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Crispr-Cas9, la Convenzione di Oviedo e le generazioni future

Autore


Demetrio Neri

Università degli Studi di Messina

Demetrio Neri è docente di Bioetica all’Università di Messina. Fino al 2016 è stato membro del Comitato Nazionale per la Bioetica presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Indice


  1. Il dibattito sul genome editing e la Convenzione di Oviedo
  2. Gli interventi sul genoma umano nei documenti del Consiglio d’Europa
  3. Lo spettro dell’eugenetica
  4. Cosa dobbiamo alle generazioni future?
  5. La TGS è esente da effetti sulle generazioni future?
  6. Conclusione

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S&F_n. 18_2017

Abstract


Crispr-Cas9, The Convention of Oviedo and future generations


This paper takes into account an aspect of the current genomic editing debate and precisely the ban on inherited genetic modifications provided by the art. 13 of the Oviedo Convention. The inconsistency of this ban with regard to the most widespread position in the scientific community (the "moratorium" on clinical application) is highlighted, and then critically examined the supporting reasons which, in the opinion of the author, are not consistent with a rational analysis of the inner structure of the Convention, in particular in relation to the issue of responsibility towards future generations.


  1. Il dibattito sul genome editing e la Convenzione di Oviedo

Dal marzo del 2015 è in atto un ampio dibattito internazionale sulle prospettive aperte dalla messa a punto di una nuova tecnica di genome editing ormai nota con la sigla CRISPR-Cas9. La sigla indica un sistema di difesa dai virus di cui i batteri si sono dotati nel corso della loro evoluzione, il cui meccanismo d’azione è stato di recente decifrato e poi rielaborato per mettere a punto una tecnologia dalle potenzialità applicative straordinarie, che coinvolgono l’intera biosfera[1].

Dell’ampio ventaglio di problemi etici e regolatori legati a questa tecnologia ne affronterò qui uno che ha al centro il tema della nostra responsabilità verso le generazioni future. Si tratta della possibilità (che, tra l’altro, ha innescato il dibattito internazionale[2]) di usare questa tecnologia per modificare il genoma dell’embrione umano non solo per scopi di ricerca onde acquisire conoscenze sui primi stadi di sviluppo[3], ma anche per effettuare modifiche genetiche che, qualora l’embrione venga impiantato in utero per ottenere una gravidanza, possono trasmettersi alle generazioni future. Questo tema è centrale non solo nella letteratura sviluppatasi in questi ultimi anni (che tuttavia riprende temi della letteratura degli ultimi quaranta anni), ma anche nelle numerose prese di posizione da parte di società scientifiche internazionali e di organismi a vario titolo regolativi (anche qui, tuttavia, senza grandi novità rispetto al dibattito precedente)[4]. La communis opinio che emerge da questi documenti può essere così sintetizzata: sì alla ricerca di base – anche su embrioni umani purché non destinati all’impianto in utero – diretta a perfezionare la tecnica; sì all’applicazione clinica nei programmi di terapia genica somatica (TGS); no, al momento presente, all’applicazione clinica sulle cellule germinali e/o su embrioni precoci (TGLG) destinati all’impianto in utero per ottenere una gravidanza.

Dunque, non un bando, ma soltanto una moratoria su quest’ultima applicazione, che viene sostenuta con vari argomenti al cui centro c’è la tesi che, mentre la TGS esaurisce i suoi effetti sull’individuo trattato, gli effetti della TGLG si riflettono sui discendenti dell’embrione trattato e quindi sulle generazioni future.

Una eccezione a questa communis opinio è rappresentata dal Consiglio d’Europa. In una dichiarazione rilasciata il 2 dicembre 2015 il Comitato di Bioetica (DH-Bio) del Consiglio d’Europa si è dichiarato convinto che

la Convenzione di Oviedo fornisce i principi che potrebbero essere usati come riferimento per il dibattito richiesto a livello internazionale sulle questioni fondamentali sollevate da questi recenti sviluppi tecnologici[…][5].

I principi cui qui ci si riferisce sono quelli contenuti nell’art. 13 della Convenzione:

Un intervento diretto a modificare il genoma umano può essere intrapreso solo per scopi preventivi, diagnostici o terapeutici e solo se la sua finalità non è quella di introdurre modificazioni nel genoma dei discendenti.

È abbastanza evidente che il contenuto di questa norma è difforme da quella che ho chiamato la communis opinio in tema di modifiche genetiche ereditabili: qui si pone un bando, non una moratoria, con inevitabili riflessi anche nella ricerca di base; infatti, non avrebbe molto senso investire risorse finanziarie e intellettuali in una ricerca le cui eventuali applicazioni cliniche siano in anticipo vietate.

Di recente – e nonostante il chiaro orientamento del dibattito internazionale verso la moratoria – l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa è tornata sull’argomento per ribadire una posizione di netta chiusura, osservando che «la correzione intenzionale della linea germinale negli esseri umani attraverserebbe una linea considerata eticamente invalicabile», senza peraltro esplicitare da chi è considerata tale e quanto sia realmente diffusa questa tesi[6]; e per sollecitare

gli Stati membri che non hanno ancora ratificato la convenzione a farlo senza ulteriori ritardi o, quanto meno, a porre in essere un bando nazionale sull’ottenimento di una gravidanza con cellule germinali e embrioni umani sottoposti a un’intenzionale editing del genoma[7].

