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Il virtuale della fenomenologia nella fisica: temporalità e cinestesi alla prova della teoria della relatività. Dai manoscritti di Einstein e Husserl

Autore


Giorgio Jules Mastrobisi

Università del Salento

Dottore di ricerca in Ermeneutica filosofica presso l’Università del Salento, Post Doc. Fellow presso la stessa Università, ha lavorato in collaborazione con gli Archivi Albert Einstein di Gerusalemme all’edizione critica di alcuni manoscritti inediti

Indice


1. La «cecità» della Fisica per la Fenomenologia: «reale» vs. «virtuale»

2. Ingenuità «reale» e mondo pre-scientifico «virtuale» nel confronto tra Husserl e Einstein

3. Temporalità fenomenologica nel Manoscritto «Zeit» (1929) di A. Einstein: il virtuale che diventa reale

4. Cinestesi fenomenologica della Relatività: «L’Arca-Terra non si muove» e l’Essere obiettivo «virtuale» del Sig. Michelson

5. Fenomenologia e Relatività: «virtuale» e «reale» a confronto

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S&F_n. 18_2017

Abstract


The Virtual of Phenomenology in Physics. The Theory of Relativity like proof bench of Temporality and Kinaesthesia. From Einstein and Husserl’s manuscripts


The search for objective knowledge purports to aim at a reality independent of our experience of it, but we find ourselves dependent upon our sense experience as the only possible access to this purportedly independent reality that is the object of science. Husserl’s phenomenological point of view reveals how this aim is understandable, and, as the major developments in twentieth-century physics have shown (Einstein’s Relativity Theory), how science must take account of the way that virtual forms of our thinking play a key role in capturing the phenomena scientists describe and explain. What this paper claims to prove is the epistemological evidence of an unavoidable relationship between the virtual and real that are described through the formal sciences and the concrete objects that they purport to capture. In one of his manuscript entitled: “Overthrow of the Copernican theory” Husserl emphasized the role of virtuality of natural laws such as it arises from Michelson’s experiment, dwelling on natural scientific naiveté. In fact, even though we eventually come to understand the earth as a thing moving among things, the unmoving earth remains the virtual condition that makes any movement intelligible. Thus, we might consider the actual world, each of its pieces and all determinations in them, as «intentional-real» objects of «virtual-conscious» acts.


Le cose viste sono già sempre qualcosa di più di ciò che di esse realmente e propriamente vediamo.

Husserl, Crisi delle scienze europee

 

 

 

  1. La «cecità» della Fisica per la Fenomenologia: «reale» vs. «virtuale»

Il progressivo e crescente interesse, riscontrato in questi ultimi decenni nel panorama filosofico contemporaneo, nei confronti della Fenomenologia trascendentale e del suo fondatore, Edmund Husserl[1], non può esimerci dall’evidenziare un altrettanto crescente sentimento d’imbarazzo nel riconoscere a tale corrente filosofica una fecondità e una ricchezza di implicazioni teoretiche, che rispondono perfettamente alla richiesta di senso che lo sviluppo delle idee scientifiche ha imposto al recente dibattito filosofico sulla scienza[2].

La più volte citata – con buona pace di tutti! – complessità e tecnicità del linguaggio e del metodo fenomenologico husserliano, indubbiamente, costituisce la causa principale di tale incomprensione[3]; ma essa nel complesso non giustifica il fatto (o misfatto!) che molti protagonisti della cultura contemporanea, a vario livello e genere, così come diverse tendenze di pensiero affermatesi negli ultimi tempi[4], abbiano attinto a piene mani dal sottofondo fertile della Fenomenologia husserliana, senza preoccuparsi affatto di condividere con essa la presunta originalità delle proprie conclusioni[5].

