Autore
Indice
- Dalla complessità alla semplessità
- Ex-aptation e vicarianza
- Il fascino dell’imperfezione
- Traiettorie non lineari
- Per una didattica delle potenzialità
S&F_n. 16_2016
Abstract
VICARIANCE AND EX‐APTATION. DIDACTICAL STRATEGIES AND SIMPLEXITY
This paper intends to decline the concept of vicariance, used by Berthoz about living organism, in education philosophy and theory contest. “Simplexities” principles and properties can be analyzed on the basis of a analogical intensive methodology and, in integrating the so-called principle of ex-aptation (Gould and Vrba, 1982), the paper aims at enriching useful tools able to face the complexity.
- Dalla complessità alla semplessità
All’interno di Osservazioni sul moderno, Niklas Luhmann sostiene che la società post-moderna non può più fornire descrizioni di se stessa lineari e oggettive. Ciò che un tempo chiamavamo realtà diventa uno scenario sempre più fluido; tuttavia per Luhmann la garanzia della realtà si trova nelle operazioni che ciascun sistema effettua per essere funzionale[1]. La complessità dei sistemi produce costantemente diversità, che necessita di nuovi modelli interpretativi; è necessario cioè trovare «un livello più alto cui collocare l’identità del non-identico»[2].
Ecco perché
La sfida della globalità è dunque nello stesso tempo una sfida di complessità. In effetti c’è complessità quando sono inseparabili le differenti componenti che costituiscono un tutto (come quella economica, quella politica, quella sociologica, quella psicologica, quella affettiva e quella mitologica) e quando c’è un tessuto interdipendente, interattivo e inter-retroattivo fra le parti e il tutto e fra il tutto e le parti[3].
Probabilmente la sfida della nostra contemporaneità è ancor più sfida della “semplessità”, intesa per l’appunto come complessità decifrabile, perché fondata su una ricca combinazione di regole semplici[4].
Se la semplessità costituisce per Berthoz una proprietà fondamentale degli organismi viventi, essa lo è sia dal punto di vista delle individualità, sia da quello dei sistemi; la semplessità è dunque categoria attraverso la quale è possibile interpretare i fenomeni.
L’approccio semplesso allo studio del fenomeno didattico trova il proprio fondamento nella possibilità di considerare i sistemi viventi e quelli didattici come due estrinsecazioni di una medesima classe, quella dei sistemi complessi adattivi. La didattica, intesa come categoria dei sistemi complessi adattivi, esprime l’insieme di caratteristiche, vincoli, risorse, oggetti, soggetti che a loro volta possono essere ricondotti a specifici sistemi che interagiscono tra loro in forma non lineare.
In questa prospettiva la trasposizione didattica, come oggetto di studio, non si riduce al perimetro temporale che appare delimitare l’esperienza formativa, ma comprende necessariamente lo studio di sistemi che interagiscono e coesistono, concorrendo al processo di insegnamento-apprendimento. L’esperienza formativa, in questo senso, riassume forme e vincoli di sistemi differenti, che si intrecciano e si collegano con modalità non lineari. L’esperienza formativa risente infatti di diversi sistemi come quello: temporale; logistico; normativo; comunicativo; di accessibilità, organizzativo.
In questa visione complessa, adattiva, intersistemica del fenomeno didattico, l’aula, un insieme di aule, l’istituto che le raccoglie e un numero “n” di istituti che sostanziano il network di soggetti normativamente e socialmente preposti all’organizzazione e allo svolgimento della formazione scolastica, si configurano come un organismo vivente, caratterizzato da diversi sistemi e apparati che interagiscono, pur mantenendo una propria specificità.
Una popolazione, una specie o un complesso di specie che condividono la stessa nicchia ecologica, possono cioè configurarsi come sistemi complessi adattivi e, come tali, come istanze cui poter estendere analogicamente, ad altri fenomeni come quello didattico, comuni principi e strategie di fronteggiamento delle «perturbazioni ambientali» che tali sistemi sono chiamati di volta in volta ad affrontare. In quanto sistemi adattivi l’analogia rimane inoltre fondata sia da un punto di vista ontogenetico, laddove fissiamo a livello individuale e sincronico il nostro punto di osservazione, sia da un punto di vista filogenetico, se invece estendiamo il punto di osservazione a un livello collettivo e diacronico.