Di nuovo bando, dunque, e non moratoria. Ora, in considerazione dell’importanza del Consiglio d’Europa e del fatto che, attualmente, la Convenzione di Oviedo è l’unico strumento regolatorio internazionale in materia con valore vincolante, ovviamente per i paesi che l’hanno ratificata[8], mi sembra importante esaminare il contenuto dell’art. 13, ricostruendo brevemente la sua genesi, individuandone gli argomenti a sostegno ed esplicitandone le implicazioni per il dibattito in corso e il futuro della ricerca biomedica avanzata.

  1. Gli interventi sul genoma umano nei documenti del Consiglio d’Europa

2.1 Il Consiglio d’Europa ha iniziato a occuparsi delle applicazioni cliniche dell’ingegneria genetica verso la fine degli anni ‘70, quando la possibilità di tali applicazioni era ancora puramente teorica (i primi esperimenti di terapia genica somatica inizieranno alla fine degli anni ‘80). Il primo importante documento in proposito è la Raccomandazione 934 sull’Ingegneria genetica del 1982[9], l’anno in cui viene registrato il primo grande successo della tecnologia del DNA ricombinante: l’insulina ottenuta inserendo il gene umano che produce questa sostanza in un batterio. Qui non esaminerò in dettaglio le indicazioni che il documento formula al fine di governare l’intero campo delle applicazioni pratiche dell’ingegneria genetica, verso le cui “immense potenzialità” il testo fa trasparire un sicuro entusiasmo, accompagnato dalla consapevolezza delle preoccupazioni suscitate nell’opinione pubblica da questa nuova tecnologia e dei rischi a essa connessi. Per l’aspetto che ci interessa, tali preoccupazioni si concentrano soprattutto sulle prospettive aperte dalla possibilità di interferire col corredo genetico ereditario degli individui e per farvi fronte il Consiglio d’Europa propone di aggiungere alla Convenzione per la protezione dei diritti umani e le libertà fondamentali (1950) un nuovo diritto, formalizzato come «diritto ad un patrimonio genetico non artificialmente modificato» (§ 7,b), presentato come una sorta di implicazione degli articoli 2 e 3 della Convenzione del 1950. Sebbene venga spesso richiamato nel dibattito bioetico come un fatto acquisito, questo diritto non è stato, in realtà, formalizzato in nessun documento ufficiale, neppure nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea approvata a Nizza, forse anche per l’evidente difficoltà di individuarne con esattezza il contenuto. Ma non intendo trattenermi ora su questo punto, per sottolineare invece che nel pensiero del Consiglio d’Europa il riconoscimento di questo diritto non era comunque inteso come una sorta di divieto assoluto di ogni intenzionale interferenza col genoma umano. Anzi, la proposta di riconoscere questo diritto era accompagnata da un’eccezione: «eccetto che in accordo a certi principi riconosciuti come pienamente compatibili col rispetto dei diritti umani (per esempio , nel campo delle applicazioni terapeutiche)» (§ 7,b). La Raccomandazione, infatti, sottolineava che il riconoscimento di questo diritto non avrebbe dovuto ostacolare «la messa a punto di applicazioni terapeutiche dell'ingegneria genetica (terapia genica), piena di promesse per il trattamento e l’ eliminazione di certe malattie trasmesse geneticamente» (§ 4,III). E nel successivo comma il Consiglio d’Europa includeva tra gli interventi di terapia genica ammissibili anche quelli sull’embrione e sul feto (§ 4, IV).

2.2 A questo proposito, conviene ricordare che un intervento diretto sull'embrione per scopi chiaramente terapeutici, a patto che la tecnica sia sicura e priva di effetti dannosi per l’embrione stesso, non suscita riserve morali neppure nelle posizioni più conservatrici in bioetica[10]. È però indubbio che tale intervento, ancorché chiaramente terapeutico, produce i suoi effetti non solo su quell’embrione (e quindi sull’individuo che ne deriva), ma anche sugli eventuali discendenti, perché modifica anche la linea delle cellule germinali e quindi incide sul diritto a ereditare un corredo genetico non artificialmente modificato. Con tutta evidenza, il Consiglio d’Europa considerava questa interferenza non contrastante con la salvaguardia dei diritti umani, in quanto pienamente giustificata dalla finalità terapeutica. Tuttavia, questa giustificazione può sopportare il peso assegnatole solo a patto di riuscire a fissare «i confini di una legittima applicazione terapeutica dell’ingegneria genetica»(§ 4,V) e il problema non era di facile soluzione. Già in linea generale, era e resta controversa la possibilità di individuare un criterio univoco per definire una condizione come “malattia” e la cosa si complica ulteriormente nel caso di condizioni con una più o meno pronunciata componente genetica: e in assenza di una definizione univoca di malattia, il confine tra il terapeutico e il non terapeutico è difficilmente tracciabile. Inoltre, nel dibattito di quel periodo, veniva avanzato un timore ben espresso nelle parole di J. Rifkin, uno dei primi e più combattivi oppositori dell'ingegneria genetica:

Una volta che noi decidiamo di dare il via all'ingegneria genetica umana, dal punto di vista logico non c'è realmente più modo di fermarsi. Se il diabete, l'anemia falciforme e il cancro devono essere curati alterando il corredo genetico individuale, perché non dovremmo procedere così anche per altri disordini, per la miopia, il daltonismo o il mancinismo? Che cosa precluderebbe a una società di decidere che un certo colore della pelle è un disordine?[11]

Il discorso assume la forma del notissimo argomento del “pendio scivoloso”, che è ormai diventato una costante della discussione di molte questioni di bioetica. Io non ho modo di trattenermi qui sulla struttura logica di questo argomento e, soprattutto, sul suo valore predittivo, che per la verità si è mostrato finora assai scarso, in specie nelle forme del “risultato catastrofico o orribile”. Va però sottolineato che accettare questo argomento significherebbe rinunciare a qualunque applicazione in campo umano dell’ingegneria genetica e il Consiglio d’Europa non era disposto ad avallare questa rinuncia indiscriminata. Anzi, per ovviare alle difficoltà evidenziate nel dibattito circa il criterio del terapeutico, la Raccomandazione indicava una possibile soluzione: quella di redigere una lista di malattie candidate alla terapia genica, da aggiornare periodicamente in base alle nuove scoperte scientifiche (§ 7, c). Si trattava di una soluzione pragmatica, ma non priva di plausibilità: se è vero, infatti, che vi sono condizioni riguardo alle quali possono esistere dubbi circa la possibilità di qualificarle o no come malattie, è vero anche che esistono condizioni circa le quali nessun dubbio esiste: quale che sia il criterio adottato, nessuno dubita che la fibrosi cistica o la talassemia siano malattie e che gli interventi destinati a trattarle siano interventi terapeutici. In buona sostanza, l’esistenza di zone grigie nel continuum delle condizioni di origine genetica non dovrebbe impedirci di identificare le zone chiare e limitare il nostro intervento a queste ultime. Si può anche aggiungere che una persona che soffre o soffrirà di fibrosi cistica sentirebbe come una grave mancanza di rispetto nei suoi confronti il fatto che la sua sofferenza venga messa sullo stesso piano della sofferenza causata, per riprendere il testo di Rifkin, dal daltonismo o dal mancinismo o da un indesiderato colore degli occhi. Altrettanto poco rispettoso sarebbe negare a quella persona la possibilità di guarire da (o di prevenire l’insorgenza di) quelle gravi malattie solo perché, in mancanza di un criterio univoco e accettato per distinguere il primo caso dal secondo, esiste il timore di non poter evitare (benché li si possa vietare) gli usi futili o eticamente più controversi delle stesse tecniche.

2.3 Tornando al nostro discorso, le indicazioni della Raccomandazione 934 trovano conferma nella Raccomandazione 1046 sull’Uso di embrioni e feti umani per scopi diagnostici, terapeutici, scientifici, industriali e commerciali (1986), nella quale la finalità terapeutica dell’intervento continua a essere (cfr. § B dell’Appendice) il criterio fondamentale di ammissibilità, con l’esplicita esclusione di qualunque intervento che interferisca con le caratteristiche ereditarie non connesse a patologie chiaramente identificabili come tali, quelle appunto da includere nella lista la cui redazione questa Raccomandazione continua a considerare desiderabile. In sintesi, si può dunque ben dire che fino alla metà degli anni ‘80 l’approccio del Consiglio d’Europa a questa complessa tematica evidenzia una grande attenzione per le potenzialità delle nuove tecnologie genetiche, unita a una sostanziale fiducia nella capacità del decisore pubblico di elaborare regole adeguate per governare questo settore di ricerca onde massimizzarne i benefici e minimizzarne i rischi.

Questa impostazione prudente, ma aperta, subisce un netto cambiamento verso la fine degli anni ‘80, precisamente con la Raccomandazione 1100 sull’Uso di embrioni e feti umani nella ricerca scientifica del 1989. La Raccomandazione riprende e approfondisce, sia nel testo, sia, e in modo molto analitico, nell’Appendice, le indicazioni fornite nei due precedenti documenti, giungendo però a conclusioni sostanzialmente differenti. Il paragrafo dedicato alle “applicazioni della ricerca scientifica agli esseri umani nel campo della salute e dell’ereditarietà” non parla più della ammissibilità di interventi sugli embrioni e feti con finalità terapeutiche (e, di conseguenza, scompare ogni accenno alla lista delle malattie candidate) e si chiude con la seguente affermazione: «Qualunque forma di terapia sulla linea germinale umana deve essere proibita». Come è evidente, il criterio di ammissibilità degli interventi non è più la terapeuticità (viene proposta la proibizione di “qualunque forma di terapia”), ma la non interferenza con la linea delle cellule germinali. Si tratta di un deciso mutamento di prospettiva, destinato a influenzare il successivo dibattito a livello europeo e che si tradurrà poi nella formulazione dell’art. 13 della Convenzione di Oviedo, che abbiamo già citato. Traducendo – ricorrendo anche al Rapporto esplicativo che accompagna la Convenzione – questa disposizione nel linguaggio corrente nella ricerca biomedica, si può arguire che l’art. 13:

  1. a) permette la terapia genica somatica (TGS), purché diretta a fini terapeutici o preventivi, e cioè quel tipo di intervento il cui bersaglio sono le cellule somatiche, quelle che costituiscono le varie parti del nostro corpo;
  2. b) vieta, anche se diretta a fini terapeutici o preventivi, la terapia genica sulle cellule della linea germinale (TGLG) e cioè sui gameti maschili e femminili; e, sebbene non vi sia, neppure nel Rapporto esplicativo, alcuna specifica indicazione in proposito, vieta anche la terapia genica sull’embrione precoce: come abbiamo ricordato, un intervento di questo genere colonizza senza dubbio anche la linea delle cellule germinali e quindi si trasmette ai discendenti.

Cominciamo a esaminare da quest’ultima disposizione che, come ho ricordato, è il punto di maggior attrito tra la Convenzione e la communis opinio. Sulla prima, la TGS per fini terapeutici, sulla cui permissibilità sembra esistere un consenso pressoché unanime, tornerò più avanti per metterne in rilievo una possibile criticità etica.

2.4 Non è facile comprendere (né il Rapporto esplicativo offre lumi in proposito) perché il Consiglio d’Europa si sia risolto ad adottare una disposizione così perentoria, laddove, al fine di proteggere gli esseri umani da esperimenti incauti e rischiosi (che è esattamente lo scopo della Convenzione), sarebbe stata sufficiente una moratoria sull’applicazione clinica della TGLG. L’idea della moratoria era, tra l’altro, l’approccio già da tempo proposto e di fatto accettato dalla comunità scientifica mondiale. Nella Dichiarazione di Inuyama del CIOMS (1991), infatti, l'eventuale futura applicazione clinica della TGLG veniva subordinata alla soluzione dei seguenti complessi problemi tecnici: a) il gene inserito non deve causare effetti evolutivi avversi; b) il gene deve essere incorporato in modo da non causare aberrazioni cromosomiche nelle successive generazioni; c) deve essere possibile mirare a specifici siti cromosomici in modo da assicurare il controllo delle modifiche genetiche[12]. Conviene anche ricordare, in proposito, il parere di un altro organismo europeo, il Gruppo dei consiglieri sulle implicazioni etiche delle biotecnologie della Commissione europea[13], che nel 1994 dichiarava eticamente non accettabile la TGLG, ma precisava «al momento presente e a causa dei complessi problemi tecnici e scientifici non ancora risolti». Sebbene la formulazione sia alquanto ambigua, si può arguire che nel momento in cui la ricerca scientifica dovesse risolvere (se mai li risolverà) i problemi tecnici di efficacia e sicurezza, la questione dell’eticità della TGLG potrebbe essere ripresa in considerazione. Il Consiglio d’Europa, invece, ha voluto chiudere la porta a questa possibilità con un secco “giù le mani dal genoma dei discendenti!”, con le conseguenze, anche in termini di vincoli indiretti alla libertà di ricerca, sopra ricordate.

La chiave per comprendere le ragioni della posizione assunta dal Consiglio d’Europa, e del mutamento di approccio rispetto alle prime Raccomandazioni, si trova nelle discussioni che, a partire dalla seconda metà degli anni ‘80, hanno animato il dibattito intorno all’ingegneria genetica, in particolare nella sede del Parlamento europeo, dove una piccola, ma agguerrita, pattuglia di deputati appartenenti al gruppo dei “Verdi” ha cominciato a condurre una battaglia a tutto campo contro l’ingegneria genetica: non al fine di trovare le regole idonee a sottoporne a un rigoroso controllo pubblico le applicazioni, ma semplicemente per bloccarla. Pur non potendo qui ricostruire nei dettagli l’andamento di questo dibattito, ne discuterò gli argomenti principali, quelli che – a mio avviso – hanno creato il clima adatto per il cambiamento di prospettiva evidenziato nella Convenzione e si riflettono nelle formulazioni del Rapporto esplicativo.

