Autore
Indice
- Introduzione
- «Vivants invisibles»
- Sentimus nos videre
- Un radicalismo fenomenologico eccessivo? Prospettive critiche
S&F_n. 17_2017
Abstract
What Science doesn’t know. Michel Henry and the invisible Life
This paper is intended to point out the way Michel Henry’s material phenomenology redefines the relationship between life and living beings, starting with the deconstruction of western’s ontological monism. The primacy given by the traditional culture to exteriority would have prevented from thinking life in its own specific phenomenality. On the contrary, Henry develops a reflection directed to trace all appearing back to its immanent and invisible mode of manifestation. The first part of this essay focuses on the overturning accomplished by the French philosopher regarding the historical phenomenology, based on the intentional opening up to the world. Secondly, it is taken into account Henry’s criticism of biological reductionism implied by scientific ideology. This would have, indeed, forgotten the original truth of life’s self-affection and, therefore, the individuality of living subjectivity. In the final analysis, Henry’s proposal of an «absolute phenomenological life» is examined in relation to the critical problems that it may raise.
Ora la mia tragedia è questa. […] Chi vive, quando vive, non si vede: vive […] Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più. […]
Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di noi è morto. Conoscersi è morire.
Pirandello, Novelle per un anno
- Introduzione
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Quando si prova a interrogarla, il pensiero fallisce e qualsiasi referenza linguistica appare nella sua povertà. Arretra, dinanzi al suo movimento, il glorioso universo dei significati. Che ci si affanni a negarla o ad affermarla, «la vie est toujours là»[1] e, ab-soluta dalla sonorità del mondo, dispiega la sua opera nel silenzio della notte. Ma il pensiero occidentale non ammette zone d’ombra ed è per questo che, agli occhi di Michel Henry, esso si configura, sin dalle sue origini, come una «filosofia della morte»:
Une forme vide, un contenu mort, telle est la situation métaphysique qui domine la pensée occidentale à travers ses formulations les plus diverses. Dans la mesure où l’être déploie son essence par l’exposition de l’extase, il se produit et se propose comme un être dépourvu d’intériorité, inhabité, n’offrant jamais de lui que ses «dehors», une surface, une plage sans épaisseur sur laquelle le regard glisse et vient mourir[2].
La ragione per la quale la vita resta la «grande assente» dalla scena della nostra cultura andrebbe ricercata in quel «monismo ontologico» che, nato in terra greca e giunto fino alla contemporaneità, non conosce altra verità se non quella che si disvela nell’orizzonte luminoso del Dehors. Mettersi sulle tracce del tentativo henryano di dotare la vita delle sue coordinate proprie, per restituire al vivente le fondamenta della sua individuazione, richiede, dunque, una decostruzione preventiva: quella della modalità classica di concepire la fenomenalità. Esigenza, quest’ultima, che investe la speculazione di Henry sin dal 1963, anno dell’opus magnum, L’essence de la manifestation, per arrivare al più recente Incarnation (2000). A essere in questione è il problema della «lontananza fenomenologica»: in quanto presuppone l’atto del Vor-stellen, del porre-davanti, ogni esteriorizzazione nel fuori contiene, già da sempre, una modalità di reificazione. L’ob-jectum nascerebbe infatti sullo sfondo di questa messa a distanza nella quale si consuma, secondo Henry, l’oblio di un apparire più originario e sempre presunto, che
è niente di meno di tutto ciò che siamo[3].
Detto altrimenti, prima che ogni orizzonte si sia dispiegato e come sua unica condizione di possibilità, qualcosa si è già manifestato senza tuttavia offrirsi allo sguardo. È allora il primato del vedere che bisogna schivare per giungere, con Henry,
dans le pathos de la subjectivité concrète[4].
Solo dopo aver fatto tabula rasa delle presupposizioni che hanno impedito all’Occidente di sottrarsi alla giurisdizione del coscienzialismo di stampo idealistico e del riduzionismo di tipo materialistico, si potrà comprendere in che misura, per dirla con le belle parole di Emily Bronte: «There is not room for death».
2. «Vivants invisibles»
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Il progetto di una riabilitazione della vita richiede a Henry di inserirsi, per radicalizzarlo e rovesciarlo, in quel discorso che la fenomenologia storica, come un «cominciamento abortito», lascia in sospeso. La Fenomenologia materiale si muove dunque in una direzione ben precisa: recuperare la perdita, sottrarre al Di-fuori ogni potere di rivelazione per risalire, attraverso una regressione spinta all’«estenuazione», all’invisibile di cui ogni medium è il «grande nemico». Ma una «fenomenologia dell’invisibile» – questiona retorico Henry già agli esordi della sua opera – non sarebbe per principio una «contraddizione in termini»?[5]. Per il filosofo francese non si tratta di proporre un’opposizione tra i due modi dell’apparire quanto, piuttosto, di riconoscere l’Ur-faktum che
tutto ciò che ci è dato ci è dato in qualche modo due volte[6]
e che la prima donazione, lungi dall’identificarsi con l’unica possibile, è tuttavia il presupposto imprescindibile della seconda. In altri termini, che non sia illuminato da alcuna luce estatica, non per questo l’invisibile andrebbe identificato con una regione opaca e priva di una propria specificità fenomenologica. Al contrario:
La négation incluse dans le concept de l’invisible n’est pas celle de la phénoménalité mais détermine le mode selon lequel celle-ci se phénoménalise originairement et nous aide à le concevoir […] L’invisible constitue le “comment” de la révélation de l’essence de la révélation et le détermine phénoménologiquement[7].