Dal punto di vista ontogenetico infatti un sistema autopoietico vive solo nel presente: pensiamo al sistema nervoso, che altro non è che una rete di interazioni, che costruiscono mappature solo nel presente, cioè nell’intervallo di tempo necessario affinché un’interazione abbia luogo. Eppure, sebbene agisca nel presente, il sistema nervoso si trasforma, dando vita a nuove configurazioni: in questo senso esso è un sistema storico, cioè evolutivo.
Ciò che l’osservatore chiama “ricordo” e “memoria” non può essere un processo attraverso il quale l’organismo confronta ogni nuova esperienza con una rappresentazione memorizzata […] ma l’espressione di un sistema modificato capace di sintetizzare un nuovo comportamento rilevante al suo attuale stato di attività[5].
Detto in altri termini, tutti i sistemi complessi, compresi quelli didattici, possono essere osservati e studiati sia nell’hic et nunc (per esempio se consideriamo le attività di una singola classe nello svolgimento di una singola lezione) sia nel loro evolversi in un periodo dato (per esempio il percorso compiuto in un anno da una determinata classe o, ancora, da un determinato network di classi).
Sulla base di questi presupposti, si configura la possibilità di considerare la vicarianza su un piano diacronico e non solo su quello sincronico, laddove in quest’ultima prospettiva viene elaborata da Alain Berthoz come una delle proprietà semplesse degli organismi viventi, proprietà di recente mutuata sul piano didattico sulla base di una metodologia analogica intensiva[6]. In particolare si avanzerà l’ipotesi che sia possibile arricchire l’inventario degli strumenti di decifrazione della complessità fornito dal fisiologo del College de France integrando, all’interno del concetto di vicarianza, il cosiddetto principio di ex-aptation o ex-attamento, in virtù del quale un carattere, precedentemente modellato dalla selezione naturale per una particolare funzione, viene cooptato per un nuovo uso.
Detto in altri termini, l’ex-aptation si configura in questa prospettiva come una possibile declinazione didattica in chiave diacronica della “vicarianza” e, più in generale, di quella proprietà degli organismi che Berthoz riconduce alla «flessibilità e adattamento al cambiamento», ovvero alla capacità di un organismo di servirsi di molteplicità di soluzioni possibili per risolvere uno stesso problema o, viceversa, di utilizzare una medesima risorsa per risolvere molteplici soluzioni. Se infatti tale riconfigurazione risulta fondata, l’ex-aptation analogicamente può risultare come un possibile strumento semplesso della didattica, strumento che esprime una delle dimensioni proprie del concetto di vicarianza.
- Ex-aptation e vicarianza
L’adattamento dei sistemi viventi presuppone la flessibilità, ossia l’impiego di soluzioni funzionali a contesti variabili in virtù della possibilità di attingere a un repertorio variegato.
Un organismo – scrive Berthoz - per risolvere un problema deve essere in grado di percepire, catturare, decidere o agire in molti modi (vicarianza) a seconda del contesto, compensare deficit, affrontare situazioni nuove[7].
È nel potenziale di più soluzioni in presenza di un medesimo problema ciò che Berthoz considera vicarianza.
Un bambino molto piccolo è in grado di imitare la mimica facciale dei genitori, in un periodo in cui non può vedere il proprio volto: da questo si deduce l’esistenza di un meccanismo innato di codifica e di trasferimento intermodale tra ciò che è percepito e ciò che è prodotto. Si ritrova qui una delle proprietà fondamentali degli organismi viventi, la vicarianza, cioè la molteplicità di soluzioni possibili per risolvere uno stesso problema, e dunque la nozione di semplessità[8].
La vicarianza è pertanto una raffinata strategia di sopravvivenza poiché consente agli organismi di imparare a vivere seguendo logiche di non linearità, ovvero di non causalità tra uno stimolo e una risposta. La biologia della complessità ci ha abituati a pensare attraverso traiettorie non lineari, istituendo il principio di “circolarità organizzativa del vivente”, che opera attraverso meccanismi di feedback loop, in un percorso nel quale A determina B e B a sua volta A, cioè gli output diventano input per nuove dinamiche. Purtroppo la vecchia logica lineare ci ha abituati a pensare in termini dialettici di “sintesi delle contraddizioni”; gli organismi cioè si evolverebbero “hegelianamente” in un graduale processo di adattamento nel quale lo sforzo è quello di abolire l’incongruenza, la contraddizione, in un tentativo di sintesi superiore.