  1. Lo spettro dell’eugenetica

La prima ipotesi che vorrei esaminare è quella secondo la quale nella decisione assunta dal Consiglio d’Europa abbia giocato un qualche ruolo il timore di aprire la strada ad “avventure eugenetiche". Questo timore è esplicitamente richiamato nel § 89 del Rapporto esplicativo, dove si spiega che lo scopo fondamentale dell’art. 13 è quello di rispondere alle preoccupazioni suscitate nell’opinione pubblica dai rapidi progressi della scienza, in specie nel campo della conoscenza del genoma umano: se da questi progressi è lecito aspettarsi grandi benefici per l’umanità, dal loro abuso – dice il Rapporto – potrebbero derivare gravi minacce agli individui e alla stessa specie umana. La paura (e la minaccia) ultima sarebbe «l’intenzionale modificazione del genoma umano per produrre individui dotati di particolari caratteristiche e di qualità programmate». Nello stesso lasso di tempo, un altro documento internazionale evocava esplicitamente lo spettro dell’eugenetica, almeno nella prima versione (1995): la Dichiarazione universale sul Genoma umano dell'UNESCO. Nella seconda versione (1996), l'accenno al rischio eugenetico è stato poi soppresso perché ci si è resi conto, come ha scritto l’allora presidente del Comitato bioetico dell’Unesco N. Lenoire, che non c’è accordo sul significato di questo termine, né sulle ragioni per le quali fare eugenetica sarebbe moralmente sbagliato: vi sono pratiche che alcuni definiscono eugenetiche e altri invece no e quindi il termine sarebbe risultato di nessuna utilità nella Dichiarazione[14]. Non posso approfondire qui questo aspetto, che tra l’altro si lega al tema dell’enhancement, del potenziamento fisico, cognitivo e, da ultimo, morale dell’essere umano, che ricorre anche nel dibattito attuale sul genome editing. Mi limito solo a osservare che è stato poco saggio per il Consiglio d’Europa abbandonare la posizione pragmatica degli anni ‘80 per cedere agli scenari tanto volutamente orripilanti quanto scientificamente implausibili evocati da chi agita lo spettro dell'eugenetica con lo scopo preciso di fargli fare il mestiere che si addice agli spettri: quello di andarsene in giro per cercare di spaventare la gente, impedendole di ragionare, di chiarire le questioni in gioco e di assumere le decisioni più appropriate, che non sono mai quelle dettate dalle spinte emotive. Anzi, proprio in un settore così importante e vitale della ricerca scientifica, che apre orizzonti nuovi nella lotta contro le malattie grazie alle possibili applicazioni cliniche nella medicina genetica, è ancor più necessario dispiegare il massimo di razionalità possibile ponendo al centro dei nostri ragionamenti l'idea che la possibilità di abusare di qualcosa non è mai una ragione sufficiente per vietare il buon uso di questo qualcosa, quando i benefici che possiamo aspettarci sono – e su questo nessuno ha dubbi – veramente di grande rilevanza. Comunque, insieme all’evocazione dello spettro dell’eugenetica, a spingere il Consiglio d’Europa a porre il bando sulle modifiche genetiche ereditarie è stato l’argomento dei diritti o degli interessi che ragionevolmente possiamo attribuire alle generazioni future circa la composizione del loro pool genetico.

Nel Preambolo della Convenzione si afferma infatti che «il progresso in biologia e medicina deve essere usato per il beneficio della presente e delle future generazioni». Come perseguire questo doppio obiettivo? Sebbene – come ho ricordato – l’auspicio formulato già nel 1982 dal Consiglio d’Europa di riconoscere il diritto a ereditare un patrimonio genetico non artificialmente modificato non abbia avuto esito, gli estensori della Convenzione devono aver pensato che un buon modo, ancorché indiretto, per assicurare alle generazioni future questo diritto e, presumibilmente, per arrecare loro benefici, è quello di proibire ogni diretta interferenza col genoma dei discendenti. Esaminiamo ora il contenuto di questa proibizione e gli argomenti a sostegno.

  1. Cosa dobbiamo alle generazioni future?

4.1 Prima di entrare nel merito del discorso, vorrei precisare i limiti di questo lavoro. Come notava John Rawls già nel 1971, i problemi di un’etica intergenerazionale sottopongono «qualunque teoria etica a prove severe se non addirittura impossibili»[15] e, nonostante la corposa letteratura che si è sviluppata in proposito negli anni successivi, non siamo molto lontani da quanto affermava Derek Parfit nel 1984 in Ragioni e persone e cioè di non essere ancora riuscito a trovare la teoria X per fondare senza contro-argomenti la responsabilità morale della generazione presente nei confronti di quelle future. Per fare un esempio, già il titolo di questo paragrafo potrebbe essere oggetto di rilievi, sia per la stessa nozione di “generazioni future” (Quali? Quelle che vivranno sulla terra tra cento anni, o tra mille?), sia per l’uso del verbo dovere (non tutti sono d’accordo che si possa parlare di doveri verso le generazioni future). E se, per evitare questo secondo rilievo, usiamo espressioni come “interessi ragionevolmente attribuibili alle generazioni future” non sfuggiamo all’accusa di paternalismo intergenerazionale. In questo lavoro devo dare per scontata la complessità del tema e non accennerò neppure a una mia (eventuale) posizione personale in proposito. Mi limito solo a osservare che, nonostante le incertezze teoriche, l’appello ai diritti (o ai bisogni o agli interessi) delle generazioni future è onnipresente nei grandi documenti internazionali sui diritti dell’uomo e la Convenzione di Oviedo – come s’è visto alla fine del precedente paragrafo – non fa eccezione al riguardo. Cercherò dunque di capire come funziona il richiamo alle generazioni future nel documento in esame, la sua logica interna, per così dire, e se questo richiamo riesce a sostenere il compito assegnatogli: permettere la TGS e, al contempo, bandire la TGLG.

