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La vita e l’utile: la parabola della scrofa

Autore


Delio Salottolo

Università degli Studi di Napoli - L'Orientale

Indice


  1. La vita e l’utile: un sorta di paradigma
  2. Culto della persona e credenza nella libertà
  3. La vita è lusso
  4. La parabola della scrofa

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S&F_n. 17_2017

Abstract


Life and The Useful: the Parable of the Sow


The notion of life and the notion of utile represent a sort of paradigm of modernity: the conflict that invests them can be deconstructed to show the trend lines of our time. The individual/property/contract triad undergoes a fundamental decentralization that leads to a rethinking of political categories of modernity. La limite de l’utile, the invention of the human person and the multiple overflow of life, even in terms of belief in freedom, are the essential keys to this path, according to seraphic Durkheim and extreme Bataille.


  1. La vita e l’utile: una sorta di paradigma

È possibile affermare, in via preliminare, che i due veri meccanismi fondamentali per il funzionamento della modernità siano da un lato il dispositivo della vita e dall’altro quello dell’utile. “Funzionamento” è parola adatta, perché di “funzione” e di “macchina” si parla, la contraddizione della modernità essendo anche e soprattutto quella tra libertà dell’individuo, sempre invocata e/o promessa, e funzione sociale, ingranaggio, rappresentazione del singolo come “strumento” malgré lui. Inoltre, si può aggiungere che la loro origine – vita e utile – sia comune e il loro conflitto patente: l’insieme della macchina di pensiero moderna funziona esattamente così, attraverso il conflitto tra queste due forme che determinano la visione del mondo nella nostra era. Si tratta sicuramente di affermazioni eccessivamente perentorie, eppure, a monte della dicotomia moderna tra individuo e collettività, fatto e valore, comunità e società, utile e lusso, debito e credito, contratto e violazione, obbligazione e libero arbitrio, sembra esservi, in quell’impasto auto-contraddittorio di cui è formato il pensiero autoriflessivo della modernità sempre conteso tra natura e cultura, sempre diviso tra tribunali della ragione ed evasioni concordate, è possibile affermare che vita e utile rappresentino la chiave dialettica (senza sintesi) per cercare di penetrare, per i buoni di cuore, il mistero umano, o, per i più scaltri e maliziosi, per provare a gestire l’umano – laddove per “gestione” deve intendersi un doppio lavoro: uno “sotterraneo” di costruzione di una morale condivisa e fino a un certo punto costrittiva (proprio nel senso più criticabile che assume il concetto nell’opera durkheimiana – dunque: senza che il “soggetto” se ne renda conto), uno più “lampante” di definizione dei ruoli, delle caselle, dei posizionamenti, attraverso l’organizzazione spazio-temporale, dell’umano in questo (e nell’altro) mondo. Libertà (paradossale) e funzione, come si diceva poco più sopra.

L’utile, dunque, è alla base della considerazione moderna dell’azione morale e individuale (lo è ancora oggi come senso comune che, ovviamente, non è più, e non potrebbe esserlo, senso del comune[1]) e si connette perfettamente – o, per meglio dire, cerca di imporre la sua connessione che tanto perfetta non sembra sempre essere – alla dimensione della vita nella misura in cui definisce la sua verità a partire dall’irriducibilità della scelta nella natura umana; l’operatore fondamentale è la natura, dunque: la vita, la quale viene utilizzata come il principio alla base della scelta individuale (razionale o meno che sia, questo è un problema, a livello di dispositivi, comunque secondario), rappresenta la forma incarnata del principio dell’utile all’interno del corpo umano. Senza scomodare gli apologeti più moderni e avanzati della teoria utilitarista, basta – con gesto foucaultiano[2] – raccontarne l’origine conflittuale (dunque: genealogica) in quel lasso di tempo e in quel mondo specifico che è stata la realtà anglosassone tra XVII e XVIII secolo: Locke sarebbe stato il primo a definire il “soggetto”, non a partire da una certa “anima” o “cogito”, non mediante un dispositivo di interiorizzazione della colpa, non muovendo da un ideale poco definibile di libertà, bensì come colui che si trova dinanzi a delle scelte che sono del tutto individuali e la cui determinazione è completamente irriducibile e intrasmissibile. Irriducibile nella misura in cui l’homo oeconomicus, che andava nascendo nella specifica morfologia sociale (e spirituale) dell’Inghilterra del tempo, non potrà che fermarsi, nella valutazione della sua scelta, al punto in cui essa sia piacevole o dolorosa – utile o dannosa; intrasmissibile nella misura in cui il soggetto d’interesse non potrà mai trasferire il senso della sua scelta a qualcun altro perché a essere messa in campo è un’individuale relazione tra passioni. Che piaccia oppure no, il tutto viene esemplificato alla perfezione da Hume, quando afferma che non sarebbe poi del tutto folle preferire la distruzione del mondo intero alla scalfittura di un mio singolo diritto[3]. La morale che ne deriva – con tutti gli aggiustamenti provvidenziali delle mani invisibili varie ed eventuali – è sicuramente naturale, nella misura in cui però la natura viene definita in un certo specialissimo modo. L’antropologia è (ovviamente) alla base di ogni possibile concezione morale e la morale utilitaristica possiede un’antropologia naturale molto ben definita: costruita a tavolino a partire da una natura umana, assolutizzata pur essendo ideologicamente quella culturale del capitalismo nascente, e proposta in alternativa, nella costruzione dell’immagine dell’uomo, a quella del soggetto di diritto. Da qui la derivazione (anch’essa) naturale del diritto di proprietà privata, del contratto e di un certo tipo di giustizia: il “soggetto di diritto”, se vogliamo più pre-moderno che moderno, può inquadrarsi soltanto all’interno di un soggetto di interesse – anzi, il soggetto di diritto, in quanto soggetto della rinuncia e trascendentale, deve divenire soggetto attivo e immanente, laddove l’immanenza è il suo interesse e la meccanica della scelta può essere serenamente egoista e calcolatrice.