Eppure come ci spiega Morin:
La critica della dialettica incontrollata che “superava” sempre le contraddizioni attraverso le “sintesi” mi induceva ad ammettere il carattere irriducibile delle contraddizioni fondamentali in cui s’imbatte la nostra conoscenza dei mondi fisico, biologico e umano. La razionalità pertanto deve implicare non l’eliminazione o il “superamento” delle contraddizioni, ma il riconoscimento della loro ineluttabilità[9].
Gli strumenti semplessi di vicarianza adoperati dai sistemi complessi adattivi svincolano l’obiettivo dallo strumento adoperato per raggiungerlo. Questa specifica forma della semplessità è rintracciabile in ambito didattico ad esempio nell’insegnamento dei principi formali della logica, che può anche prescindere dall’utilizzo di un approccio proposizionale ed essere invece effettuato mediante esercizi di didattica del movimento, utilizzando esperienze di organizzazione spazio-temporale come modalità alternative per esperire concetti logici.
La possibilità di svincolare lo strumento dall’obiettivo, propria dei sistemi complessi adattivi, consente quindi di allargare il repertorio degli strumenti in vista di una più ampia perimetrazione della semplessità in didattica. Questa integrazione, come accennavamo, avviene per mezzo della nozione di ex-aptation. Teorizzata nei primi anni ‘80 da Stephen J. Gould ed Elisabeth Vrba[10] la nozione di ex-aptation insiste infatti sulla necessità di svincolare strumenti e scopi a proposito delle strategie di adattamento adoperate dagli organismi viventi.
In realtà, secondo lo stesso Gould, tale concetto era stato formulato in maniera embrionale già da Nietzsche, che nell’ambito della Genealogia della morale aveva messo in evidenza che alla radice delle nostre convinzioni più sentite, come quelle morali o religiose non sta l’utilità diretta che da esse deriva, bensì l’originaria e ineludibile volontà della vita a essere e a espandersi. Esiste cioè una confusione tra il problema dell’origine storica della morale (così come di una qualsiasi funzione organica) e la sua utilità attuale, problema altrettanto centrale nella biologia evoluzionista. All’interno del testo il filosofo esprime un principio valido in biologia così come nello studio della morale:
La causa genetica di una cosa e la sua finale utilità, nonché la sua effettiva utilizzazione e inserimento in un sistema di fini, sono fatti toto caelo disgiunti l’uno dall’altro; che qualche cosa d’esistente, venuta in qualche modo a realizzarsi, è sempre nuovamente interpretata da una potenza a essa superiore, in vista di nuovi propositi, nuovamente sequestrata, manipolata e adattata a nuove utilità[11].
A questo punto Nietzsche elabora una stretta comparazione con la biologia:
Per bene che si sia compresa l’utilità di un qualsiasi organo fisiologico […] non si è perciò stesso ancora compreso nulla relativamente alla sua origine […] Da tempo immemorabile si è creduto di comprendere nello scopo comprovabile, nell’utilità di una cosa, di una forma, di un’istituzione, anche il suo fondamento d’origine, e così l’occhio sarebbe stato fatto per vedere, la mano per afferrare […] Evoluzione di una cosa, di un uso, di un organo, quindi, è tutt’altro che il suo progressus verso una meta […] bensì il susseguirsi di processi di assoggettamento, più o meno spinti in profondità, più o meno indipendenti l’uno dall’altro[12].
Nietzsche aveva cioè compreso in anticipo l’imprevedibilità dei sistemi complessi, sui quali non risulta possibile né pronosticare il futuro, né tantomeno risalire, attraverso la catena delle cause, ai fattori che li hanno determinati.
- Il fascino dell’imperfezione
Considerando nell’ambito della didattica la vicarianza descritta da Berthoz, il concetto di ex-aptation di Gould e Vrba consente allora di riconsiderare, su questo fronte interpretativo, ogni ingenua linearità nei processi di fronteggiamento messi in campo dai sistemi adattivi nei confronti delle complessità ambientali. Come sostenuto da Morin:
Nel mondo vi sono enormi abissi, e vi sono nuclei opachi (sono la stessa cosa?). In effetti, il “mondo”, il “reale” non sono completamente dialettici. La dialettica sarebbe la logica di un mondo ideale, di un mondo in cui vi sarebbero soltanto superamenti, sintesi, progressi. Il mondo è meno luminoso. Forse esiste persino un nucleo oscuro che non vede la dialettica ebbra. Questo è caotico in un senso fondamentale[13].