4.2 Tornando ora al nostro discorso, cerchiamo di comprendere quale beneficio, secondo quanto affermato nel Preambolo, ci aspettiamo di arrecare alle generazioni future con l’astensione da ogni interferenza diretta sul genoma[16]. Ora, a me sembra che vietare la TGLG anche se diretta a scopi chiaramente terapeutici è difficilmente concepibile in termini di benefici per qualcuno: non lo è per gli individui di questa generazione, che il divieto – qualora la tecnologia fosse sicura e efficace – condannerebbe a nascere con gravi difetti genetici; non lo è per gli individui delle generazioni future, che invece trarrebbero beneficio proprio da un intervento capace di sradicare la causa delle malattie genetiche. Se alle generazioni future il divieto arreca un beneficio, esso è indiretto ed è collegabile al tema della imprevedibilità degli effetti di lungo termine: l’idea generale è che, siccome noi non siamo in grado di prevedere gli effetti di lungo termine che il nostro intervento può avere sul genoma, allora la via più sicura è quella di astenerci dall’interferire per evitare potenziali danni irreversibili che, a lungo andare, e in una prospettiva “catastrofista” (alla Jonas, tanto per intenderci), potrebbero addirittura portare all’estinzione della specie umana. Qui il punto cruciale è il tema della imprevedibilità negativamente connotata, che però nel Rapporto esplicativo viene – contraddittoriamente, a mio parere – un po’ stemperata. Il paragrafo 91 del Rapporto esplicativo chiarisce infatti il divieto previsto dall’art. 13 non si estende agli interventi, sempre con finalità terapeutica, di tipo somatico che “potrebbero avere indesiderabili effetti collaterali sulle cellule germinali”. È difficile capire quale sia il criterio di scelta e l’argomento a sostegno: per giustificare la tollerabilità di effetti collaterali indesiderati di interventi ammessi e praticati (come la radioterapia e la chemioterapia, cui accenna il Rapporto) si fa leva sull’intenzione benefica di curare le persone, mentre il divieto generale di modificare il genoma dei discendenti sembra prescindere dall’intenzione benefica per fondarsi sulla intrinseca natura negativa di tale pratica in ragione dell’imprevedibilità dei suoi effetti. Tuttavia, se la modificazione del genoma dei discendenti è in se stessa una cosa così negativa da meritare di essere vietata, non si vede bene perché possa essere tollerata come effetto collaterale indesiderato di un intervento benefico: se la negatività dipende dalla imprevedibilità degli effetti futuri, questo vale nell’uno e nell’altro caso. Ma se una pratica ha conseguenze intrinsecamente negative, per le generazioni future che ne soffriranno non farà molta differenza sapere che tali conseguenze sono state prodotte direttamente o solo come effetto collaterale.

Una volta che si assume come principio la salvaguardia dell’interesse delle generazioni future a non subire danni potenziali e imprevedibili al loro corredo genetico, diventa assai complicato distinguere tra gli effetti potenzialmente dannosi prodotti da un intervento diretto e quelli prodotti da un intervento indiretto o per accidente: anzi, dal punto di vista delle generazioni future, questi ultimi risulterebbero persino più pericolosi dei primi, proprio per il loro carattere accidentale e, quindi, presumibilmente meno controllabile. Lo ha sottolineato, qualche anno fa, un Report dell’AAAS in relazione ad alcune evidenze scientifiche che facevano temere una colonizzazione accidentale della linea germinale nel corso di protocolli di TGS: e, coerentemente, il Report proponeva una moratoria anche sui protocolli di TGS[17]. La questione suscitò un certo dibattito tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio del 2000, perché le evidenze scientifiche sembravano indebolire la differenza, in termini di effetti sulle generazioni future, tra TGS e TGLG[18] che, come vedremo subito, aveva avuto un ruolo determinante nel lancio della TGS e continua ad averlo nell’attuale dibattito.

  1. La TGS è esente da effetti sulle generazioni future?

I primi trattamenti di terapia genica somatica vennero messi in atto alla fine degli anni ‘80 e la posizione più diffusa era che l’eticità di tali trattamenti era fuori discussione, dal momento che i problemi etici da essi sollevati potevano essere assimilati a quelli di altre pratiche mediche sperimentali, come i trapianti, e quindi assoggettati a regole già consolidate e condivise. L’idea di fondo, probabilmente indotta anche dal desiderio di dare il via alla TGS che allora sembrava la grande promessa della medicina del futuro, era più o meno la seguente. È bene concentrarsi – si diceva – sull’etica della TGS, poiché questo tipo di intervento è già ora tecnicamente possibile e non presenta i problemi etici connessi alla TGLG e cioè quelli attinenti alle generazioni future. Tali questioni non riguardano invece la TGS, che ha come bersaglio le cellule somatiche e quindi non tocca le cellule germinali. Questa differenza tecnica, ritenuta moralmente rilevante, fondava la fiducia che la gestione dei rischi e dei benefici non presentasse problemi qualitativamente differenti da quelli di altre usuali terapie mediche avanzate, ancorché meno rischiose e complicate rispetto alla TGS: e, comunque, esisteva la rassicurante certezza (importante, soprattutto dal punto di vista delle autorità regolatorie pubbliche) che gli eventuali danni conseguenti a fallimenti si esaurivano nell’individuo trattato e non mettevano in gioco le generazioni future.