E poi c’è la nozione di vita, anch’essa anfibia e complessa, che, al di fuori del sistema dell’utile all’interno del quale è stata inquadrata e utilizzata (si veda soprattutto Spencer, per intendersi), presenta un quadro differente e diviene sempre di più l’operatore anti-utilitarista per eccellenza, ricoprendo con il suo quadro di riferimento metafisico, la visione moderna del mondo. È possibile dire che il suo principio è l’eccedenza, o, per meglio dire, che il suo ruolo nel sistema di pensiero della modernità sia quello dell’eccedenza (anche l’utile potrebbe essere considerato eccedente, in quanto il principio del piacere eccede il principio di realtà – questa la sua intima contraddittorietà e la sua utilizzabilità ad ampio raggio). Innanzitutto, il percorso che va, semplificando al massimo, da Schopenhauer a Freud (passando chiaramente per quell’anomalia antisistematica rappresentata da Nietzsche e, ovviamente, per il bergsonismo in tutte le sue salse più o meno eterodosse[4]) introduce un’idea di natura (umana e non solo) che opera al di là del principio dell’utile – l’operatore, nell’umano, è il conflitto conscio/inconscio (nella natura, al di là della volontà schopenhaueriana, potrebbe essere la durata bergsoniana[5] o l’anti-utilitarismo funzionale di Portmann[6]) e la vita diviene l’eccedenza nella singolarità. In secondo luogo, il percorso che ha svolto la biologia moderna dal fissista anomalo Cuvier[7] all’evoluzionista Darwin fino a Portmann e alla genetica mostra da un lato l’irrazionalità della natura (o, per meglio dire, l’irriducibilità a un tipo di razionalità umana, troppo umana) e dall’altro il dispositivo fondamentale dell’errore nella determinazione del fatto biologico[8] – la vita, dunque, come eccedenza anche rispetto alla verità e, va da sé, ininquadrabile all’interno di una cornice razionalista. In terzo luogo, il percorso delle scienze umane e sociali, discipline che hanno sempre da ragionare intorno alla propria possibile/impossibile epistemologia, descrive, con l’antropologia e la sociologia, l’irriducibilità della vita a uno schema puramente unitario (la comparsa dell’Altro che non viene solo guardato ma ci guarda), razionale (la figura trascendente del sociale) e utilitario (non sempre si sceglie il piacevole): la vita si determina anche (in Mauss, ad esempio, e per tanti poi) come eccedenza simbolica. Infine, la questione cosiddetta “biopolitica”: la gestione della vita, cioè di quella eccedenza che muove la dimensione sociale e che ne può rappresentare l’elemento sfuggente[9], e che necessita di controllo e indirizzamento – dalla Rivoluzione Francese, passando per i problemi connessi a ogni welfare state, e arrivando all’annosa e irrisolvibile questione dei diritti umani, non può che leggersi con la lente della vita come eccedenza da gestire (forse: immunizzare[10]).

