Autore
Indice
- Introduzione
- Leggi scientifiche e verificazionismo radicale
- Ipotesi e modelli
S&F_n. 18_2017
Abstract
Wittgenstein on Hypothesis and Natural Laws: a consideration about the ontological task of scientific theories
In the critical literature with analytical orientation it is well-established the thesis that Wittgenstein has never abandoned, even in the last stages of his thought, a rigidly verificationist (i.e. reductionist) conception of the scientific method, underestimating the role of theoretical reasons in science and the plausibility of scientific realism. According to this image, Wittgenstein would have a too restrictive epistemology that would define natural science as an activity focused on observation, empirical verification and experimentation on the model of experimental physics and with a close bond with engineering. The purpose of this article is to refuse this image by developing two theoretical paths: on the one hand showing the complexity of Wittgenstein’s reflections about the sense of scientific propositions and especially the use of models in science and physics, on the other hand to problematize the thesis according to Wittgenstein’s reflections would exclude the possibility of postulating unobservable entities or using theoretical models in reflection on science. This article would like to be a contribution both for the rehabilitation of Wittgenstein’s reflection on science (providing insights for a more accurate reconstruction of his influence on logical empiricism) and for a general reflection on the ontological commitment of scientific theories.
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Introduzione
Nonostante tra gli anni Ottanta e Novanta ci sia stata una rilettura del pensiero wittgensteiniano più attenta alla peculiarità della cosiddetta fase di transizione e alla delineazione dei suoi micropercorsi teorici, con particolare riferimento alla riflessione sulla nozione di verifica e sullo statuto epistemologico e ontologico delle teorie scientifiche[1], ancora oggi, nella letteratura critica di orientamento analitico, è molto difficile sfuggire alla tesi secondo la quale Wittgenstein, anche nelle ultime fasi del suo pensiero, non abbia mai abbandonato una concezione rigidamente verificazionista (cioè riduzionista) del metodo scientifico, e che di conseguenza abbia sottovalutato il ruolo delle ragioni teoriche nell’impresa scientifica e il nocciolo di plausibilità del realismo scientifico, abbracciando cioè un’epistemologia troppo restrittiva che definirebbe la scienza naturale come un’attività imperniata su osservazione, verifica empirica ed esperimento, sul modello della fisica sperimentale e con un legame stretto con l’ingegneria[2].
La ragione principale di questo fraintendimento è dovuta principalmente all’idea che Carnap sia stato una sorta di portavoce ufficiale del pensiero wittgensteiniano, e che quindi nel celebre saggio del 1951 Two Dogmas of Empiricism, Quine abbia non solo affossato i principi teorici del neopositivismo logico, ma anche le tesi principiali attorno a cui ruota tutto il pensiero di Wittgenstein. Più nello specifico si può rilevare che il percorso di riabilitazione teorica del verificazionismo e dell’empirismo logico in generale, che ha avuto luogo negli ultimi decenni[3], ha tenuto in poco conto la letteratura critica sulla fase di transizione di Wittgenstein, mantenendo cioè immutata l’immagine di una contrapposizione tra una filosofia wittgensteiniana, intesa come mera attività descrittiva atta a mettere ordine in alcuni fatti linguistici per ottenere la chiarezza concettuale, e una filosofia di matrice carnapiana, intesa come indagine della cornice concettuale della scienza e del senso comune, atta a sostituire cattive immagini con immagini più corrette. Per poter scardinare questa immagine è quindi necessario rivedere due assunti: da una parte l’idea che Wittgenstein abbia delimitato eccessivamente gli strumenti e il campo d’azione delle scienze naturali, dall’altra l’idea che l’analisi grammaticale sia irriducibile alla costruzione teorica che caratterizza l’impresa scientifica.
