e di contrasto, che agiscono sui nodi puntuali della rete logistica (come porti e aeroporti), da sole non bastano.

L’Italia, in particolare, è il paese europeo che paga il prezzo più alto al mercato del falso con più di 7 miliardi di euro all’anno di mancate vendite e circa 64 mila posti di lavoro bruciati. È il valore di una vera e propria “manovra finanziaria” se si considera che questi numeri si riferiscono al solo circuito abbigliamento-calzature, cosmetici, articoli sportivi, borse, giocattoli e gioielleria.

A scattare questa drammatica foto sono gli analisti dell’European Union Intellectual Property Office nel Rapporto Annuale (luglio 2016). Se a questi dati si somma anche la contraffazione alimentare, che in Italia vale da sola 1 miliardo di euro (fonte Federalimentare), la falsa meccanica e la pirateria audio/video, si stima che i danni causati dal falso all’economia italiana si aggirino intorno agli 8 miliardi di euro e impediscano la nascita di oltre 130mila nuovi posti di lavoro.

Primo tra i settori colpiti, si legge nel Rapporto Euipo, quello di abiti, scarpe e accessori.

Segue il farmaceutico dove «le mancate vendite del settore italiano causano ogni anno perdite fino a 1,59 miliardi, pari al 5% delle vendite dell’industria italiana dei medicinali, cui si aggiunge la perdita di 3.945 posti di lavoro diretti».

Terzo il comparto di borse e gioielli, per quasi 1 miliardo. Gioielli e orologi contraffatti causano invece ogni anno una perdita di 400 milioni.

Quarta vittima il settore dei cosmetici e dei prodotti per l’igiene personale, di cui l’Italia è terzo produttore in Europa e tra i maggiori consumatori: «La perdita annua in termini di mancate vendite dirette è pari al 7,9%», per «oltre 624 milioni».

Al quinto posto i giocattoli: i guadagni sfumati salgono a 201 milioni, pari al 15,6% delle vendite dirette.

  1. Il valore della creatività e l’urgenza della tutela

Ma oltre ai costi economici, la contraffazione porta con sé anche enormi costi sociali: frode, lavoro nero, sfruttamento minorile, danni alla salute, scarsa sicurezza e danni incalcolabili alla creatività. E qui si tocca un nodo nevralgico non solo degli aspetti economici della rete sociale ma, prima ancora, di quelli che potremmo definire di “vitalità culturale”. La domanda di contenuti culturali caratterizza oggi, per intensità e penetrazione, in modo inedito le società tecnologicamente evolute. Il Rapporto 2016 Io sono cultura – l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi elaborato da Fondazione Symbola e Unioncamere mette in evidenza come l’Italia riesca effettivamente a “mangiare” grazie a cultura e creatività: il sistema produttivo culturale e creativo genera 89,7 miliardi di euro e attiva altri settori dell’economia arrivando a muovere nell’insieme 249,8 miliardi, equivalenti al 17% del valore aggiunto nazionale. Una ricchezza che si riflette in positivo anche sull’occupazione: il solo sistema produttivo culturale e creativo dà lavoro a 1,5 milioni di persone (il 6,1% del totale degli occupati in Italia).

Numeri che sanciscono la legittimità di un’espressione come quella di “industria culturale”, un sistema produttivo fatto di musei, gallerie, festival, beni culturali, letteratura, cinema, performing arts, architettura, design e comunicazione e tutte quelle attività in cui l’esercizio intellettuale finisca per rappresentare il valore aggiunto di un processo o di un prodotto. Certo, cultura e creatività sono due realtà non immediatamente sovrapponibili. Si può dire per esempio che la sfera culturale si caratterizza per il fatto di produrre contenuti che non hanno altra finalità che di essere apprezzati in quanto tali, senza finalità ulteriori: vedere un film, ascoltare un brano musicale, leggere un romanzo o un saggio filosofico. La sfera creativa, al contrario, applica i contenuti culturali ad ambiti in qualche modo legati a una funzione o utilità pratica. Un oggetto di design, se è un cavatappi, deve poter permettere a chi lo usa di aprire una bottiglia.

In un certo senso il rapporto tra cultura e creatività assomiglia a quello tra ricerca di base e applicata, anche nel senso del valore economico che ne consegue: sebbene la creatività sia generalmente più redditizia è tuttavia innegabile che una gran parte di essa avrebbe molta meno capacità di generare valore economico se non potesse attingere al serbatoio della cultura. Come sottolinea John Howkins in Creative Ecologies[1], settori redditizi e settori meno redditizi o addirittura in perdita del mondo culturale sono tutti assimilabili allo stesso ecosistema creativo.

Un ecosistema che va tutelato. Nell’epoca della riproducibilità non c’è contenuto, processo e prodotto che possano dirsi immuni alla potenza del fake.

In questo senso è diventato un’emergenza sociale ed economica (sociale perché economica) la tutela delle “Industrie Creative”.