Il concetto di ex-aptation infatti “libera” gli strumenti considerati utilizzabili nella trasposizione didattica da scopi e modalità d’uso consolidati e, dall’altro, mettendo al centro dell’esperienza formativa sia l’unicità dello scopo che la pluralità delle modalità con le quali esso è raggiungibile. Se quindi nella vicarianza una medesima funzione può essere svolta da più strumenti, nell’ex-aptation uno stesso strumento riesce a svolgere grazie a un processo di sviluppo e di evoluzione diacronica più funzioni, in molti casi diverse da quelle che gli sono state originariamente attribuite da una logica lineare. Si potrebbe avvalorare l’ipotesi che i due meccanismi, di cui il secondo appare come una espressione del primo, testimonino con eguale intensità l’estraneità dei viventi, e degli altri sistemi complessi adattivi come la didattica, da logiche di funzionamento lineari puramente deterministiche, al cui cospetto ogni forma dovrebbe avere una specifica funzione e, viceversa, ogni funzione dovrebbe essere svolta solo da una specifica forma.
Ma vediamo più nello specifico cosa intende Berthoz per vicarianza. Per corroborare la sua tesi sulla flessibilità dei sistemi viventi, Bertohz fa un esempio che potremmo definire un “classico” della biologia evoluzionistica, riferendosi alla nascita dell’occhio e alle sue funzioni.
L’evoluzione ha costruito un repertorio di movimenti dello sguardo: riflessi di stabilizzazione, saccadi, inseguimento. Questa specializzazione è un meccanismo in cui si manifesta la semplessità. Ha anche un vantaggio notevole, che ho formulato in termini di ipotesi della sostituzione saccadica. Si può riassumere nel modo seguente: nel caso di un deficit del riflesso vestibolo-oculare, il cervello può utilizzare il sistema saccadico e l’inseguimento per creare uno pseudoriflesso, può sostituire un sistema deficitario con un altro elemento del repertorio sensomotorio. È la base di quella che viene definita rimediazione. La riabilitazione è la riparazione di una funzione deficitaria; la rimediazione, invece, è la creazione, da parte del cervello, di una soluzione che si sostituisce al sistema deficitario. È anche la definizione della vicarianza (il vicario poteva sostituire il prete assente nelle chiese cattoliche). Uno dei vantaggi della semplessità è quello di lasciare aperta questa possibilità di sostituzione. Una soluzione semplice è fissa, bisogna eseguirla senza fiatare. Una soluzione semplessa è flessibile, adattabile, ricca di possibilità in funzione del contesto, spesso più rapida a dispetto della “deviazione” che comporta[14].
È quanto sostenuto anche da Maturana e Varela nell’ambito della teoria dell’autopoiesi: ogni sistema vivente tende tenacemente al mantenimento della propria organizzazione, sempre e comunque, a prescindere dal tipo di perturbazioni che incontra. Un deficit, ad esempio, costituisce un tipo di perturbazione cui l’organismo risponde con un cambiamento di struttura, che tuttavia lasci assolutamente intatta la sua organizzazione, quindi attraverso una modalità che potremmo definire “economica”, cioè utilizzando quanto ha a disposizione.
Nella rimediazione un deficit di prestazione viene compensato dal cervello attraverso l’utilizzo di un altro elemento del repertorio sensomotorio, ovvero assoggettando una forma esistente a una funzione che originariamente non gli apparteneva, dimostrando, secondo Berthoz, che siamo di fronte a un organismo con proprietà e principi semplessi. Ciò accade anche nei fenomeni di ex-attamento, in quanto l’ex-aptation, «indica precisamente quel fenomeno per cui la funzione non precede sempre la forma»[15].
- Traiettorie non lineari
L’ex-aptation costituisce l’evoluzione di una funzione le cui proprietà consentono di agire in modo diverso e riguardano un’entità collettiva (una popolazione, o una specie) considerata su un lungo periodo, a differenza dei fenomeni di vicarianza che si riferiscono al singolo organismo considerato in un lasso di tempo circoscritto. Appare importante descrivere però come si configura questo disaccoppiamento tra forma e funzione nella prospettiva tracciata da Gould e Vrba sulla scia delle intuizioni darwiniane. Come è noto, il darwinismo è tante teorie in una, ma tendenzialmente si può senz’altro dire che per Darwin l’adattamento procede nella costruzione dell’organo attraverso una lunga serie di trasformazioni continue e molti stadi intermedi di evoluzione.