Lontano dal poter essere confuso con un’irrealtà, come ben puntualizza Jean-Luc Marion, «l’invisible rend donc, et lui seul le visible réel»[8]. In quanto condizione originaria dell’apparire di ogni apparire (apparaître de l’apparaître) esso coincide dunque con il modo stesso in cui la vita si fenomenalizza nel suo immanente venire a sé. Per Henry ogni darsi nel visibile può accadere soltanto nella misura in cui la vita si è già rivelata nella sua «pienezza patetica», nella sua perfetta aderenza a se stessa. È a questo «prestito» sempre contratto eppure mai esplicitamente riconosciuto che il filosofo si riferisce quando afferma:
Viventi, siamo esseri dell’invisibile, comprensibili unicamente nell’invisibile, a partire da esso[9].
Interrogare la vita restando aggrappati alle categorie dell’esteriorità significa, allora, tradire il vivente per condannarlo, come fa il pensiero classico, a un destino di morte. La «fenomenologia ribaltata» assume dunque le distanze dall’eredità filosofica che più direttamente la precede, proprio perché quest’ultima non sarebbe stata in grado di porsi in ascolto della «sostanza invisibile»[10], come condizione trascendentale di ogni vivere.
In questa prospettiva, il fallimento più grave sembra nascere proprio sullo sfondo della pretesa husserliana di promuovere il concetto di «mondo-della-vita». Un vizio di fondo ne inficia, per Henry, la credibilità: l’impossibilità di rinunciare a quella tensione estatica che, al contrario, resta sempre presupposta nella dimensione intenzionale della struttura noetico-noematica. Ma il Leben, stretto a se stesso nelle cavità di un’interiorità incoglibile e non per questo nulla, rovescia ogni possibile ancoraggio alla Welt. Nella rivelazione a sé che la vita compie con esclusiva fedeltà all’autonomia della propria giurisdizione, non sembra esservi traccia di alcun formalismo. La vita accade nel pathos o è ridotta a un puro nome:
Come potrei sapere – si chiede infatti Henry – che cos’è un peso indipendentemente dall’esperienza che ne ho, dallo sforzo che faccio per sollevarlo e dalla fatica legata a questo sforzo?[11]
«Naturante effettivo» di ogni esperienza sensibile, la materia fenomenologica della Vie coincide dunque con quest’affettività che, soltanto un «intellettualismo imbastardito» potrebbe relegare nello spazio del contingente. Del resto, spiega Henry, è proprio ciò che accade nella prospettiva della «fenomenologia funzionale» husserliana: esiliato nella «notte abissale dell’ente»[12], il vissuto impressionale, piuttosto che venir riconosciuto nella sua «carne affettiva», finisce per essere ridotto a mero contenuto dell’atto noetico[13]. Eppure, rammenta il filosofo francese:
è il dolore che mi istruisce sul dolore e non una qualche coscienza intenzionale che lo mira come presente, come essente là ora[14].
Nel momento stesso in cui la hyle sensibile viene disconosciuta nella sua manifestatività interna e depauperata del suo potere fondante,
tutta la vita è pervertita da cima a fondo e il suo senso perso[15].
È qui contenuto, nella sua interezza, il peso della lacerazione, costante nella riflessione henryana, tra vivere e videre. Da un lato la vita nella sua prova interna (épreuve de soi),
sentimento di sé che non cessa di sentirsi[16]
e non tollera intervallo, dall’altro, l’esteriorità visibile verso cui la coscienza rappresentazionale non appena si sporge, è già costretta a retrocedere:
nessuno ha mai visto un sentimento. […] Il sentimento è per il pensiero un abisso[17].