La definizione di “Industrie Creative” è stata elaborata a metà degli anni ‘90 in Europa dalla Creative Task Force del Dipartimento Inglese per la Cultura, Media e Sport (DCMS). È utile sottolineare come da questa definizione emerga il nesso tra creatività individuale, talento e potenziale di ricchezza e crescita economico attraverso lo sviluppo della proprietà intellettuale. L’industria crea valore economico tangibile e, laddove questo accade, è necessario dare un’adeguata tutela ai processi che ne presuppongono la produzione di ricchezza. La Task Force del Governo inglese fa bene allora a chiarire i diversi livelli attraverso cui la creatività e la relativa proprietà intellettuale trasformano materia grezza in valore aggiunto. In questo modello si passa, infatti, da un primo livello di attività puramente creative (scrittura, recitazione, composizione, disegno, ecc.), a un secondo livello di attività che generalmente trasformano la componente di ideazione del primo livello in prodotti commerciabili (organizzazione, casting, adattamento, edizione...). I successivi tre livelli della catena di produzione del valore sono caratterizzati dalle attività di produzione di supporti o materie prime, fino a considerare il quinto livello della distribuzione dei prodotti a contenuto.

Più del modello inglese è tuttavia il modello americano a enfatizzare il momento della “tutela della proprietà intellettuale”. Piuttosto che di Industrie Creative gli Stati Uniti riconoscono apertamente le cosiddette “Industrie del Copyright”. L’approccio statunitense pone quindi al centro dell’analisi i diritti di proprietà intellettuale, in particolare il diritto d’autore, che sono legati alla creazione di beni o servizi. La definizione del settore delle Industrie del Copyright si struttura su quattro livelli, in base al grado di importanza che hanno i diritti di proprietà nel valore totale del bene. Al centro si collocano i prodotti totalmente basati sul copyright (editoria, film, musica, software di intrattenimento, Tv e radio). Al secondo livello si collocano quelle industrie che producono beni che in parte o per alcuni aspetti sono coperti da diritto d’autore, come la gioielleria, design e giochi. Il terzo gruppo include le industrie della distribuzione dei materiali protetti dal copyright. Nel settore più periferico, quello delle industrie copyright-related, sono compresi i prodotti che permettono di consumare i prodotti da copyright, come i lettori di CD e DVD, televisori, computer.

 

  1. Not in my name: Kant e la proprietà intellettuale come mediazione

La facilità di riproduzione delle opere intellettuali (disegni, forme, testi e così via) è tale e così capillare che risulta difficile percepire la legittimità stessa del concetto di “proprietà intellettuale”. Sconsiderate campagne sul copyleft hanno in questo senso favorito l’ulteriore credenza per cui la proprietà (intellettuale) sarebbe un furto, tanto per citare vecchie glorie anarco-rivoluzionarie. Una ragionamento fatto qualche secolo fa su queste questioni potrebbe forse tornare utile. Nell’animato dibattito che tra Sette o Ottocento impegnò numerosi illuministi sulla natura della proprietà intellettuale entra infatti di petto Kant che si occupa del problema della ristampa non autorizzata dei testi nel saggio L’illegittimità della ristampa dei libri (1785)[2].

Kant fa un ragionamento raffinato. Il libro, dice, non va considerato né nella sua materialità né come un insieme di pensieri (come invece riteneva Fichte) ma va considerato come un discorso. Come oggetto puramente materiale il libro è infatti nella piena disponibilità di chi lo acquista legittimamente, mentre i singoli pensieri espressi su carta stampata possono essere condivisi da chicchessia senza per questo pregiudicarne la proprietà di chi li ha impressi su stampa. L’autore può continuare a ritenersi proprietario dei propri pensieri anche se un altro li condivide. Kant allora sostiene l’opportunità di considerare il libro sotto un diverso aspetto, e cioè come discorso.

Secondo Kant il libro va considerato come un discorso di cui l’autore è il proprietario e l’editore un portavoce autorizzato. A questo punto se un altro stampatore pubblica quel libro ne diventa un illegittimo portavoce, una sorta di portavoce non autorizzato. L’illegittimità della ristampa sta nel fatto che qualcuno ha comunicato col pubblico in nome dell’autore senza la sua autorizzazione. L’editore è colui che ha un mandato dall’autore a parlare in suo nome.

Tesi interessante. Ora, che il digitale rende evanescente il supporto e moltiplica i “contenuti” verso pubblici indefiniti, ora che la disintermediazione sembra diventata la cifra di un’epoca, vuoi vedere che per difendere creatività e valore può tornare utile parlare alle coscienze cominciando da un kantiano “Not in my name”?




[1] John Howkins, //creative_ecologies// where_thinking_is_a_proper_job, University of Queensland Press, 2010.

[2] I. Kant, L’illegittimità della ristampa dei libri (1785), tr. it. in «Bollettino telematico di filosofia politica. Online Journal of Political Philosophy», http://eprints.rclis.org/15848/12/ar01s06.html#ftn.id2865993.

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