La ragione mi dice che se si può dimostrare l’esistenza di numerose gradazioni da un occhio semplice e imperfetto a uno complesso e perfetto, essendo ogni grado utile per chi lo possiede, come è certamente il caso; che se inoltre l’occhio varia sempre e le variazioni sono ereditarie, fatto altrettanto vero, e che se queste variazioni sono utili a un animale in condizioni mutevoli di vita, allora la difficoltà di ammettere che un occhio perfetto e complesso si formi per selezione naturale, sebbene insuperabile per la nostra immaginazione, non deve essere considerata come sovvertitrice della nostra teoria[16].
La difficoltà di un approccio selezionista consiste nella giustificazione del valore adattativo delle strutture intermedie. Specifiche critiche a questo approccio nello spiegare le strutture incipienti sono, per fare un esempio, quelle venute all’indomani della pubblicazione dell’Origin da Edwin D. Cope, nel 1887, e prima ancora da George Mivart[17]. A cosa può servire un abbozzo di occhio, si chiedono polemicamente Cope e Mivart? Secondo Mivart, si tratta di un falso problema perché l’abbozzo di un occhio così come quello di un’ala non è mai esistito: le modificazioni in una specie si manifestano repentinamente, tutte in una volta, a causa di una forza interna e seguendo certi piani strutturali prefissati. Darwin, dal canto suo, nel rifiutare una simile spiegazione “saltazionista” elabora l’ipotesi della cooptazione funzionale[18].
Un abbozzo di occhio non serve per vedere, nota Darwin. Ammettere il contrario, infatti, sarebbe come ammettere una struttura teleologica delle forme viventi e quindi negare il principio stocastico del processo evolutivo. Ciò che conta, nota ancora il padre dell’evoluzionismo, è che vi sia una continuità nel successo riproduttivo differenziale, cioè nell’azione della selezione naturale, non una continuità nella funzione assunta dal singolo organo. Nell’argomentazione darwiniana emerge dunque un corollario fondamentale per il nostro discorso: se le funzioni cambiano, significa che nell’evoluzione non è bene che vi sia una stabile corrispondenza “uno a uno” fra una struttura e una funzione. Gli organi possono funzionare in più modi, possiedono cioè una “capacità intrinseca” ridondante. Questo vale a maggior ragione per la specie umana, che nel corso dell’evoluzione ha sviluppato una plasticità assolutamente inedita rispetto agli altri sistemi viventi, dotandosi di un repertorio innato particolarmente complesso, che determinerebbe proprio questa versatilità organica.
Per riprendere il lessico berthoziano si può dire allora che, da un lato, dal punto di vista della vicarianza una singola funzione potrà essere assolta potenzialmente e parzialmente anche da altri organi, di modo che, all’occorrenza, uno di questi possa essere “cooptato” per nuovi utilizzi; dal punto di vista dell’ex-aptation un singolo organo potrà espletare più funzioni, alcune delle quali operative, altre soltanto potenziali, pronte per essere “reclutate” all’occasione.
Con due articoli di epistemologia prima ancora che di paleobiologia, Gould e Vrba riprendono, correggono e aggiornano l’originaria intuizione darwiniana, liberandosi dall’assillo logico di scorgere per ogni struttura una funzione e aprirsi alla possibilità storica che una stessa struttura abbia svolto in passato, così come potrà svolgere in futuro, anche funzioni diverse da quella attuale e, inoltre, che una medesima funzione possa essere stata svolta, così come potrà essere svolta, da strutture diverse. Rivalutando aspetti meno frequentati del lascito darwiniano, Gould e Vrba spiegano allora che la selezione naturale non segue alcuna linearità ma agisce in contesti di ridondanza e di cooptabilità. Con il termine “ex-aptation” viene infatti indicato ogni carattere «evolutosi per altri usi e in seguito “cooptato” per il suo ingaggio attuale»[19]. Le piume non nascono per il volo ma per garantire un buon isolamento termico all’organismo “ospite” e poi, dopo vari riutilizzi, tra cui quello di facilitare la cattura degli insetti, diventano essenziali per il volo. È chiaro dunque che le piume non sono adattamenti per il volo, anche se senza alcun dubbio servono a volare. Ma allora come definirle? Dipende dai punti di vista: sono “adattamenti” (aptations) per la termoregolazione e, successivamente, ex-aptations per il volo. Grazie a una innovazione terminologica si scopre che non