Lo scopo di questo articolo è dunque duplice: da una parte mostrare la magmaticità delle riflessioni di Wittgenstein sui temi della sensatezza delle proposizioni scientifiche e dell’uso dei modelli nelle scienze e nella fisica in particolare[4], dall’altra problematizzare la tesi secondo la quale le riflessioni di Wittgenstein escludano la possibilità di postulare entità non osservabili o di utilizzare modelli teorici nella riflessione scientifica. In questo senso l’articolo vuole essere un contributo sia per una riabilitazione della riflessione wittgensteiniana sulla scienza (fornendo così degli spunti per una ricostruzione più accurata dell’influenza che Wittgenstein ha avuto sull’empirismo logico) sia per una riflessione in generale sull’impegno ontologico delle teorie scientifiche.
- Leggi scientifiche e verificazionismo radicale
Il 22 marzo 1930, Wittgenstein fa notare a Schlick che le leggi scientifiche non sono asserzioni sul mondo e dunque non sono genuine proposizioni dotate di condizioni di verificabilità, ossia proposizioni dotate di un valore di verità. Se è vero che, in un contesto scientifico, la verificazione è intesa come l’esplicitazione di un metodo che mostri in modo conclusivo il valore di verità di una proposizione, allora la validità di una certa legge scientifica non ha nulla a che fare con un processo del genere[5].
Se una legge di natura è sia inverificabile sia irrefutabile, questo significa che l’esperienza non ha un ruolo diretto nella sua scelta, ossia che la scelta delle leggi di natura è arbitraria, anche se guidata da un principio di economia[6]. L’abbandono o l’adozione di una legge naturale è un processo che non è quindi legato né alla verificazione né alla falsificazione, bensì al perseguimento di una maggiore semplicità del sistema rappresentativo adottato e in questo, per Wittgenstein, si mostra la differenza delle leggi naturali rispetto «ad una vera asserzione [im Gegensatz zu einer wirklichen Aussage], la cui verità non può più essere modificata»[7]. Queste riflessioni si inquadrano in una prospettiva teorica che possiamo indicare come verificazionismo radicale, secondo cui la sensatezza delle proposizioni è legata alla possibilità di tradurle in un linguaggio fenomenologico, ossia un linguaggio in cui sia possibile «la descrizione della percezione sensibile immediata, senza aggiunte ipotetiche»[8].
Mantenendoci per ora a un’analisi superficiale del testo, possiamo individuare due classi di enunciati: quelli che hanno un valore di verità, chiamati da Wittgenstein «veri enunciati», «reperti della verifica», «asserzioni fenomenologiche», e le ipotesi della scienza, prive di un valore di verità, la cui caratteristica è quella di costituire un «sistema di rappresentazione [Darstellungssystem]», ossia quella parte di una teoria scientifica che non è sottoposta a revisione sulla base del comportamento dei fatti, che decidiamo di tener ferma nella misura in cui ci si proponga «di aggiustare tutto il resto in modo da conservare l’accordo con l’esperienza»[9]. Le ipotesi che costituiscono un sistema di raffigurazione sono dunque trattate come regole di sintassi, ossia come regole d’uso di certi termini. In questo senso Wittgenstein sembra equiparare i principi di una teoria scientifica agli assiomi della geometria: enunciare un postulato significa stabilire «la sintassi in cui esprimo l’ipotesi. […] Per questo motivo la concezione della geometria come parte di un’ipotesi e la concezione della geometria come sintassi non sono affatto antitetiche»[10].
Per comprendere la reale complessità del testo wittgensteiniano è però ora necessario affrontare due nodi teorici, che hanno occupato il filosofo viennese quanto meno per tutto l’arco della cosiddetta fase di transizione: il nesso tra ipotesi e sistema descrittivo (o la natura raffigurativa di un sistema descrittivo) e il nesso tra ipotesi e verificazione.