Eccoci dinanzi alla testimonianza più evidente del dualismo dell’apparire che, lungi dal poter essere interpretato in senso antitetico, è la chiave di volta per comprendere tutto l’impianto filosofico di Henry: la prima donazione, nella sua dimensione inestatica, «misteriosa», endogena coincide con l’impressione (Empfindung) ed è la condizione originaria, esclusiva e sempre presunta di ciò che può darsi nei modi dell’In-der-Welt-sein. Non negazione, dunque, ma precedenza del vivere sul videre, in una parola, quella prediletta da Henry: Archi-intellegibilità della vita. La «fenomenologia impressionale» giunge dunque a annunciare che l’unica Lebenswelt che possa dichiararsi tale è quella che agisce al di qua dello «sguardo armato» dell’intenzione. Un mondo primariamente «acosmico» in cui ogni accesso alla trascendenza non è consentito che per il tramite dell’apparire puro: «arco trionfale» dell’invisibile.
Ci si può chiedere, a questo punto, se non ci troviamo dinanzi a una nuova ipostatizzazione dell’originario – come assunto da François-David Sebbah[18] – o, piuttosto, come sembra condivisibile[19], andrebbe esclusa ogni ricaduta tematizzante. Più volte Henry insiste su come l’originaria verità della vita, nel suo dinamismo, nella sua perpetua «venuta a sé», che è poi la cifra della sua passività, possa essere «à peine pensée». Per attingere al Lévinas di Altrimenti che essere: «Il malgrado sé segna questa vita nel suo stesso vivere. La vita è vita malgrado la vita: in forza della sua pazienza e del suo invecchiamento»[20]. Il tracollo dell’«ipertrofia della coscienza» non inaugura, allora, l’alba di una nuova ἀρχή, ma pare, piuttosto, rimandare a un’«anteriorità più antica dell’apriori»[21]. Anteriorità nella cui stessa mobilità è inscritta l’impossibilità di ogni ipostatizzazione.
Ma la scienza non sa:
Ce qu’est la vie […] la science n’en a aucune idée, elle ne s’en préoccupe nullement, elle n’a aucun rapport avec elle et n’en aura jamais[22].
3. Sentimus nos videre
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Fedele, sin dalla sua genesi, ai richiami del logos greco, anche la scienza pare rivolgersi con sospetto a ciò che si manifesta altrove dalla ϕῶς e sceglie, pertanto, di restare sorda al «grido di dolore che sale dal Desiderio ferito»[23]. Ancora una volta, è l’ordre physique a legiferare proprio su quanto, al contrario, contiene solo in sé la propria giustificazione. Ma Henry non tarda a rimarcare l’incongruenza di questa «configuration imbécile»[24]:
Le savant est donc homme double, affirmant d’un côté que la vie, la vie subjective individuelle, bref sa propre vie, n’est rien, rien qu’une apparence en tout cas, une apparence sans vérité et sans valeur – et n’en continuant pas moins à vivre de cette vie qui n’est rien[25].
È proprio qui che trova spazio la nuova barbarie che attanaglia la contemporaneità: a partire da quest’«uomo doppio» che, con lo sguardo orientato al fuori, dichiara inessenziale la vita proprio mentre non cessa di accogliere in sé le sue molteplici epifanie e di partecipare, dunque, della sua totalità affettiva. Insomma, non appena si provi a disconoscere che «tout comprendre est affectif»[26] si precipita, ipso facto, in una insanabile aporia. È quello che, secondo l’interpretazione di Henry, accade per effetto dell’evento «proto-fondatore» della scienza moderna:
Ma ch’ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata[27].
Pronunciatosi così riguardo alla sostanza corporea, Galilei restituisce, all’umanità, il “grande Libro dell’Universo” dal quale, insieme alle qualità sensibili, resta esclusa la parola stessa della vita. Un «universo reale», dunque, guidato da principi di validità necessari e al cui interno trova spazio soltanto la conoscenza geometrica di corpi materiali estesi. Nella riduzione galileiana, che attribuisce alla conoscenza sensibile l’inefficacia di un’illusione, Henry individua l’esordio di un misconoscimento che si inserirà, in diverse maniere, in ogni ambito della cultura e del pensiero successivi: il corpo scientifico in luogo di quello sensibile, la vita biologica in luogo del sentire patico[28]. D’ora in avanti, a recidere pericolosamente la distanza tra gli enti inerti e gli esseri viventi è una comune appartenenza: quella a una corporeità esteriorizzata e ob-gettivata dai saperi positivi. Inscritta in questo orizzonte critico, l’estrema sentenza di C’est moi la vérité secondo la quale «l’“uomo” non esiste»[29] trova la sua coerenza. «Venire davvero al mondo» significherebbe, infatti, «proporvisi come cadavere»[30]. Trascendenza e morte. Il binomio torna a imporsi e, per corroborarne l’evidenza, il filosofo francese chiama più volte in causa La Logique du vivant, vero e proprio testamento della storia della biologia in cui François Jacob conferma che:
I processi che si svolgono negli esseri viventi a livello microscopico delle molecole non si distinguono in nulla da quelli analizzati dalla fisica e dalla chimica nei sistemi inerti […]. Oggi nei laboratori non ci s’interroga più sulla vita[31].