Questa tesi è presente anche nell’attuale dibattito sul genome editing e, a quanto mi risulta, è sostanzialmente incontestata. Del resto, tutti – credo – ci auguriamo che la nuova tecnologia abbia successo e riesca finalmente a far passare la TGS dalla fase della sperimentazione alla fase della piena applicazione clinica.

Dobbiamo però essere consapevoli che, se questo avverrà, dovremo far fronte a un problema sul quale, tranne qualche eccezione, finora si è preferito sorvolare.

Se infatti questa forma di terapia verrà perfezionata e diverrà una terapia usuale per le malattie genetiche, potrebbe verificarsi anche per questa via una interferenza col corredo genetico delle generazioni future.

Questo tipo di intervento, infatti, non elimina alla radice il difetto genetico e quindi è probabile che in futuro il numero dei portatori di malattie genetiche aumenterà: con la TGS, infatti, noi metteremo in grado di riprodursi persone che altrimenti non potrebbero farlo e potrebbe anche aumentare il fenomeno dell'omozigosi. Non intendo certo esagerare la portata e l'incidenza di questi effetti, che probabilmente saranno sempre inferiori al tasso di mutazioni spontanee.

Mi chiedo tuttavia: che ragioni abbiamo per pensare che le generazioni future dovrebbero esserci grate per avere attivamente contribuito all'aumento delle malattie genetiche, sia pure in piccola misura?

Se abbiamo assunto il principio della salvaguardia dell’interesse delle generazioni future a non subire potenziali danni, non è piuttosto inconsistente permettere la TGS che, col suo successo, arreca un sicuro danno alle generazioni future?

E al limite, sempre assumendo quel principio, se non vogliamo astenerci dalla TGS o da qualsiasi tipo di cura per le malattie genetiche, non dovremmo almeno prevedere una (credo intollerabile) limitazione della libertà personale imponendo a chi accede a questi trattamenti di non riprodursi?

  1. Conclusione

Qualcuno può pensare che c'è qualcosa di sbagliato in questo ragionamento: tutti siamo d'accordo almeno sul fatto che la nostra generazione ha l'obbligo di tener conto degli interessi delle generazioni future, qui come in altri settori; ma nessuno pensa che tale obbligo debba essere interpretato come implicante per noi oneri morali insostenibili, come appunto sarebbe l’astenerci dal curare le persone presenti e reali.

Sono perfettamente d'accordo: nessuno può pensare che l'interesse delle generazioni future possa prevalere sul nostro obbligo di curare le persone presenti e reali al meglio delle nostre possibilità. Ma se questo è vero – come sembra confermare l’art. 91 del Rapporto esplicativo della Convenzione di Oviedo – allora il problema di come conciliare gli interessi di questa e delle future generazioni non è coerentemente risolvibile per la via indicata dall’art. 13 della Convenzione.

È quindi augurabile che il Consiglio d’Europa riveda la sua posizione in proposito[19], contribuendo così a quella “governance globale” di cui tutti auspicano la realizzazione, nella consapevolezza che, in questo come in altri settori, la governance delle biotecnologie non può più essere affidata a iniziative locali o regionali, deve riuscire a costruire una rete di nazioni che lavorano insieme[20], anche per evitare l’innescarsi di fenomeni di “turismo della salute” cui anche di recente abbiamo assistito nel campo delle cellule staminali.

 


[1] Così si esprime la lettera firmata da D. Baltimore, P. Berg, J. Doudna e altri («Science», 348, 6230, pp. 36-38) intitolata A prudent path forward for genomic engineering and germline gene modification. Per ulteriori informazioni su questa tecnologia cfr. A. Meldolesi, E l’uomo creò l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 2017; J. Doudna, S. Sternberg, A Crack in creation. The new power to control evolution, The Bodley Head, London 2017. Per un primo esame dei problemi etici mi permetto di rinviare a D. Neri, Embryo editing: la nuova frontiera della medicina preventiva, in «Bioetica. Rivista interdisciplinare», XXIII, 2015, pp. 193-218; Id., La sperimentazione sugli embrioni umani alla luce della ricerca biomedica avanzata (Genome editing), in «Bioetica. Rivista interdisciplinare», XXIV, 2016, pp. 363-378; Id., Embryo editing: a proposito di una recente autorizzazione dell’HFEA, in «BioLaw Journal», 1, 2016. Nel presente lavoro riprendo alcuni spunti presenti in questi articoli.

[2] Sebbene la tecnologia fosse ormai già in uso nei laboratori di tutto il mondo da qualche anno, il dibattito pubblico è cominciato dopo la pubblicazione di questo articolo dal titolo piuttosto eloquente: A. Regalado, Engineering the Perfect Baby, in «MIT Techology Review», 2015, www.technologyreview.com/featuredstory/535661.

[3] I primi esperimenti di gene editing sugli embrioni umani sono stati autorizzati presso il Karolinska Institute di Stoccolma nel giugno 2015, dall’Authority inglese HFEA presso il Francis Crick Institute a Londra il 1° febbraio 2016 e in Giappone il 22 aprile 2016.