- Ipotesi e modelli
Nel suo periodo di frequentazione col Circolo di Vienna, Wittgenstein non è sempre chiaro sulla nozione di ipotesi da lui utilizzata. Egli affronta la questione analizzando i due sensi che può assumere l’espressione «applicare un calcolo»:
Si applica il calcolo in modo che ci dia la grammatica di un linguaggio. Allora ciò che la regola permette o vieta corrisponde, nella grammatica, alle parole “sensato [sinnvoll]” e “insensato [sinnlos]”;
Si può applicare il calcolo in modo che le sue configurazioni corrispondano a proposizioni [Sätze] vere e false. Allora il calcolo ci fornisce una teoria che descrive qualcosa[11].
Nel primo senso, applicare un calcolo significa far corrispondere la regola di un gioco a una regola di sintassi, ossia scegliere quali ipotesi devono essere considerate metodi di costruzione di proposizioni. Wittgenstein fa l’esempio della geometria euclidea, «concepita come il sistema delle regole sintattiche in base alle quali descriviamo gli oggetti spaziali», dove noi, ad esempio, facciamo corrispondere l’espressione «Per due punti si può tracciare una retta» al fatto che «l’asserzione [Aussage] che parla della retta determinata da questi due punti ha senso, vera o falsa che sia»[12].
Per chiarire il secondo senso, Wittgenstein pensa alla differenza tra le leggi di Newton e gli assiomi della geometria: se le prime «ammettono una verifica, effettuata mediante esperimenti fisici […] Un gioco invece non ammette una giustificazione»[13]. Wittgenstein, in questo passo, sembra sostenere che, in una teoria fisica, le ipotesi scientifiche, a differenza degli assiomi della geometria, non possano diventare delle vere regole sintattiche, proprio perché il loro senso (o il ruolo che hanno all’interno della teoria) è dato dalla possibilità di effettuare delle verifiche. Abbiamo però visto che, sempre nei suoi colloqui con Schlick e Waismann, Wittgenstein dice esplicitamente che «Una legge naturale non può essere né verificata né falsificata»[14] e che «Le equazioni della fisica non possono essere né vere né false»[15]. Wittgenstein vuole comunque mostrare a Schlick come, in sé, nessuna espressione abbia una statuto particolare: è solo il nostro uso che decide se una certa espressione è la descrizione di qualcosa oppure una regola sintattica; in altre parole è solo all’interno di un certo contesto che ha senso chiedersi se quelle che generalmente chiamiamo “leggi di natura” sono definizioni oppure proposizioni empiriche. Non ci si può appellare a nessuna deduzione metafisica o trascendentale per comprendere la vera natura di un’espressione, per il semplice fatto che un’espressione, tolta dal suo contesto, è solo un sequenza “inanimata” di segni: la natura di un’espressione è data cioè da ciò che noi vogliamo da essa, da ciò che ci aspettiamo da essa. Non c’è, ad esempio, un “modo corretto” di usare il principio di inerzia oppure i principi della meccanica statistica dei gas[16]. Una legge di natura diviene a priori quando decidiamo di utilizzarla come un elemento centrale nella nostra rappresentazione del mondo, ossia quando riteniamo che l’osservazione di regolarità o irregolarità nella natura non debba esercitare un ruolo diretto nella confutazione o accettazione di una legge di questo tipo[17].
La pratica scientifica mostra però che un sistema fisico è sempre usato per prevedere fenomeni, e che un’ipotesi scientifica, per essere tale, deve sempre essere ricondotta a un fenomeno osservato. Il modo in cui noi usiamo il termine “fisica” mostra come faccia parte della sua grammatica il fatto che essa non sia riconducibile a un mero gioco di segni «senza significato»[18]. Che la fisica abbia questo tipo di nesso col mondo fenomenico si mostra nella pratica di far corrispondere un certo simbolismo a un modello, e nell’importanza che i modelli hanno nella conoscenza scientifica[19]. Wittgenstein cerca cioè di mostrare da un parte come ci debba essere un nesso tra sistema fisico e realtà, dall’altra come la forma del sistema fisico non sia una raffigurazione di qualcosa che potremmo chiamare la “forma della realtà”.