Per concludere con Henry: «nella biologia non c’è vita, ci sono solo algoritmi»[32].
A nulla sarebbero serviti gli sforzi mossi dalla fenomenologia storica in direzione anti-positivistica. Nonostante la disamina henryana sembrerebbe inserirsi a pieno titolo nel contesto delle celebri riflessioni husserliane della Krisis uno scarto sostanziale ne segna, tuttavia, il profondo distacco. Il grande merito di Husserl, per Henry, è quello di aver provato a definire la specificità del soggetto trascendentale rispetto all’«uomo naturale» passibile, al contrario, di essere confuso con l’«ente ordinario». Tuttavia, nell’immediata identificazione della soggettività con la «coscienza di qualcosa», il filosofo tedesco avrebbe dato nuova linfa a quello stesso obiettivismo moderno che si proponeva di annientare.
È necessario precisare, come fa giustamente Sebbah, che quella di Henry non va confusa con una posizione reazionaria o tecnofobica[33]: ciò che il filosofo recrimina alla scienza o, per meglio dire, alla sua ideologia, non è la ricerca del fenomeno nella sua evidenza sperimentale. Piuttosto, a essere in questione, è la negazione, in essa implicata, del movimento interno che percorre ciò che appare (paraît), nonché: l’«ensemble des résponses pathétiques que la vie s’efforce d’apporter à l’immense Désir qui la travers»[34]. Sulla base di queste premesse, Ce que la Science ne sait pas, per richiamarci all’omonimo articolo pubblicato da Henry per La Recherche nel 1989[35], è che la sua stessa possibilità di attualizzazione, la sua praxis, non può non attingere da un «saper-fare» primitivo, dall’auto-sapere, cioè, di un corpo originario che,
nell’immanenza radicale della sua soggettività e mediante essa, è in possesso di tutti i suoi poteri, sa e può metterli in opera[36].
In altre parole, ciò che l’arrière-monde scientifico ignora è che
se il sapere incluso nel movimento di agitare le mani […] avesse un oggetto, in questo caso […] tale movimento di mani non si produrrebbe mai[37].
Da questo punto di vista, come precisa La barbarie, «l’essence originelle de la tekhnê»[38] altro non sarebbe che il corpo soggettivo che sperimenta, in ogni punto del suo esercizio, l’affettività della vita.
Come aveva predetto Heidegger – che appare, con il dovuto scarto, molto più vicino a Henry di quanto quest’ultimo voglia ammettere – il nodo del problema ha a che fare con un nascondimento. Per dirla con il filosofo tedesco:
La minaccia per l’uomo non viene anzitutto […] dagli apparati tecnici […]. Il dominio dell’im-posizione minaccia fondando la possibilità che all’uomo possa essere negato di raccogliersi ritornando in un disvelamento più originario e di esperire così l’appello di una verità più principale. Così, dunque, là dove domina l’im-posizione, vi è pericolo nel senso supremo[39].
Ora, che questa verità Heidegger la chiami Essere e Henry Vita, a restare intatto è il senso di un tentativo comune. La critica allo scientismo, in entrambi, non sarebbe che un modo altro per insistere su una necessità più generale: la messa in atto di una risalita dal ϕαινόμενον al ϕαίνεσϑαι nonché, come dimostra la puntuale analisi di Sein und Zeit (§7), al «rendersi visibile in se stesso»[40]. È indiscutibile che nel riconoscimento heideggeriano di questa «verbalità», Henry individui una significativa possibilità di superare il modello ancora «coscienzialistico» di manifestatività, in cui ricade l’impostazione husserliana[41]. Tuttavia, se da un lato mette fuori gioco i poteri costitutivi dell’ego trascendentale, dall’altro, Heidegger, per il fatto di non riuscire a pensare il sein che in relazione alla sua sporgenza nel Da, cadrebbe anch’egli vittima del pregiudizio scientista. Disconoscere la sua teleologia immanente significa, ancora una volta, sconfessare il proprium della vita e, con esso, dell’individualità vivente. È una «théorie bâtarde»[42] – denunciava allora Henry a proposito dell’intero pensiero occidentale – quella che, in diverse maniere, avrebbe condotto sempre a quest’unico risultato: ignorare «l’homme réel […] cet être de chair et sang que nous sommes tous»[43].
Ma se
il bacio che si scambiano i due amanti è solo un bombardamento di particelle microfisiche[44]
è necessario interrogarci su cosa ne è stato di quell’invisibile che continua silenziosamente ad affettarci. Bisogna allora voltarsi indietro e provare a ritrovarlo proprio nel punto in cui, solo sfiorato, esso è stato perso per sempre. È ciò che fa Henry quando, reinterpretando la Seconda Meditazione di Descartes, vi scopre la geniale intuizione prima che la «déviance historiale» determinasse il trionfo della coscienza: «At certe videre videor, audire, calescere»[45]. Ecco, messo tra parentesi il mondo, l’apparire colto per la prima volta nella sua fenomenicità intrinseca. Se anche tutto fosse un sogno, puntualizza Henry,
di ciò che prova se stesso interiormente al modo di uno spavento, di un’angoscia, o di un piacere […] è di questo in verità che è impossibile dubitare[46].