tutti i caratteri selezionati hanno sempre svolto l’attuale funzione, sono cioè degli aptations, ma che molti sono degli ex-aptation, cioè strutture “riciclate” a nuove funzioni. Un esempio fra tutti, quello della capacità di leggere: la lettura infatti «non si basa in modo diretto su nessun programma genetico trasmesso da una generazione alla successiva»[20], si presume che tale capacità sia stata possibile grazie all’architettura aperta del nostro cervello, che predispone l’organismo al cambiamento, per cui «noi veniamo al mondo programmati per modificare ciò che abbiamo ricevuto dalla natura»[21]. La capacità di lettura altro non è che l’esito di un’operazione di riciclaggio neuronale che consente di utilizzare per nuove facoltà – in questo caso per il riconoscimento delle parole durante la lettura – «circuiti nervosi evolutivamente più antichi specializzati nel riconoscimento degli oggetti»[22]. Anche per Stanislas Dehaene la mirabolante capacità di lettura dell’homo sapiens sapiens, altro non è che un’operazione di riciclaggio:
Gli stessi neuroni che riconoscono la forma dei volti o delle mani possono anche modificare la loro selettività per rispondere a oggetti artificilali, come frattali o anche lettere […] Così i nostri geni codificano spesso solo un gioco di possibilità, un’architettura di “pre-rappresentazioni” […] Il nostro cervello si adatta all’ambiente culturale non assorbendo ciecamente in ipotetici circuiti vergini tutto ciò che gli si presenta, ma riconvertendo ad altro uso le predisposizioni cerebrali già presenti[23].
O, addirittura, si scopre che molti caratteri cooptati, in precedenza non svolgevano alcuna funzione, erano cioè dei non-aptation. «Le tassonomie non sono neutrali, come appendiabiti arbitrari per un insieme di concetti invarianti. Esse riflettono (o addirittura creano) diverse teorie della struttura del mondo»[24]; e, avvertono i due paleontologi-filosofi, «i concetti senza nome non possono essere adeguatamente incorporati nel pensiero».
- Per una didattica delle potenzialità
Alla luce della rivisitazione effettuata da Gould e Vrba di alcuni aspetti del neo-darwinismo
l’evoluzione non appare più come il regno di un’ottimalità adattiva imposta da una selezione naturale intesa come un meticoloso ingegnere che plasma gli organismi a proprio piacimento, bensì come il risultato polimorfico di adattamenti secondari e sub-ottimali, di riusi ingegnosi e di bricolage imprevedibili[25].
Con il concetto di exaptation viene dunque messo in discussione l’approccio rigorosamente adattazionista che vorrebbe la forma sempre e comunque come un’ottimizzazione funzionale della struttura organica all’ambiente. È invece la plasticità del materiale biologico alla base della dell’azione da “bricoleur” svolta dall’evoluzione a partire da vincoli strutturali e architetturali interni[26]. Secondo Ian Tattersall, per esempio, almeno tre grandi svolte dell’evoluzione umana corrisponderebbero a fenomeni di exaptation: 1) sembra plausibile che l’evoluzione del bipedismo non sia stata un adattamento diretto alla locomozione, ma un exaptation a partire da una funzione originaria di termoregolazione (la postura eretta diminuisce sensibilmente la superficie esposta al sole); 2) l’evoluzione dell’anatomia indispensabile alla produzione del linguaggio articolato (discesa della laringe ed espansione della faringe) potrebbe essere stata l’adattamento a una funzione respiratoria differente; 3) la stessa evoluzione delle nostre capacità cerebrali potrebbe essere stato un exaptation a partire dall’abnorme espansione fisica del cervello umano, forse innescata da un fenomeno di neotenia.
Anche molte proprietà del cervello umano potrebbero non essere adattamenti diretti, ma conseguenze collaterali, riadattamenti, cooptazioni funzionali. Vilayanur S. Ramachandran sostiene, per fare un altro esempio, che l’evoluzione delle capacità di astrazione dalle scimmie antropomorfe all’uomo potrebbe aver seguito un percorso di «conversioni funzionali»[27]. Vittorio Gallese, il neurobiologo co-scopritore dei “neuroni specchio”, fondamentali per spiegare i meccanismi di imitazione, di reciprocità e di comprensione intersoggettiva, ipotizza dal canto suo che gran parte delle funzioni connesse all’utilizzo del linguaggio umano abbiano radici adattative di tipo senso-motorio e si siano sviluppate come competenze derivate dalle prime per riadattamento o ex-attamento.