[4] Sarebbe troppo lungo citare tutte le prese di posizione. Richiamo, pertanto, solo la Dichiarazione finale del Summit internazionale tenutosi a Washington dal 1° al 3 dicembre 2015 per iniziativa delle US National Academy of Sciences, US National Academy of Medicine, Chinese Academy of Sciences, UK Royal Society (i materiali e la dichiarazione finale del Summit sono consultabili sul sito della U.S. National Academy of Sciences: www.nasonline.org), nel corso del quale è stata creata una commissione internazionale che nel febbraio 2017 ha pubblicato il rapporto: The National Academies of Science, Engineering and Medicine, Human Genome Editing: Science, Ethics, Governance (consultabile all’indirizzo http://www.nap.edu/24623).

[5] Committee on Bioethics (DH-Bio), Statement on genome editing technologies, Strasbourg, 2 December 2015 (consultabile sul sito del Consiglio d’Europa: http://www.coe.int).

[6] Ad esempio, in Italia (come in Germania) la modifica intenzionale del genoma di un embrione destinato all’impianto in utero è permessa dalla legge. Su questo punto rinvio al mio già citato lavoro La sperimentazione sugli embrioni umani alla luce della ricerca biomedica avanzata (Genome editing). E vedi oltre, nel testo, il § 2.2.

[7] Cfr. il Report approvato il 12 ottobre 2017 dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa: The use of new genetic technologies in human beings,

http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-DocDetails-en.asp?FileID=23730&lang=en.

[8] È utile riportare qualche dato. Dei 47 paesi membri del Consiglio d’Europa, 29 hanno firmato e ratificato la Convenzione; 6 (compresa l’Italia) l’hanno firmata ma non ratificata; 12 Stati (tra cui la Gran Bretagna, la Germania, la Russia e l’Austria) non l’hanno neppure firmata; l’Olanda l’ha firmata, ma di recente ha sospeso le procedure di ratifica; infine, la Francia l’ha firmata e ratificata, ma nel corso di un convegno organizzato dall’INSERM a Parigi (“Fostering responsible research with Crispr-cas9”, 16 marzo 2016) è stato chiesto di rivedere il bando sulle modificazioni genetiche della linea germinale (cfr. F. Hirsch et al., CRISPR–cas9: A European position on genome editing, «Nature», 541 (7635): 30, http://dx.doi.org/10.1038/541030c.

[9] Questa e le successive Raccomandazioni citate sono raccolte in Textes du Conseil d’Europe en matière de bioétique, Strasbourg, 2001 e sono consultabili sul sito www.coe.int.

[10] Rinvio ancora, per una discussione di questo punto, al mio lavoro La sperimentazione sugli embrioni umani alla luce della ricerca biomedica avanzata (Genome editing).

[11] J. Rifkin, Dall'alchimia all'algenia. Le premesse della manipolazione genetica sull'uomo (1983), tr. it. Macro edizioni, S. Martino di Sarsina 1994.

[12] Si tratta della Dichiarazione finale della Conferenza del CIOMS (Council for International Organisations of Medical Sciences) tenutasi a Inuyama e Tokio nel 1990, in Z. Bankowski et al. (eds), Genetics, Ethics and Human Values. Genome Mapping, Genetic Screening and Gene Therapy: Ethical Issues, Genève, 1991. Questa posizione “attendista” si trova anche in un documento del CNB (Terapia genica, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma, 1991, p. 7, consultabile in www.governo.it/bioetica) ed è stata ripresa nel Rapporto citato nella nota 4, con la specificazione di ben dieci criteri per permettere l’applicazione clinica della TGLG.

[13] GAEIB, The Ethical Implications of Gene Therapy, Brussels, 1994.

[14] N. Lenoire, UNESCO, Genetics and Human Rights, in «Kennedy Institute of Ethics Journal», 7, 1, 1997, pp. 31-42.

[15] J. Ralws, Una teoria della giustizia (1971), tr. it. Feltrinelli, Milano, 1982, p. 241.

[16] Trascuro qui la questione di sapere se esiste una differenza eticamente rilevante tra interventi diretti e indiretti sul genoma dei discendenti.

[17] Cfr. M.S. Frankel, A.R. Chapman, Human inheritable genetic modification. Assessing scientific, ethical, religious and policy issues, September 2000 (www.aaas.org/spp/dspp/sfrl/germline.htm).

[18] Cfr. in proposito, I. Roy, J.M. Kaplan, Accidental germ-line modification through somatic cell gene therapy, in «American Journal of Bioethics», 2, 1, 2002, dove il problema viene risolto, sul piano etico, esattamente come fa l’art. 91 del Rapporto esplicativo della Convenzione di Oviedo e cioè considerando “effetto collaterale indesiderato” l’eventuale colonizzazione accidentale della linea germinale.

[19] Cfr. P. Sykora, A Caplan, The Council of Europe should not reaffirm the ban on germline genome editing in humans, in «EMBO Report», 2017 (DOI 10.15252/embr.201745246)

[20] S. Olson et al., International Summit on Human Gene Editing: a global discussion, in www.nasonline.org.

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