Insomma, Darwin poteva essere letto in chiave utilitarista almeno fino a quando non si delineava una configurazione inconscia dell’umano e lo stesso dovrebbe potersi dire per ogni teoria utilitarista e razionalista dell’azione, che partono sempre dal presupposto che la scelta sia non solo individuale e irriducibile ma realmente (appunto!) scelta dal soggetto d’interesse. La moltiplicazione dei piani “morali” – se ci è concessa quest’espressione – connessa all’invenzione o scoperta dell’inconscio (individuale, sociale, strutturale) ha svelato, dal punto di vista delle scienze sociali, con una buona iniezione di genealogia nietzschiana, quella che possiamo chiamare – richiamando allo stesso tempo l’autorità di Durkheim – il culto della persona e la credenza nella libertà. Il breve percorso che intendiamo seguire muove proprio da Durkheim, partendo dalla maniera con cui decostruisce la santa trinità naturale di soggetto/proprietà/contratto, a Bataille, come colui che ha cercato di definire, non senza un economicismo sotteso[11], un’economia generale della natura a partire dal lusso e dall’eccedenza. Ci troveremo, insomma, nei luoghi più conflittuali della modernità. Conflittuali e, al momento, rebus sic stantibus, irrisolvibili. 

  1. Culto della persona e credenza nella libertà

La pubblicazione recente (almeno in Italia) delle Lezioni di sociologia di Durkheim getta davvero una luce nuova sul pensiero politico, oltre che sociologico, che ha animato l’esperienza dello scienziato sociale francese, rappresentando in più una sorta di “guida” per orientarsi all’interno dei tre presupposti intorno ai quali si è costruito il pensiero politico della modernità, quella che abbiamo già definito la santa trinità rappresentata dall’esistenza naturale e dell’interconnessione (altrettanto naturale, se non destinale) tra soggetto, proprietà e contratto. Il punto di partenza di Durkheim è immediatamente chiaro e può riassumersi in tre proposizioni (all’interno delle quali, come vedremo, si annidano le contraddizioni – produttive e necessarie – di ogni sociologia). Innanzitutto, la morale è sempre sociale per cui «c’è una sola potenza morale e, di conseguenza, comune, che sia superiore all’individuo e che possa legittimamente dettargli legge: è la potenza collettiva» e soltanto «nella misura in cui l’individuo è abbandonato a se stesso, nella misura in cui è liberato da ogni costrizione sociale, è affrancato anche da ogni costrizione morale»[12]; si tratta già di un decentramento molto importante: l’individuo, per dare senso al proprio comportamento morale (o a-morale, ovviamente), non parte mai da se stesso (da una presunta anima, natura umana e così via) ma il tribunale al quale deve rendere conto non è la legge morale dentro di sé, ma la costrizione sociale fuori di sé. In secondo luogo, l’umanità comune subisce sempre un meccanismo di differenziazione da parte del sociale: la società introduce distinzioni che possono muovere da differenze di carattere naturale (uomo/donna, adulto/bambino) o sociale, cioè fondamentalmente dalla definizione di una serie di ruoli e funzioni che una determinata organizzazione predispone; ancora un decentramento, dunque: è il sociale, anche in questo caso, a predisporre e determinare non solo ciò che è appunto sociale, ma anche ciò che si presenta come naturale, come differenza (in senso qualitativo e quantitativo) naturale – Lévi-Strauss non è poi così lontano[13]. Infine, l’anomalia morale del capitalismo come compito politico della sociologia: si tratta delle conseguenze derivanti da quel processo che è stato definito da Durkheim come «divisione anomica del lavoro»[14], che da un lato descrive le specifiche relazioni tra gli individui sociali nel capitalismo avanzante e avanzato, e dall’altro si determina essenzialmente come “costrizione” patologica[15]; il sociologo francese ritiene che questa forma anomica di divisione del lavoro sia vissuta da chi la subisce come un destino incomprensibile, secondo il quale i più deboli, economicamente e culturalmente, si trovano a essere gestiti e organizzati dai più forti senza possibilità reale di “contrattazione” e soprattutto senza la possibilità di accesso a una morale sociale condivisibile e accettabile, dato il presupposto del “piacevole” (utile) come determinazione della propria più profonda natura (vita). La patologia starebbe proprio in questo: l’individuo, preso nelle maglie della divisione anomica del lavoro, non può leggere la costrizione come “morale sociale”, ma soltanto come obbligazione esterna, senza possibilità di accesso ad alcuna forma di solidarietà che tenga insieme il corpo sociale. Anche in questo caso, il decentramento è notevole: al di là se l’utile sia o meno la molla più naturale dell’azione degli individui, una morale utilitaristica non può creare consenso sociale, dunque sviluppa uno stato patologico e una crisi permanente.  