Questa tematica è strettamente connessa con la riflessione sul carattere arbitrario delle regole grammaticali, dove per “arbitrario” Wittgenstein intende principalmente non-raffigurativo. La tesi dell’arbitrarietà della grammatica è cioè strettamente legata alla tesi dell’impossibilità di legare la riflessione sulla grammatica del nostro linguaggio con considerazioni di ordine ontologico, cioè con considerazioni su come deve essere fatto il mondo affinché il nostro linguaggio sia possibile[20]. Negli anni successivi, Wittgenstein cambierà parzialmente idea, sostenendo che, se pure la natura non determina la grammatica, vi è tuttavia una «corrispondenza dei concetti con certi fatti molto generali della natura», nel senso che, se certi «fatti generalissimi della natura» fossero diversi, allora «formazioni di concetti diverse da quelle abituali» ci diventerebbero comprensibili[21]. In questo senso le regole grammaticali sono qualcosa che «è affine tanto all’arbitrario quanto al non-arbitrario»[22], qualcosa di primario e inaugurale, che «sta lì – come la nostra vita»[23].
- L’impegno ontologico delle teorie scientifiche
Si prenda ora il caso della meccanica newtoniana, ossia di quella teoria fisica che si basa sul principio di inerzia e sui tre principi della dinamica. Wittgenstein vuole soffermarsi sulla problematicità di stabilire l’impegno ontologico di enunciati come “L’accelerazione di un corpo è direttamente proporzionale alla forza che agisce su di esso” (secondo principio della dinamica) o “Ad ogni azione corrisponde sempre una reazione uguale e contraria” (terzo principio della dinamica), ossia di stabilire l’esistenza di che cosa rende veri questi enunciati.
La risposta di Wittgenstein alla domanda su quale sia l’impegno ontologico de re dei principi fisici è la seguente: nella maggior parte dei casi, domandarsi l’impegno ontologico di questi principi non ha senso, per il semplice fatto che non sono enunciati, ossia non sono espressioni dotate di un valore di verità. Questo non significa necessariamente che non ha senso chiedersi quale sia l’impegno ontologico di una teoria fisica, ma solo che non ha senso chiedersi che cosa rende veri i principi di quella teoria. Wittgenstein mostra cioè come l’ontologo, nelle sue analisi, non può prescindere dal chiedersi quali elementi di una teoria scientifica possiedano davvero una natura raffigurativa, ossia quali elementi di una teoria fisica parlino davvero dell’inventario dell’universo. Se l’ontologo parte dal presupposto che tutte le asserzioni scientifiche (come ad esempio i principi della dinamica) siano asserzioni che fanno riferimento a questo inventario, allora cade nell’«illusione» di cui è preda la «moderna concezione del mondo»[24]. L’errore consiste nell’attribuire al mondo proprietà che appartengono soltanto agli schemi rappresentativi che abbiamo scelto di utilizzare: quando parliamo del principio d’inerzia, ad esempio, non stiamo descrivendo una proprietà naturale che lega tra loro gli oggetti empirici, ma uno dei mezzi rappresentativi con cui costruiamo la nozione di esperienza empirica all’interno di una teoria. La tesi di Wittgenstein è che, se anche un sistema descrittivo permette una descrizione completa del mondo, esso non dice ancor nulla dell’inventario in cui esso si articola[25]: una teoria fisica, come ad esempio la teoria cinetica dei gas di Boltzmann o il modello fisico di Maxwell, non produce una rappresentazione mimetica e speculare della realtà fisica, bensì introduce un modello con il quale si confronta il sistema fisico investigato[26].
Un modello fisico non è cioè un sistema di enunciati che sono resi veri dal fatto che questo universo comprende certe entità, bensì un sistema di espressioni che mostrano quello che Wittgenstein chiama un «sistema di rappresentazione [Darstellungssystem]», ossia, come abbiamo visto, quella parte di una teoria scientifica che non è sottoposta a revisione sulla base del comportamento dei fatti[27]. Wittgenstein osserva quindi che, se è vero che un modello fisico non è qualcosa che «sia conforme a qualcos’altro», bensì «una cosa che sta per se stessa»[28], allora risulta quanto meno ambigua la domanda “la conformità a quali entità rende vero questo modello fisico?”.