La nozione di exaptation, dunque, cogliendo il nesso fra potenzialità morfologica e produzione della novità funzionale attraverso una sorta di assemblaggio opportunista con ampi margini di sub-ottimalità, introduce nella concezione della natura un importante principio di ridondanza come “fondamento della creatività”.
Siamo di fronte a un fenomeno che, a proposito della questione della forma, Elisa Frauenfelder inquadra nella cornice del discorso pedagogico come processo di ristrutturazione autopoietica. Approfondendo il problema del tipo di reazione dei sistemi complessi alle perturbazioni ambientali, Fraunfelder chiarisce che
il discorso pedagogico può riferirsi a due parametri fondamentali, a due diverse modalità di raccordo: da una parte l’adattamento […] che fa dell’input l’occasione per il soggetto di esprimere le proprie forze adattive; […] Da un’altra parte l’input percepito come perturbazione, che provoca nel soggetto una difesa biologica e la messa in atto, da parte del soggetto che difende la propria organizzazione, di una ristrutturazione di tipo autopoietico[28].
Quel che occorre considerare è che, in quest’ultimo caso, l’ambiente non detta l’adattamento del soggetto, delle sue forme e delle sue funzioni, in un senso binario e lineare, come se l’organismo fosse un sistema passivo. L’organismo esercita invece una forza attiva sull’esterno dando vita a forme non lineari di adattamento.
Si potrebbe ipotizzare che l’esterno, che pure costituisce comunque e con forza la causa della perturbazione, venga metabolizzato attraverso un congegno certamente molto più intricato e complesso dell’operazione adattiva[29].
In realtà è sempre il sistema auto-organizzantesi a essere protagonista, laddove si esprime attraverso logiche non lineari, bensì circolari; come sostenuto da Atlan:
L’autorganizzazione è uno stato ottimale che si situa fra i due estremi di un ordine rigido, inamovibile, incapace di modificarsi senza essere distrutto, […] e di un rinnovamento incessante e senza alcuna stabilità […] ciò consente di reagire a perturbazioni casuali non previste attraverso mutamenti di organizzazione che non siano una semplice distruzione dell’organizzazione preesistente, bensì una ri-organizzazione che consenta l’emergenza di nuove proprietà. Queste nuove proprietà possono essere una nuova struttura, o un nuovo comportamento condizionato a sua volta da nuove strutture […] nuovi nel senso che a priori nulla consentiva di prevederli nei loro particolari e nelle loro specificità[30].
È esattamente ciò che avviene nell’ambito dell’apprendimento.
«Ciò che inquieta a livello pedagogico sono le modalità con cui il soggetto riesce a rispondere alle sollecitazioni» esterne. Infatti
L’aspetto più importante dei fenomeni di autorganizzazione è l’autocreazione del senso, cioè la creazione di nuovi significati […] da un livello di organizzazione a un altro livello di organizzazione. Senza la creazione di nuovi significati avremmo a che fare con ricombinazioni che non sarebbero in grado di portare all’apparizione di nuove funzioni, di nuovi comportamenti[31].
Su questa scia, dal nostro punto di vista, è possibile leggere anche la flessibilità funzionale espressa nei fenomeni di ex-aptation. La flessibilità funzionale è infatti direttamente proporzionale alla capacità degli organismi di reagire attivamente e creativamente ai cambiamenti di regole ambientali: gli organismi sopravvivono non solo grazie alla specializzazione adattativa, ma anche grazie all’imperfezione, alla molteplicità d’uso e alla ridondanza. Ciò in ambito didattico si traduce nella possibilità evolutive di specifiche funzioni, capaci di agire diversamente, con riferimento alle necessità adattive richieste dalle complessità insite nel processo di insegnamento-apprendimento. Come sostenuto da Ramachandran: «tutti noi siamo, di fatto, sinestetici», cioè ci serviamo proprio della ridondanza, del bagaglio di plasticità di cui siamo equipaggiati. A partire da tale presupposto lo studioso indiano sviluppa la «teoria dell’innesco sinestetico del linguaggio», secondo cui lo sviluppo del lessico primitivo avrebbe origine in una triplice attivazione incrociata: Ramachandran, cioè, crede che il linguaggio sia il prodotto della «combinazione fortuita e sinergica di un certo numero di meccanismi che, all’inizio, si evolsero per altri scopi», per poi essere «assimilati dal meccanismo linguistico attuale»[32].