Se è vero, dunque, come sostiene Caillé, che il senso profondo della nascita della sociologia sia in connessione stretta con una necessità di descrizione del sociale in chiave anti-utilitaristica[16], è anche vero che la dimensione di eccedenza della vita risulta essere, se non tematizzata all’interno della riflessione durkheimiana, sicuramente profondamente sentita. I due dispositivi da analizzare, secondo il sociologo francese, sono quelli del culto della persona e della credenza nella libertà. Il processo che Durkheim decostruisce in maniera molto efficace – e che rappresenta un’impostazione di metodo che, poi, avrà grande fortuna in tutta la riflessione francese successiva[17] – è quello che ha portato all’enfasi sulla protezione della vita: ancora una volta, occorre procedere dal punto di vista della costruzione di una morale che tende all’universalizzazione o, per meglio dire, che pretende l’universalizzazione. Secondo Durkheim, infatti, l’analisi di ciò che possiamo definire morale si gioca su più livelli che si determinano a partire da differenti scale sociali: si va, allora, dalla morale familiare a quella professionale a quella civica e infine alla morale umana, la più universale di tutte (va da sé che Durkheim è un uomo del suo tempo e che, dunque, parte dalla dimensione familiare come il nucleo più originario – importante, però, sottolineare che la sua analisi è sempre storico-sociale e mai naturale). Il cosmopolitismo moderno e la definizione sempre più universalizzante dell’impegno morale dell’uomo nei confronti degli altri uomini, in quanto uomini, non è letto da Durkheim come una “conquista” della modernità o come lo svelamento di una verità morale più profonda, bensì come un processo storico-genealogico di cui si possono ricostruire tutti i passaggi. La persona, l’immagine dell’individuo a partire dalla quale si costruisce la teoria morale e, ovviamente, etico-politica moderna e che sfocia naturalmente nell’individualismo se non nell’utilitarismo, nasce a partire da particolari trasformazioni sociali i cui sintomi si possono ritrovare nel diritto penale (come di consueto in Durkheim si parte dalla penalità, in quanto è la “costrizione” il senso del sociale) e la cui origine è strettamente “materiale” o morfologica (verrebbe da dire “materialista”): la penalità, a partire dalla differenziazione e dalla divisione del lavoro che “individualizza” le prestazioni e dunque le persone, è divenuta sempre più attenta ai reati contro la persona (soprattutto se concernono la proprietà – anzi, la vita diviene la proprietà fondamentale) e, in questo senso, rappresenta il sintomo fondamentale di una trasformazione; certo, poi, anche il Cristianesimo ha dato il suo contributo, sia per il suo universalismo (ecumenismo e proselitismo) che per la concezione della vita come dono singolare, avendo in più dato il colpo di grazia al culto dello Stato sostituendolo con quello della persona. Da un punto di vista teorico e, se si vuole, epistemologico più generale, la riflessione di Durkheim sembra costantemente in bilico, su passaggi di questo tenore, tra un’interpretazione materialista (con accenti marxisti) e una weberiana – almeno secondo gli schemi interpretativi classici; la scoperta resta, però, determinante, anche dal punto di vista metodologico: non c’è alcuna precedenza logica dell’individuo/persona sul sociale e non c’è alcuna determinazione naturale dalla quale il sociale deriverebbe come un fatto di natura. E così, una volta dimostrato che l’enfasi sull’individuo è un fatto storico-culturale e non un disvelamento e che la vita è un operatore di tale trasformazione, Durkheim ha gioco facile non solo a negare tutta la trafila che caratterizza il dispositivo dell’utilitarismo, ma anche a dimostrare che la libertà (naturale e assoluta) non è altro che una credenza. E così, anche se è impossibile soffermarsi a lungo nei limiti di questo scritto, la proprietà privata rappresenta sempre e comunque una forma di sottrazione di un bene dalla proprietà collettiva (una sorta di “la proprietà è un furto” di proudhoniana memoria, ma ben più raffinato) – il processo è sempre storico-genealogico e muove dalla distinzione durkheimiana tra sacro e profano; la proprietà privata, attraverso un lungo percorso[18], è stata sacralizzata e, in questo senso, sottratta all’utilizzazione comune, mediante un processo che muove proprio da una trasformazione contemporanea della morfologia sociale e delle forme elementari della religione. La stessa libertà, poi, è una credenza, nella misura in cui essa non può che determinarsi a partire dalla morale che domina il sociale: si può essere più o meno liberi a seconda delle tipologie di “costrizioni”, ma una libertà naturale non ha senso perché gli uomini sono sempre inseriti all’interno di sistemi di obbligazione che li determinano (fino a un certo punto) nelle scelte, qualunque esse siano. Manca un po’ il respiro, ma Durkheim è sempre serafico nelle sue de- e ri-costruzioni.

La scoperta fondamentale della sociologia durkheimiana, al di là della dimensione di “costrizione”, sta tutta nella definizione del sociale come rappresentazioni collettive[19] che eccedono i limiti dell’individualità: il passaggio successivo sarà svolto da Mauss (ma in maniera molto durkheimiana), il quale passerà dal concetto di rappresentazione a quello di simbolo[20]. L’eccedenza della vita umana, dunque, sta tutta nella costruzione di un mondo simbolico: da qui il passaggio dalla teoria dello scambio a quella sul dono e, soprattutto, la definizione del simbolismo come ciò che manifesta il particolarissimo modo eccedente dell’esistenza umana (nonché dell’operare della nozione di vita nella modernità). 