Se nel Tractatus Wittgenstein pensava però che fosse possibile tracciare una linea di demarcazione netta tra le espressioni che mostrano la forma di una teoria e le espressioni che dicono invece la sussistenza di un fatto, dal 1929 inizia a riflettere sul fatto che, in sé, nessuna espressione ha uno statuto particolare: è solo il nostro uso che decide se una certa espressione è la descrizione di qualcosa oppure una definizione. Una legge di natura diviene a priori quando decidiamo di utilizzarla come un elemento centrale nella nostra rappresentazione del mondo, ossia quando riteniamo che l’osservazione di regolarità o irregolarità nella natura non debba esercitare un ruolo diretto nella confutazione o accettazione di una legge di questo tipo[29]. Per Wittgenstein non vi è però un criterio a priori (o anche solo ritenuto intersoggettivamente valido) cui appellarsi per stabilire se una certa espressione è la raffigurazione di un fatto oppure una regola d’uso di un certo termine: non c’è, ad esempio, un “modo corretto” (valido in ogni caso e in qualunque contesto) di usare il principio di inerzia oppure i principi della meccanica statistica dei gas[30].
È seguendo questo ordine di idee che Wittgenstein, nelle Ricerche filosofiche, riflette sulla distinzione fra sintomi e criteri, cioè fra le evidenze induttive o empiriche della presenza di qualcosa, e quelle espressioni che mostrano invece delle relazioni grammaticali con ciò di cui sono criteri. Così come non vi è un criterio a priori per stabilire quali espressioni mostrano la forma di un sistema di raffigurazione e quali invece sono descrizioni, allo stesso modo non vi è un criterio a priori per distinguere, nelle teorie scientifiche, i sintomi dai criteri:
L’oscillare delle definizioni scientifiche: Ciò che oggi viene considerato, in base alle nostre esperienze, come manifestazione concomitante del fenomeno A, domani sarà utilizzato per la definizione di “A”[31].
Questa oscillazione non deve essere vista come un progressivo avvicinamento alla forma in sé del mondo (alla conoscenza cioè dell’effettiva composizione dell’inventario del mondo), bensì come un carattere costitutivo della pratica scientifica. Sarebbe cioè illusorio pensare che, in realtà, esistano soltanto sintomi: «L’oscillazione, esistente in grammatica, fra criteri e sintomi, fa sorgere l’illusione che esistano solo e soltanto sintomi»[32]. L’illusione di cui Wittgenstein parla nelle Ricerche logiche è la stessa di cui parla nel Tractatus[33]: la «moderna concezione del mondo» si illude cioè che tutti i principi fisici siano descrizioni di qualcosa e che tutti i criteri siano in ultima analisi riconducibili a sintomi.
Per concludere, credo sia scorretto vedere queste osservazioni di Wittgenstein come una critica radicale alla riflessione ontologica. Esse sono invece delle indicazioni utili al fine di individuare i confini di quel gioco linguistico che consiste nella ricerca di quelle cose che devono esistere affinché alcuni enunciati del nostro linguaggio (come ad esempio le proposizioni della scienza) possano essere veri. Questo significa che non necessariamente dobbiamo sostenere, come fa ad esempio Hacker[34], che anziché preoccuparsi di redigere inventari universali, i filosofi dovrebbero limitarsi a chiarire il significato dei termini che compaiono negli inventari messi a punto dalle scienze speciali o nelle descrizioni del mondo che figurano nel discorso dei comuni parlanti. Dobbiamo invece partire dalla constatazione che una delle pratiche linguistiche che svolgiamo in determinate circostanze consiste proprio nel chiederci se alcune entità che utilizziamo per spiegare certi fenomeni esistano realmente oppure no. Il punto è che il problema di individuare quali procedimenti siano leciti per accertare l’esistenza o meno di queste entità non può prescindere da una riflessione sulla forma del linguaggio e sull’arbitrarietà o meno delle regole grammaticali. La difficoltà di comprendere se un certo disaccordo sia davvero un disaccordo ontologico o piuttosto un disaccordo linguistico è data dal fatto che non possiamo partire semplicemente col chiederci, ad esempio, che cosa rende veri i principi della dinamica, e interrogarci poi sulla natura della forza o del tempo. Da un punto di vista wittgensteiniano la riflessione sulla forma del linguaggio costituisce quindi necessariamente un capitolo preliminare dell’ontologia.