Nel cartesianesimo del cominciamento – si legge in Genealogia della psicoanalisi –
io penso vuol dire tutto tranne il pensiero. Io penso vuol dire la vita[47].
Se è vero che con Descartes l’eredità galileana riceve il suo sugello e fa il suo ingresso nel moderno, resta, tuttavia, che nel recupero henryano di quel sentimus nos videre è contenuto il più grande scacco all’ideologia scientista.
4. Un radicalismo fenomenologico eccessivo? Prospettive critiche
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Una volta neutralizzato il potere di manifestatività dell’esteriore, dominio nel quale, come si è visto, non sussiste individuazione possibile, siamo giunti, con Henry, al fuoco della fenomenologia rovesciata: l’interiorità della vita che «nessun’alba può mai dissipare»[48]. In termini kafkiani: «Fortuna […] che il suolo sul quale stai non possa essere più largo dei due piedi che lo coprono»[49]. Un «destino di affetti»[50] ha definitivamente strappato alla trascendenza il suo primato ontologico. Alcune questioni restano, tuttavia, da chiarire: a cominciare da quella sollevata da Renaud Barbaras che, malgrado riconosca a Henry il merito di aver provato a pensare la vita nel suo statuto positivo, si interroga sulla validità della proposta di una sua auto-affezione pura:
On peut se demander – si legge in Introduction a une phénoménologie de la vie – si, chez Michel Henry, la place conférée au concept de vie ne se paie pas du prix d’une réduction de la vie à un sens strictement métaphorique où l’on a de la peine à reconnaître quelque chose de l’activité des êtres vivants[51].
È fuor di dubbio, che il privilegio conferito all’Erleben[52], la vita nella sua dimensione intransitiva, rischi di compromettere l’accessibilità del rapporto che lega la soggettività, in quanto sé vivente, al mondo. Si può controbattere, tuttavia, che un’interpretazione che insista sul suo aspetto tautologico, possa finire per disconoscere il senso più profondo della fenomenologia henryana. In essa, per quanto implicita, la correlazione tra quell’immédiateté pathétique, che rifiuta ogni «superficie» e ogni «volto», e l’hors de soi, non sembra, infatti, restare impensata. Prova ne sia la disamina critica compiuta da Henry nei confronti del vitalismo: il bersaglio polemico, come evidente in Généalogie de la psychanalyse, è, in particolare, quel filone di pensiero del XIX secolo che, a partire da Schopenhauer, per arrivare a Nietzsche e Freud, «ritrova» la vita proprio mentre la deietta in una regione impersonale e la trasforma in una pulsione inconscia. Il nodo del problema risiede nel fatto che, una volta svincolata dal potere rivelante della coscienza, la vita sarebbe ridotta all’«espressione insensata di una forza cieca e anonima»[53]. Come giustamente rilevato da Grégori Jean[54], l’attacco di Henry non è rivolto, qui, all’identificazione tra vita e forza, quanto, piuttosto, alla mancata attribuzione, a questa stessa forza, di una propria specifica fenomenalità, in breve: all’assenza di una determinazione peculiare del suo legame intrinseco alla soggettività. È sullo sfondo della tipicità di quello che potrebbe definirsi un «vitalisme phénoménologique»[55], che la pur legittima osservazione di Barbaras si fa, per molti versi, problematica: sin da Philosophie et phénoménologie du corps (1965), Henry si propone di dotare l’ego trascendentale di una force[56] che, in un senso tutt’altro che metaforico, definirebbe l’essenza concreta della vita e della sua stessa possibilità di un’apertura all’empirico. Né iper-potenza di una volontà astratta, né cecità di un dinamismo incosciente, «le mouvement de la vie» somiglia, piuttosto, a un «effort sans effort»[57]: una potenzialità interna e non intenzionale che aderisce in senso immediato al corpo soggettivo e si rivela, in ultima analisi, la condizione fondante di ogni agire[58] possibile nel fuori. Questo movimento originario – che nominato altrimenti da Henry è la forza del pathos – non resta, dunque, prigioniero di se stesso, ma rende ragione, in senso ontologico, di ogni esperienza trascendente. Eloquente, in tal senso, il passaggio del bel saggio su Kandinsky:
Nel caso del colore – spiega il filosofo – l’aspetto esteriore è quella sorta di zona colorata diffusa sulla superficie delle cose, il colore oggettivo, “noematico”. La rivelazione interiore è il suono di quel colore, il sentimento del possibile, di un mondo che nasce per il bianco, della morte per il nero, della calma per il verde […][59].