  1. La vita è lusso

Qualunque cosa si pensi dell’utilitarismo, è un dato di fatto che l’economia, il suo funzionamento e il suo ruolo nella definizione di un mondo umano, sia la vera ossessione della modernità. E, del resto, non potrebbe essere altrimenti. Georges Bataille, oltre a essere il vero “cattivo maestro” della filosofia francese a cavallo tra la prima e la seconda metà del XX secolo, rappresenta anche colui che ha portato alle estreme conseguenze – estreme appunto, trasgressive e maledette – il discorso serafico della sociologia francese. Nutritosi di Durkheim e, soprattutto, di Mauss, ossessionato dalle parti maledette dell’esistenza umana e aspirante sacrificatore, Bataille è riuscito a costruire il più complesso sistema anti-sistematico della tarda modernità: Derrida lo ha definito un hegelismo senza riserve, e c’è davvero qualcosa di hegelianamente anti-hegeliano nella sua riflessione[21]. Il suo anti-sistema, comunque, è la più netta rappresentazione – per noi che lo osserviamo attraverso le lenti di un altro mondo, quello che ci ha consegnato la fine del secolo breve[22] o del lungo XX secolo[23] – di quel conflitto patente tra vita e utile. L’anti-utilitarismo sistematico del filosofo francese si determina nella sua forma più volutamente delirante – e proprio, per questo, chissà! più efficace di quanto si possa credere – all’interno di alcuni passaggi contenuti nella prima parte di un opera incompiuta (incompibile? – se ci si perdona il neologismo) intitolata proprio La parte maledetta:

Partirò da un fatto elementare: l’organismo vivente, nella situazione che i giochi dell’energia determinano sulla superfice del globo, riceve in teoria più energia di quanta sia necessaria al mantenimento della vita: l’energia (la ricchezza) eccedente può essere utilizzata per la crescita di un sistema (per esempio di un organismo); se il sistema non può più crescere, o se l’eccedenza non può per intero essere assorbita nella sua crescita, bisogna necessariamente perderla senza profitto, spenderla, volentieri o meno, gloriosamente o in modo catastrofico[24].

Il “sistema” batailliano – fascinans e tremendum – si compone poi in questo modo, partendo dall’assunto che l’economia “ristretta” pone l’accento sulle necessità e l’utile, muovendo dall’essere vivente particolare, mentre l’economia “allargata” dovrebbe muovere dal movimento della materia vivente in generale. Innanzitutto, la descrizione di quelli che vengono definiti i tre lussi della natura (laddove “lusso”, ovviamente, sta per mescolanza di “dispendio” e “piacevole”): in primo luogo, la manducazione – si tratta della forma di “spreco” più generale: per quale motivo, infatti, gli esseri viventi si divorano a vicenda, se non per disperdere, annullare, cancellare, l’eccedenza vitale che riempie il mondo?; in secondo luogo, la morte – si tratta di una forma di “dispendio” molto originale: cancellare e distruggere, per poi poter lasciare spazio a nuove creazioni e, del resto, sta proprio in questo la sua complessità “esistenziale” per l’animale uomo, perché «il lusso della morte […] viene da noi considerato allo stesso modo che quello della sessualità, dapprima come una negazione di noi stessi, poi, in un improvviso rovesciamento, come la profonda verità del movimento di cui la vita è l’esposizione»[25]; infine, la riproduzione sessuata – si tratta della forma di “lusso” più inutile (anti-utilitaria): perché la natura ha immaginato una riproduzione effettuata con così grande dispendio di energie se non per consumare, dal momento che una riproduzione per scissione sarebbe preferibile, forse anche più utile? Al di là degli eccessi di pensiero dell’eccedente Bataille, sembra chiarirsi come sia proprio in uno dei suoi esponenti più estremi che la modernità raggiunge, se non un’autocoscienza, perlomeno una certa ed efficace limpidezza.