[1] La letteratura è sterminata. Di seguito i primi lavori, che hanno indirizzato le ricerche future: J. Schulte, Bedeutung und Verifikation: Schlick, Waismann und Wittgenstein, in R. Haller (a cura di), Schlick und Neurath – Ein Symposion, in Grazer Philosophische Studien, 16-17, Rodopi, Amsterdam 1982, pp. 241-253; A.G. Gargani, Schlick e Wittgenstein: linguaggio ed esperienza, in Lo stupore e il caso, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 137-171; G.P. Baker, Verehrung und Verkehrung: Waismann and Wittgenstein, in C. G. Luckhardt (a cura di), Wittgenstein: Sources and Perspectives, Cornell UP, Ithaca 1979, pp. 243-285; Wittgenstein, Frege and the Vienna, Circle, Blacwell, Oxford 1988. Per quanto riguarda lavori più recenti, incentrati sulla riflessione scientifica di Wittgenstein e sulla sua influenza sulla filosofia analitica, si vedano: D. Marconi, Quine and Wittgenstein on the Science/Philosophy Divide, disponibile al sito:
http://hal9000.cisi.unito.it/wf/DIPARTMENT/Discipline1/Professori/DiegoMarc/Quine.PDF; P.C. Kjaergaard, Hertz and Wittgenstein’s Philosophy of science, in «Jornal for General Philosophy of Science», 33, 1, 2002, pp. 121-149; P.M.S. Hacker, Hans-Johann Glock & John Hyman (eds.), Wittgenstein and Analytic Philosophy: Essays for P. M. S. Hacker, OUP Oxford 2009; S. Bizarro, A hertzian interpretation on wittgenstein’s Tractatus, in «Eidos: Revista de Filosofia de la Universidad Del Norte», 13, 2010, pp. 150-165; R. J. Read, Wittgenstein Among the Sciences: Wittgensteinian Investigations Into the “scientific Method”, Ashgate Publishing 2012.
[2] Per un’analisi di come questa tesi abbia pregiudicato l’influenza di Wittgenstein sulla filosofia americana, si guardi P. Tripodi, Dimenticare Wittgenstein. Una vicenda della filosofia analitica, Il Mulino, Bologna 2009.
[3] Per quanto riguarda i primi lavori che hanno cercato di superare la caricaturale recived view dell’empirismo logico si vedano: B. Van Frassen, L’immagine scientifica (1980), tr. it. CLUEB, Bologna 1985; M. Friedman, The Re-valutation of Logical Positivism, in «Journal of Philosophy» 58, 1991, pp. 505-529; Reconsidering Logical Positivism, Cambridge University Press, Cambridge 1999; P. Parrini, Empirismo logico, kantismo e convenzionalismo, in Atti del Congresso “Logica e filosofia della scienza oggi”, Bologna 1986, vol. II, pp. 127-142; L’empirismo logico, Carocci, Roma 2002; P. Parrini, W.C. Salmon, M.H. Salmon (a cura di), Logical Empiricism: historical and contemporary perspectives, University of Pittsburg Press, Pittsburg 2003; M. Ferrari, Il Neocriticismo, Laterza, Roma-Bari 1997; Id., Un’altra storia. Tendenze e prospettive della più recente storiografia sulle origini dell’empirismo logico, in Filosofia analitica 1996-1998, Angelo Guerini e Associati, Milano 1998. Lavori più recenti sull’empirismo logico: A. Jewett, Canonizing Dewey: Columbia Naturalism, Logical Empiricism, and the Idea of American Philosophy, in «Modern Intellectual History», 8, 1, 2011, pp. 91-125; T. Mormann, Carnap’s logical empiricism, values, and American pragmatism, in «Journal for General Philosophy of Science», 38, 1, 2007, pp. 127-146; N. Milkov, V. Peckhaus (eds.), The Berlin Group and the Philosophy of Logical Empiricism, Springer 2013; T. Uebel, “Logical Positivism”—“Logical Empiricism”: What’s in a Name?, in «Perspective on Science», 21, 1, 2013, pp. 58-99.