È nel solco di questo dualismo, non oppositivo ma di fondazione, che sembra plausibile, allora, stemperare il pregiudizio di un radicalismo fenomenologico eccessivo. Nella prospettiva henryana di una vita a-cosmica, a restare esclusa, non è l’effettività empirica del vivente, quanto, piuttosto, il suo darsi nei modi di una rappresentatività[60] che paralizzerebbe ogni fare, ogni sentire nei modi della gioia e della sofferenza, in breve: ogni capacità di accogliere il pathos, che continua ad affettare il nostro «tessuto» vivente, e nel quale risiede l’unica individuazione possibile. Sulla base di queste considerazioni, si può ancora avallare l’ipotesi di un’eterogeneità fenomenologica che mette in scacco l’ouverture au monde? Quale legittimità conferire alla tesi di quanti, come Xavier Tilliette, hanno intravisto, nella riflessione di Henry, le tracce di «une nouvelle monadologie»[61]?
Lasciamo che a parlare sia Incarnation:
Nella mia carne io sono la vita del mio corpo organico e sono anche quella del mondo[62].
Eccolo, ancora, quell’invisibile che si pronuncia sul proprium del vivente e non, tuttavia, per lasciarlo serrato a se stesso:
Noi – si legge in Phénoménologie matérielle – possiamo soffrire con tutto ciò che soffre, c’è un pathos-con che è la forma più ampia di ogni comunità concepibile. Questa comunità patetica non esclude pertanto il mondo, ma solamente il mondo astratto, cioè ciò che non esiste, da cui si è messa fuori gioco la soggettività[63].
Passaggio significativo, che dimostra come, nella prospettiva di Henry, il problema della relazione concreta tra i viventi non passi sotto silenzio, ma sia affrontato, piuttosto, al di fuori del ricorso all’intenzionalità. Categoria, quest’ultima, che avrebbe segnato il definitivo fallimento della Quinta meditazione cartesiana di Husserl[64] o, per dirla altrimenti:
Fenomenologia della percezione, applicata all’altro, in ciò che essa ha di proprio e […] di mostruoso[65].
Ora, se è certo che, ponendosi al di qua della pro-iezione estatica, Henry si sia proposto di superare l’aporia senza sconfessare il mondo, alcuni dubbi – è necessario riconoscerlo – permangono circa la validità più strettamente fenomenologica del suo discorso. Sebbene l’immanenza della soggettività carnale che prova se stessa non escluda, ma presupponga, al contrario, l’accesso all’alterità, l’esperienza di questa reciprocità non è pensata da Henry che sullo sfondo del modello cristologico, nonché sulla base della relazione archetipale «Padre-Primo Vivente». In altri termini:
Ogni relazione di un Sé con un altro Sé non richiede come punto di partenza un Sé, un io – il mio o dell’altro –, ma la loro comune possibilità trascendentale, che altro non è che la possibilità della loro stessa relazione: la Vita assoluta[66].
Si può forse leggere in questo «tournant théologique»[67] un riferimento privilegiato ai viventi umani? Se così fosse, non verrebbe a vanificarsi l’impianto stesso di una fenomenologia della vita che si pretenda tale?[68]. In effetti, se la comunità inter-carnale resta possibile soltanto tra coloro che testimoniano l’auto-rivelazione della Vita in se stessi, a ben guardare, la vita animale ne resterebbe senza dubbio esclusa. La difficoltà, nel provare a dirimere la questione, nasce dal fatto che la riflessione di Henry, mai esplicita sul tema, fornisce degli spunti contraddittori. In C’est moi la vérité leggiamo:
Non è paradossale, per chi vuole sapere cos’è la vita, andarlo a chiedere […] alle api? […] Come se non fossimo noi stessi dei viventi?[69]
Verrebbe da chiedersi se non si cada in un paradosso forse più grave, dal momento che Henry aveva negato all’umano il quid pluris che la tradizione gli avrebbe accordato, pensandolo solo a partire dalle categorie estatiche. Ma proprio all’alba di quello che sembra affermarsi come un nuovo antropocentrismo, ecco che Incarnation ci viene in aiuto per chiarire che:
L’incarnazione riguarda tutti gli esseri viventi sulla terra, giacché sono tutti esseri incarnati[70].