Il dispositivo di pensiero batailliano inquadra, allora, all’interno di questa dinamica, una serie di questioni concernenti l’umano ed è proprio su questo punto che occorre effettuare una brevissima riflessione di metodo: la formazione filosofica batailliana si deve, soprattutto, a Kojève, il quale ha effettuato una mediazione dell’hegelismo in territorio francese molto eterodossa, ma almeno altrettanto feconda. In Bataille, allora, c’è una continua oscillazione tra un’idea (tutta hegeliana) di soglia e di frattura tra mondo naturale e mondo umano e quella di una possibile/impossibile continuità tra i diversi regni della “realtà”: all’interno di opere come La parte maledetta (che era ritenuta fondamentale dallo stesso pensatore), si cerca così di costruire un sistema di continuità tra natura e uomo, a partire dal conflitto tra utile e vita. Se prima abbiamo fatto cenno a un tema heideggeriano per eccellenza – la morte come profonda verità, diceva Bataille, pensando sicuramente al filosofo tedesco – è interessante notare come il filosofo francese analizzi la questione della “tecnica” all’interno del suo “sistema”: l’attività umana di trasformazione del mondo (la tecnica nel suo significato più generale) è una facoltà che permette l’accrescimento delle risorse di energia disponibile, mediante l’aggiunta in natura di dispositivi e apparecchi di materia inerte, ma moltiplicatori potenziali di vita; insomma un modo di moltiplicare lo spazio e il movimento di crescita della materia vivente con conseguenti e accresciute possibilità di dispendio. Il più originale vitalismo della modernità, quello batailliano, si esprime in questi termini: «non può esserci angoscia se non da un punto di vista personale, particolare, radicalmente opposto al punto di vista generale, fondato sull’esuberanza della materia vivente nel suo insieme» per cui «l’angoscia è vuota di senso per chi trabocca di vita e per l’insieme della vita che è per essenza un traboccare»[26].

E così il conflitto tra utile e vita viene ontologizzato da Bataille, fino a divenire l’arena nella quale si compie tutto ciò che riguarda l’umano sin dal suo primo apparire. Senza soffermarci troppo e rimandando a un altro scritto[27], possiamo affermare che l’arte, la religione e la sessualità siano per eccellenza i “luoghi” umani della contraddizione, in quanto rappresentano le forme di dispendio di energia inutile all’accrescimento di un sistema. Anzi, come essi siano i luoghi più profondamente umani: l’uomo, secondo Bataille, sarebbe attraversato da una contraddizione fondamentale che lo porta da un lato a definire e coltivare il mondo profano dell’utile (che si realizza nelle opere) e che “cosalizza” la realtà, facendola divenire pura oggettualità da plasmare e “utilizzare”, e dall’altro a ricercare la verità di se stesso in forme di espressione del mondo sacro dell’eccedenza vitale, così come si realizza nel “lusso” connesso alla religione[28] (la cui manifestazione più “vera” è il sacrificio), all’arte[29] (la cui origine sarebbe una sorta di scissione interiore dell’umanità primitiva come risposta alla cosalizzazione del mondo) e all’erotismo[30].

L’elemento più interessante, comunque, e che sancisce la vera complessità e, se vogliamo, profonda malinconia del vitalismo batailliano, è che la vita dell’uomo è caratterizzata profondamente da due movimenti. Il primo – unico e reale – è quello interno al mondo profano e dell’utile, ed è la discontinuità il dispositivo fondamentale: l’uomo è appunto uomo in quanto non vive più in perfetta continuità con il mondo naturale (come l’animale), ma in profonda discontinuità, la quale soltanto ha permesso la produzione del mondo umano, il mondo della tecnica (di cui si parlava sopra) – l’umanità inizia marxianamente con il lavoro, questo è un punto da tenere presente, e il lavoro è già sempre un’attività utilitaria (utilitaristica?). Il secondo è la forma reattiva che assumono le modalità di espressione umana più profondamente anti-umanistiche (nel senso precedente): l’arte, le forme elementari della religione, la sessualità (deviata dalla necessità riproduttiva) rappresentano una sorta di malinconia della continuità perduta, un tentativo di accedere a un mondo impersonale e anti-individuale, dove l’agire e la produzione non abbiano un senso utilitaristico. Si tratta, comunque, di una malinconia e la caratteristica di queste forme è il fallimento: la continuità non potrà mai più essere attinta.

La differenza tra il serafico Durkheim e l’eccedente Bataille sta tutta in questo passaggio: se Durkheim è stato il primo, nel bene o nel male, a identificare, come fondativa nel discorso religioso e nell’organizzazione sociale della prima umanità, la separazione tra sacro e profano, ecco che, nel sistema batailliano, esso diventa il fulcro del senso dell’umano, portato alle estreme conseguenze, all’interno di un vitalismo anti-utilitaristico già sempre per definizione (o per hegelismo, se si vuole) fallito.        

  1. La parabola della scrofa[31]

Bataille chiama parabola della scrofa il dispositivo di pensiero utilitaristico che trova, come del resto mostrato già da Weber nella sua opera più conosciuta al grande pubblico[32], la sua forma di espressione prediletta nel famoso discorso di Benjamin Franklin, il quale sottolineava come il “dispendio” di cinque scellini, senza investimenti per cui possano diventare sei e poi sette e così via, sia come uccidere una scrofa, la quale non potrà più generare nuovi maialini.