Era stato lo stesso Husserl, nei Prolegomena alle sue Ricerche logiche (1900)[6], a rassicurare i matematici – e gli scienziati specialisti in generale – affermando che: «il filosofo non intende rubare il mestiere allo scienziato specialista, ma soltanto pervenire a una comprensione evidente del senso e dell’essenza delle sue operazioni in rapporto ai metodi e alle competenze»[7]. A tal fine, si può comprendere bene come l’ars inventiva dello scienziato specialista e la critica della conoscenza del filosofo siano «attività scientifiche che si integrano a vicenda, e solo attraverso di esse si realizza la piena ed evidente comprensione teoretica, che abbraccia tutte le relazioni essenziali»[8].

Se la Fenomenologia si propone, fin dal suo principiarsi, come metodo critico di ogni scienza, che ha il compito di fissare il senso d’essere del suo oggetto e di rendere chiaro il suo metodo[9], allora la scienza in generale, la fisica nella fattispecie, risulta cieca[10] nei confronti delle risultanze teoretiche cui giunge il metodo fenomenologico. Quest’ultimo costituisce quel campo di indagini neutrali, nel quale si radicano le diverse scienze particolari. Esso non solo analizza e descrive, nella loro generalità essenziale, i vissuti della rappresentazione sensibile, ricollocandoli empiricamente come eventi reali all’interno della realtà naturale, ma dischiude le fonti originarie dalle quali scaturiscono i concetti fondamentali e le leggi ideali di cui si servono le varie scienze, soprattutto le scienze esatte e la matematica in primis[11].

L’ingenuità dello scienziato che indaga la natura e il mondo in generale è la causa principale, per Husserl, di questa cecità di fronte al fatto che «tutte le verità che egli attinge come obiettive e il mondo stesso obiettivo, che costituisce il substrato delle sue formule, è una formazione di vita sua propria»[12]. Il vero problema non è, dunque, quello della possibilità della scienza, di un ripensamento del suo metodo autentico, o di una sua rifondazione, ma soprattutto del senso profondo delle esperienze che l’uomo compie di fronte ai dati del mondo-della-vita pre-scientifico, di che cosa può proporsi di raggiungere al di là di ciò che esperisce e considera nella dimensione del mondo in cui plasma il materiale pre-scientifico[13].

Si tratta di dare spazio, quindi, a una dimensione inesplorata e virtuale, che non si configura come un’alternativa idealistica a una compagine strettamente oggettivo-realistica, ma che fa direttamente riferimento a una dimensione libera, intuitiva e creatrice dello spirito umano che precede qualsiasi formazione e/o teorizzazione scientifica. Dare spazio, quindi, a quella coscienza immanente, che Maurice Merleau-Ponty chiamava «la coscienza, paradossale e irrefrenabile del fisico creativo, di accedere a una realtà con un’invenzione che rimane tuttavia libera»[14].

Einstein si agita proprio in questa sorta di dilemma: dare per certa ed evidente la razionalità reale del mondo – come imponeva di fare la fisica classica – oppure, spingersi al suo limite estremo. Per molti versi, anche lui è stato il portavoce di quello spirito classico che non ammetteva incertezze e salti pindarici. Sappiamo, infatti, che non è mai stato in grado di considerare come definitive le formulazioni della meccanica quantistica, che, diversamente da come aveva fatto la fisica classica, negavano le proprietà fisse e reali delle cose, degli individui fisici, degli enti geometrici, ma che invece avevano tentato di descrivere il ritmo e le probabilità di certi fenomeni oggettivi all’interno della materia. Egli non è stato mai veramente in grado, fino alla fine, di raccogliere l’idea di una realtà che, di per sé e, in ultima analisi, sarebbe nient’altro che un tessuto di probabilità virtuali[15].

 

  1. Ingenuità «reale» e mondo pre-scientifico «virtuale» nel confronto tra Husserl e Einstein

In una lettera del 30 ottobre 1929 al dottor Hermann Vollmer[16], un pediatra di origine ebraica residente a Heidelberg, Einstein affermava di «aver cercato in qualche modo di familiarizzare con l’opera di Edmund Husserl»; ma certamente il compito non doveva essere stato così facile, visto che si affrettava a precisare: «La visione d’essenza (Wesenschau) è come un accessorio, qualcosa che mi rimane completamente sconosciuto – Wesenschau ist mir nebst der Zubehör ein spanisches Dorf geblieben»[17].