È allora una scelta metodologica – spiega poco dopo Henry – quella che impone, per meglio precisare il senso di «corpo proprio vissuto», di delimitare il campo d’indagine ai soli esseri umani. Il Leib animale, seppure all’ombra di una humanitas innegabilmente preponderante, rimane, dunque, presupposto da un’indagine che non potrebbe non essere estesa a tutto ciò che partecipa del gioire e del soffrire primitivo. Del resto
È vero che la nostra vita ci importa e ci interessa più di questo mondo se non altro per quella straordinaria proprietà che la caratterizza: sentire se stessa, sperimentarsi – quella felicità di cui le cose si trovano così crudelmente sprovviste, al punto che esse rimangono mute e insoddisfatte sotto lo sguardo dell’uomo, attendendo da lui il conferimento di quella presenza che esse sembrano possedere per se stesse ma che in realtà possono trarre solo dalla soggettività, da quell’autosperimentarsi nel seno del quale ogni cosa prova se stessa e diviene viva[71]:
«There is not room for death».
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[1] M. Henry, La barbarie, Puf, Paris 1987, p. 5.
[2] M. Henry, Qu’est-ce que cela que nous appelons la vie?, in Phénoménologie de la vie, tome I, De la phénoménologie, Puf, Paris 2003, p. 46.
[3] Id., Fenomenologia materiale (1990), tr. it. Guerini, Milano 2011, p. 108.
[4] Id., Entretiens, Sulliver, Arles 2005, p. 128.
[5] Id., Fenomenologia materiale, cit., p. 63.
[6] Ibid., p. 78.
[7] Id., L’essence de la manifestation, Puf, Paris 1963, pp. 551-552.
[8] J.-L. Marion, La croisée du visible, Puf, Paris 2007, p. 15.
[9] M. Henry, Incarnazione. Una filosofia della carne (2000), tr. it. SEI, Torino 2001, p. 97.
[10] Id., Fenomenologia materiale, cit., p. 62.
[11] Id., Vedere l’invisibile. Saggio su Kandinskij (1988), tr. it. Guerini, Milano 1996, pp. 83-84.
[12] Id., Fenomenologia materiale, cit., p. 77.
[13] Il bersaglio polemico di Henry sono, in particolare, le Lezioni del 1905 sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo.
[14] M. Henry, Fenomenologia materiale, cit., p. 86.
[15] Ibid., p. 103.
[16] Ibid., p. 101.
[17] Id., L’essence de la manifestation, cit., pp. 680 e 711.
[18] Cfr. F.-D. Sebbah, Une réduction excéssive: òu en est la phénoménologie française?, in E. Escoubas, B. Waldenfels, Phénoménologie française et phénoménologie allemande, L’Harmattan, Paris 2000, pp. 155-173.
[19] È la posizione sostenuta da C. Tarditi nell’ottimo saggio Plus d’une voix. Alle radici della fenomenologia francese in «Biblioteca husserliana. Rivista di fenomenologia», 2011, pp. 1-34.
[20] E. Lévinas, Altrimenti che essere (1974), tr. it. Jaca Book, Milano 1983, p. 65.
[21] Ibid., p. 125.
[22] M. Henry, La barbarie, cit., pp. 35-36, corsivo dell’autore.
[23] Id., Vedere l’invisibile…, cit., p. 151.
[24] Id., Qu’est-ce que cela que nous appelons la vie, cit., p. 47.
[25] Id., La barbarie, cit., pp. 115-116.
[26] Id., L’essence de la manifestation, cit., p. 603.
[27] G. Galilei, Il Saggiatore (1623), in Opere di Galileo Galilei, Società Editrice Fiorentina, Firenze 1844, tomo IV, pp. 333-334.
[28] M. Henry, Incarnazione, cit., p. 114.
[29] Id., Io sono la verità. Per una filosofia del cristianesimo (1996), tr. it. Queriniana, Brescia 1997, p 152.
[30] Ibid., p. 81.
[31] F. Jacob, La Logique du vivant, Gallimard, Paris 1970, p. 320, citato da M. Henry, Io sono la verità, cit. p. 58.
[32] M. Henry, Io sono la verità, cit. p. 58, corsivo dell’autore.
[33] Cfr. F.-D. Sebbah, D’autres vies que la nôtre? La pensée henryenne à l’ère des êtres artificiels, in G. Jean, J. Leclerq, N. Monseu (a cura di), La vie et les vivants. (Re-) lire Michel Henry, UCL, Louvain 2013, pp. 307-325.
[34] M. Henry, La barbarie, cit., p. 3.
[35] Saggio ripubblicato in Phénoménologie de la vie, vol. IV, PUF, Paris 2004. Sarà qui consultata la versione italiana: Ciò che la scienza non sa, in Quattro saggi sull’etica della vita, tr. it. Guida, Napoli 2016.
[36] Id., L’etica e la crisi della cultura contemporanea, ibid., p. 43.
[37] Id., Il problema della vita e della cultura, ibid., p. 24.
[38] Id., La barbarie, cit., p. 80.
[39] M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi (1957), tr. it. Mursia, Milano 1976, p. 21.
[40] Id., Essere e Tempo (1927), tr. it. Longanesi, Milano 2005, p. 43.
[41] Sul punto, si rimanda al già citato saggio di C. Tarditi, Plus d’une voix...