È davvero possibile l’uscita dalla “parabola della scrofa”? È chiaro che il dispositivo di funzionamento della riflessione occidentale ponga due possibili vie d’uscita a questa questione, che, però, risulta essere molto più articolata e complessa di quanto si potesse ritenere: se la questione dell’utile riguarda il mondo profano e se dunque rappresenta l’unico modo possibile dell’esistenza umana – uomo diventato tale proprio per questa attitudine – allora la questione viene spostata sul versante metafisico e soprattutto diviene un problema di costante antropologica, per cui fuoriuscire da essa significherebbe né più né meno che smettere di essere uomini. O di esserlo in questo modo: un altro essendo, però, imprevedibile. Insomma, si tratta di uno di quei passaggi in cui Bataille assomiglia a una sorta di Heidegger alla francese: una costruzione di pensiero a partire da una sorta di destino iniziale, originario, ancestrale che colpisce l’umano. Eppure, è chiaro come vi sia – ed è qui che Durkheim supera ante litteram Bataille – una sorta (perlomeno) di accelerazione nella modernità e non solo una costante antropologica: il sociologo risulta essere più sottile nella misura in cui separa la questione dell’utile da quella più generale della tecnica e del lavoro, anche se, nella sua genealogia del diritto di proprietà, il ricorso all’autorità del sacro e alle forme elementari (e sempre presenti) della religione pone indubbiamente qualche problema di posizionamento.

E così, la modernità più avanza e più risulta essere sgomenta proprio a partire da questa conflittualità tra vita e utile, soprattutto attraverso il ritornare dei campi nella nostra post-modernità (il fenomeno di contenimento dei flussi migratori) o nella rappresentazione sempre più realistica di vite umane come scarti[33]: ed è possibile che sia proprio all’interno di essa, che si annidi il fallimento (storico, non definitivo) dell’opzione socialista ed è, paradossalmente, nel pensiero di un eccellente economista che questa questione – seppur in altri termini – viene tematizzata. Quando Arrighi parla di Adam Smith a Pechino[34] intende dire proprio questo: la necessità di una forma di equilibrio, tra le forme espansive del capitale e i limiti della terra. Come a dire che deve venire un certo momento in cui tra utile e vita, investimento e dispendio, ci sia una conciliazione: ne potrebbe andare della sopravvivenza dell’uomo sulla terra. Dell’uomo e dell’utile chiaramente, con tutte le loro contraddizioni, non della vita, che continuerà ad eccedere sempre e comunque e in forme che non conosceremo.

 


[1] Cfr. R. Bonito Oliva, Vita ordinaria e senso del comune. Per un’etica dell’opacità, LED, Milano 2016. Un doppio passaggio può essere utile citare: «Il senso comune come abitudine, forma rigida e oscura smorza il senso del comune come responsabilità verso la forma umana della vita, verso il mondo in forme cristallizzate nella pretesa uguaglianza di un’umanità razionale» ed è «quando “mondo” si presenta come spazio disponibile perdendo il profilo ideale dell’orizzonte per farsi spazio di attraversamento e appropriazione ne va dell’essere in comune dell’essere umano con il mondo, dell’individuo con l’altro individuo, in definitiva dell’umano con se stesso, nel determinarsi di un’astrazione da- e di una alienazione de- la condizione umana» (p. 49; p. 41).

[2] Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), tr. it. Feltrinelli, Milano 2005, pp. 217-258.

[3] Cfr. D. Hume, A Treatise of Human Nature (1739-1740), Clarendon Press, Oxford 1896, cit. in M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 222.

[4] Cfr., sull’operatività del bergsonismo al di fuori di una cornice spiritualista, G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi (1966), tr. it. Einaudi, Torino 2001; e G. Deleuze - G. Canguilhem, Il significato della vita (2004), tr. it. Mimesis Edizioni, Milano 2006.

[5] Cfr. H. Bergson, L’evoluzione creatrice (1907), tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2002.

[6] Cfr. A. Portmann, La forma degli animali. Studi sul significato dell'apparenza fenomenica degli animali (1960), tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2013. Si tratta di un saggio che potrà far storcere il naso a più di un biologo moderno, ma è interessante notare un aspetto, che richiameremo nel corso della trattazione in questo breve saggio, e cioè il fatto che la “forma”, squalificata nella tradizione occidentale sin dai tempi (ovviamente) di Platone, come apparenza al di là della quale deve guardarsi per trovare la “verità” (che ama nascondersi al di sopra), e anche in biologia, dove la verità è nei tessuti (ama nascondersi al di sotto), sia un operatore anti-utilitaristico nell’interpretazione della costruzione del corpo biologico: la natura ama mostrarsi, dice Portmann, e lo fa senza alcun secondo fine (l’utile).