[4] Sarebbe poi necessaria un’analisi delle diverse fasi verificazioniste sviluppate da Wittgenstein e di come le diverse nozioni di verifica si vadano a inserire nella sua riflessione sul linguaggio scientifico. Mi riprometto di affrontare questa tematica in un successivo articolo.
[5] Cfr. L. Wittgenstein, Ludwig Wittgenstein e il circolo di Vienna (1967), tr. it. Nuova Italia, Firenze 1975, p. 88.
[6] Cfr. Id., Big Typescript (2000), Biblioteca Einaudi, Torino 2002, p. 133.
[7] L. Wittgenstein, Ludwig Wittgenstein e il circolo di Vienna, cit., p. 88.
[8] Id., Big Typescript, cit., p. 491; Cfr. Id., Ludwig Wittgenstein e il circolo di Vienna, cit., p. 89. Questa fase verificazionista è in realtà molto breve e sarà superata da diverse nozioni di verifica in tensione tra loro. Mi permetto di rinviare a G. Raimo, La filosofia del linguaggio di Moritz Schlick, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 71-89.
[9] L. Wittgenstein, Ludwig Wittgenstein e il circolo di Vienna, cit., p. 153; Cfr. Id., Osservazioni filosofiche (1964), tr. it. Einaudi, Torino 1976, § 231.
[10] Id., Ludwig Wittgenstein e il circolo di Vienna, cit., p. 153.
[11] Ibid., p. 115.
[12] Ibid.
[13] Ibid., p. 116.
[14] Ibid., p. 100.
[15] Ibid., p. 89.
[16] Id., Big Typescript, cit., p. 139.
[17] Ibid., pp. 142-143.
[18] Ibid., pp. 131-132.
[19] Cfr. ibid., p. 132.
[20] Su questo tema si veda D. Marconi, Transizione, in Guida a Wittgenstein, Laterza, Roma-Bari 1997, 2002, pp. 78-80.
[21] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche (1953), tr. it. Einaudi, Torino 1967, II, XII.
[22] Id., Osservazioni sulla filosofica della psicologia (1980), tr. it. Adelphi, Milano 1990, II, § 427.
[23] Id. Della Certezza (1969), tr. it. Einaudi, Torino 1978, § 559.
[24] Id., Tractatus logico-philosophicus (1921), tr. it. Einaudi, Torino 1989, 6.371.
[25] Cfr. ibid., 6. 342.
[26] Cfr. Id., The Voices of Wittgenstein. The Vienna Circle. Ludwig Wittgenstein and Friedrich Waismann, Routledge, London 2003, p. 288.
[27] Id., Ludwig Wittgenstein e il circolo di Vienna, cit., p. 153; cfr. Id., Osservazioni filosofiche (1964), Einaudi, Torino 1976, § 231.
[28] Id., The Voices of Wittgenstein, cit., p. 288.
[29] Cfr. Id., Big Typescript, cit., pp. 142-143.
[30] Cfr. ibid., p. 139.
[31] Id., Ricerche Filosofiche, cit., § 79.
[32] Ibid., § 354.
[33] Id., Tractatus logico-philosophicus, cit., 6.371.
[34] P.M.S. Hacker, Events, Ontology, and Grammar, in «Philosophy», 57, 1982, pp. 477-486.