[42] M. Henry, Entretiens, cit., p. 128.
[43] Id., Philosophie et phénoménologie du corps, P.U.F., Paris 19872, p. 10.
[44] Id., Incarnazione, cit., p. 118.
[45] R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, in Opere filosofiche, tr. it. Laterza, Roma-Bari 1996, vol. II, p. 28.
[46] M. Henry, Ciò che la scienza non sa, cit., p. 52.
[47] Id., Genealogia della psicoanalisi (1985), tr. it. Ponte alle Grazie, Firenze 1990, p. 15.
[48] Id., Vedere l’invisibile, cit., p. 19.
[49] Id., Fenomenologia materiale, cit., p. 192.
[50] Id., Io sono la verità, cit., p. 205.
[51] R. Barbaras, Introduction à une phénoménologie de la vie, Vrin, Paris 2008, p. 9.
[52] Barbaras insiste, al contrario, sulla necessità di una correlazione tra Erleben e Leben, quest’ultimo inteso come il vivere nella sua transitività e dunque nella sua apertura al mondo. Secondo B. Bégout, è a partire dal differente modo di ricorrere ai due termini in questione che avrebbero preso forma, nella storia della filosofia, tre modalità possibili di elaborare una fenomenologia della vita. Per un approfondimento sulla questione si rimanda a Le phénomène de la vie. Trois approches possibles d’une phénoménologie de la vie, in J.-M. Vaysse (éd), Vie, monde, individuation, Hildesheim, Olms 2003.
[53] M. Henry, Io sono la verità, cit., p. 210.
[54] Si rimanda all’interessante saggio di G. Jean, Y a-t-il une vitalisme proprement phénoménologique? Réflexions autour de Michel Henry, in «Alter. Revue de phénoménologie», 21, 2013, pp. 101-115.
[55] L’espressione è di G. Jean. Cfr., in particolare, ibid., pp. 103-105.
[56] Per Barbaras, al contrario: «Saisir la vie en son irréductibilité à l’ordre physique, c’est peut-être renoncer au concept de force», Introduction à une phénoménologie de la vie, cit., p. 34. Tuttavia, nell’interpretazione proposta, quella pensata da Henry non può essere confusa con la forza intesa nell’accezione vitalistica tradizionale.
[57] M. Henry, La barbarie, cit., p. 171.
[58] Giova ricordare che è sulla scorta di una rivisitazione dell’ontologia di Maine de Biran che Henry elabora la nozione di corpo soggettivo. Tuttavia, a differenza del primo, nell’interpretazione henryana l’azione della soggettività si dispiega sempre nei modi dell’originaria passività. Per un approfondimento di questi aspetti si rimanda a E. Marini, Vita, corpo, affettività, Cittadella Editrice, Assisi 2005.
[59] Id., Fenomenologia materiale, cit., p. 111.
[60] Scrive F. C. Papparo in Allucinare il mondo. Note sulla filosofia di Michel Henry, Paparo, Napoli 2013: «Henry, pur dovendo, in una certa misura, ammettere l’opera della rappresentazione […] ritiene però che, “al fondo” di ogni rap-presentazione, ci sia e non possa non esserci un esser-affetto nel quale “il contenuto” dell’afficere non si stacca in nessuna maniera dal “moto” stesso dell’afficere», p. 123.
[61] Si rimanda al saggio di X. Tilliette, Une nouvelle monadologie: La philosophie de Michel Henry, in «Gregorianum», 61, 4, 1980, pp. 633-651.
[62] M. Henry, Incarnazione, cit., p. 174. È necessario precisare che qui la nozione di «carne del mondo» non ha una connotazione merleau-pontyana e, in questo senso, si rimanda al capitolo consacrato da Henry a «Il tentativo di superare l’opposizione tra corpo senziente e corpo sentito: la problematica dell’ultimo Merleau-Ponty e l’assolutizzazione del Sensibile», ibid., pp. 131-134.
[63] Id., Fenomenologia materiale, cit., p. 205.
[64] Si rimanda a E. Husserl, Meditazioni cartesiane e discorsi parigini, tr. it. Bompiani, Milano 2002.
[65] Ibid., p. 185
[66] Id., Incarnazione, cit., p. 280.
[67] Ci si riferisce qui alla nota espressione di D. Janicaud, Le tournant théologique de la phénoménologie française, L’Eclat, Combas 1991.
[68] È il problema sul quale si interrogano vari interpreti di Henry. Oltre al già citato F.-D. Sebbah (D’autres vies que la nôtre…); si rimanda a F. Burgat, Une autre existence: La condition animale, Albin Michel, Paris 2012.
[69] M. Henry, Io sono la verità, cit., p. 68.
[70] Id., Incarnazione, cit., p. 3.
[71] Id., Vedere l’invisibile, cit., p. 159.