[7] Cfr. M. Foucault, La collocazione di Cuvier nella storia della biologia (1970), tr. it. in Il sapere e la storia. Sull’archeologia delle scienze e altri scritti, ombre corte, Verona 2007.

[8] Cfr. G. Canguilhem, Le concept et la vie (1966), in Études d’histoire et de philosophie des sciences concernant les vivants et la vie, Vrin, Paris 1968.

[9] Cfr. M. Foucault, Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, tr. it. Mimesis, Milano 1994.

[10] Ci riferiamo, ovviamente, ai saggi di Roberto Esposito. Cfr., ad esempio, R. Esposito, Immunitas, Einaudi, Torino 2002.

[11] Cfr. A. Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono (1998), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1998, soprattutto pp. 19-74.

[12] É. Durkheim, Lezioni di sociologia. Per una società giusta (1950), tr. it. Orthotes, Napoli-Salerno 2016, p. 89.

[13] Si tratta, ovviamente, dell’intuizione che sta alla base dell’intera esperienza di pensiero lévi-straussiana. Cfr. C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela (1947), tr. it. Feltrinelli, Milano 2003, soprattutto pp. 39-67.

[14] Cfr. É. Durkheim, Il lavoro sociale (1893), tr. it. Newton Compton Italiana, Roma 1972, pp. 355-374.

[15] La “costrizione” è il sociale in Durkheim e da questo non si scappa, ma, come in Claude Bernard, uno stato patologico non è totalmente altro, ma il medesimo del “normale” solo con intensità qualitativa/quantitativa oscillante – qui la contraddizione della clinica moderna e dell’applicazione della sua Weltanschauung a tutti i campi dell’umano (su queste questioni ci permettiamo, per quanto riguarda la posizione di Claude Bernard nel mondo delle idee della modernità, di rimandare a D. Salottolo, Claude Bernard e lo strano caso del suo “determinismo armoniosamente subordinato”, in C. Bernard, Un determinismo armoniosamente subordinato. Epistemologia, fisiologia e definizione della vita, tr. it. a cura di D. Salottolo, Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 7-41).

[16] Cfr. A. Caillé, op. cit.

[17] La riflessione d Foucault sulla genealogia deve tanto a Nietzsche, ovviamente. Ma si può affermare serenamente che, seppur non “stabilita” precisamente, la metodologia che andava scoprendo Durkheim e che avrebbe consegnato, probabilmente come dono più importante del suo insegnamento, ad allievi come Marcel Mauss riguardi proprio ciò che chiamiamo “genealogia”, una ricerca di carattere storico che analizzi, a partire dai conflitti della realtà (o della morfologia sociale, come direbbe il sociologo francese), il sistema di apparizione di determinati regimi discorsivi, istituzioni e prassi. Cfr. M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia (1971), in Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977.

[18] Cfr. É. Durkheim, Lezioni di sociologia, cit., pp. 213-249.

[19] Cfr. Id., Représentations individuelles et représentations collectives (1898), in «Revue de Métaphysique et de Morale», VI, 1898. È liberamente consultabile su http://gallica.bnf.fr.

[20] Cfr. A Caillé, op. cit.

[21] Cfr. J. Derrida, Dall’economia ristretta all’economia generale. Un hegelismo senza riserve (1967), tr. it. in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, pp. 325-358.

[22] Ci riferiamo, ovviamente, a E. Hobsbawm, Il secolo breve (1994), tr. it. BUR, Milano 2000.

[23] Cfr. G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e l'origine dei nostri tempi, il Saggiatore, Milano 1994.

[24] G. Bataille, La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense (1967), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 73.

[25] Ibid., p. 85.

[26] Ibid., p. 89.

[27] Ci permettiamo di rinviare a D. Salottolo, “L’uomo ornato dal prestigio della bestia”. Bataille e il miracolo di Lascaux, in «S&F_scienzaefilosofia.it», 6, 2011.

[28] Cfr. G. Bataille, Teoria della religione (1973), tr. it. SE, Milano 2002.

[29] Cfr. Id, Lascaux. La nascita dell’arte (1955), tr. it. Mimesis, Milano 2007.

[30] Cfr. Id., L’erotismo (1957), tr. it. Mondadori, Milano 1969.

[31] Id., Il limite dell’utile (1976), tr. it. Adelphi, Milano 2000, p. 61. Si tratta del titolo provvisorio di un paragrafo che, poi, Bataille decide di non utilizzare più.

[32] Ci riferiamo ovviamente a M. Weber, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905), tr. it. BUR, Milano 1991.

[33] Cfr. Z. Bauman, Vite di scarto (2004), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2005.

[34] Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano 2008.

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