L’esistenza di numerose gradazioni nell’uso dei gesti o dei movimenti, anche in ragione di deficit che richiedono lo sviluppo di abilità diverse, esprime anche in ambito didattico la capacità dell’uomo di riconnotare funzionalmente il proprio agire, in ragione delle situazioni problematiche e delle loro richieste che spesso non appaiono fronteggiabili attraverso attività lineari. Lo stesso, Piaget sosteneva che l’alunno che incontra situazioni inedite dal punto di vista didattico, le interpreta riciclando le proprie conoscenze pregresse, cioè le risolve a partire dal suo background. Nello stesso modo in cui gli organi possono funzionare in più modi, così la didattica deve attingere a un repertorio di funzioni derivanti dalle richieste del processo di trasposizione didattica, dalla sua complessità, richiedendo pluralità di forme di fronteggiamento che si accompagnano a un uso diverso di alcuni strumenti e di alcune modalità.
In ambito didattico il sistema propriocettivo costituisce una forma di “adattamento” (aptations) finalizzato a controllare il proprio corpo, a sviluppare il controllo motorio e la dimensione egocentrica della propria strutturazione spaziale. L’attività didattica indirizzata a soggetti non vedenti evolve la stessa funzione del sistema propriocettivo, rendendo necessaria, in ragione di una visione spaziale dell’empatia, una valorizzazione del potenziale insito nel sistema propriocettivo per costruire un sistema di riferimento topologico, in assenza di riferimenti visivi.
[1] N. Luhmann, Osservazioni sul moderno, tr. it. Armando, Roma 1992, p. 91.
[2] Ibid., p. 12.
[3] E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Cortina, Milano 2000, p. 6.
[4] A. Berthoz, La semplessità, tr. it. Codice, Torino 2011.
[5] H.R. Maturana, e F.J. Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, tr. it. Marsilio, Venezia 1980, p. 85.
[6] M. Sibilio, La didattica semplessa, Liguori, Napoli 2013.
[7] A. Berthoz, op. cit., p. 15.
[8] Ibid., p. 40.
[9] E. Morin, I miei demoni, tr. it. Meltemi, Roma 1999, p. 184.
[10] Cfr. S.J. Gould e E. Vrba, Exaptation, a Missing Term in the Science of Form, in «Paleobiology», 8, 1, 1982, pp. 4-15.
[11] F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, tr. it. Adelphi, Milano 1999, p. 66.
[12] Ibid., p. 67.
[13] E. Morin, Il vivo del soggetto, tr. it. Moretti&Vitali, Bergamo 1995, p. 63.
[14] Cfr. A. Berthoz, op. cit.
[15] T. Pievani, Exaptation. Il bricolage dell’evoluzione, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 142.
[16] Ch. Darwin, L’origine delle specie (dalla sesta edizione del 1872), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1967, p. 239
[17] G. Barsanti, Una lunga pazienza cieca. Storia dell’evoluzionismo, Einaudi, Torino 2005, pp. 130-150.
[18] Cfr. C. Fuschetto, Darwin teorico del postumano. Natura, artificio, biopolitica, Mimesis, Milano 2010, pp. 25-31.
[19] S.J. Gould - E. Vrba, in T. Pievani, op. cit., p. 15
[20] M. Wolf, Proust e il calamaro, tr. it. Vita&Pensiero, Milano 2009, p. 17.
[21] Ibid., p. 11.
[22] Ibid., p. 18.
[23] S. Dehaene, I neuroni della lettura, tr. it. Cortina Editore, Milano 2009, p. 7.
[24] T. Pievani, op. cit., p. 8.
[25] Ibid., p. 117.
[26] F. Jacob, Evoluzione e bricolage, tr. it. Einaudi, Torino 1978.
[27] V.S. Ramachandran, Che cosa sappiamo della mente, tr. it. Mondadori, Milano 2004.
[28] E. Frauenfelder, Pedagogia e biologia. Una possibile “alleanza”, Liguori, Napoli 2001, p 92.
[29] Ibid., p. 93.
[30] H. Atlan, Complessità, disordine e auto creazione del significato, in G. Bocchi, M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Mondadori, Milano 2007, p. 142.
[31] Ibid., p. 143.
[32] V.S. Ramachandran, op. cit., p. 81.