L’inevitabile ricerca del significato nascosto della «visione d’essenza» husserliana, lo sforzo diuturno per cercare di afferrare quell’elemento teoretico indispensabile alla propria opera, indirizzarono Einstein a ingaggiare un confronto-scontro proprio con la Fenomenologia husserliana, dando corpo a una serie di considerazioni, che dal punto di vista della struttura concettuale e terminologica di base, sembrano seguire da vicino quelle proposte da Husserl.

Non si fa attendere, dunque, la risposta di Einstein[18]:

Il fisico non può lasciare semplicemente al filosofo la considerazione critica dei fondamenti teorici; è solo lui infatti che sa meglio e sente più attentamente dov’è che la scarpa fa male; e nel cercare un nuovo fondamento, egli deve sforzarsi di chiarire a se stesso fino a che punto i concetti che egli usa sono fondati e costituiscono qualcosa di insostituibile[19].

Subito dopo, però, egli sembra applicare fattivamente lo schema fenomenologico husserliano, proprio nel momento in cui si tratta di definire «quale sia» e «cosa sia» la realtà esterna.

Egli afferma: «Non è possibile stabilire una differenza tra impressioni sensoriali e rappresentazioni o, quanto meno, non è possibile con certezza assoluta»[20]. Ma proprio di fronte al compito teorico di una tale differenziazione, Einstein deve arrendersi, dando così per scontata l’esistenza di un mondo di «esperienze sensoriali, intese come esperienze psichiche di tipo particolare»[21].

Nella Crisi delle scienze europee (1936), tuttavia, il pensiero husserliano diventa estremamente critico e sferzante, soprattutto nei confronti dell’ingenuità dello scienziato, un’ingenuità che determina per noi un mondo già dato, un mondo che ci è dato, appunto, nella naturalità, come mondo costantemente vero[22]. Giammai ci sfiorerebbe il pensiero che potrebbe esistere un mondo differente da quello che viviamo nei nostri modi soggettivi di rappresentazione e di datità, né tantomeno vorremo qui instillare il dubbio su un tale dualismo. Dire «mondo» significa dire totalità delle realtà «realmente essenti», delle realtà che non solo soltanto presupposte, dubbie, discutibili, bensì delle «realtà reali effettive» (Husserl usa l’aggettivo «wirklich» nel senso appunto di «effettive/effettuali») che, in quanto tali, conservano questa loro realtà nel circolo costante delle modificazioni di validità cui sono sottoposte[23].

L’atteggiamento ingenuo dello scienziato, secondo la Fenomenologia, si basa sull’accettazione tout court dell’esperienza come fonte originaria di validità per ogni scienza sperimentale. Ma non è questo il senso in cui è legittimo dire che esse sono scienze sperimentali, che esse, per principio e da principio, aderiscono all’esperienza e vengono verificate mediante l’esperienza. Ciò è senz’altro vero in un altro senso, nel senso proprio in cui l’esperienza è un’evidenza che si presenta nel mondo-della-vita pre-scientifico e come tale è la fonte di evidenza, potremmo dire, virtuale delle constatazioni obiettive delle scienze, le quali, dal canto loro, non sono mai «esperienze dell’oggettività»[24]. Infatti, per Husserl, l’oggettività non è appunto esperibile, essa rappresenta solo una forma di «schematizzazione intuitiva» (Veranschaulichung), implementata dai «modelli» della matematica e delle scienze naturali, una via che dovrebbe ricondurre all’evidenza originaria in cui la datità evidente del mondo-della-vita ha attinto e sempre di nuovo attinge il suo senso d’essere pre-scientifico[25].

Questa scala di «gradi di evidenza» (Evidenzstufen), che mediante l’epochè fenomenologica, conduce all’orizzonte virtuale del «mondo-della-vita», in quanto dominio di evidenze originarie, ovvero «terreno su cui si fonda il mondo scientificamente vero e che insieme lo include»[26], dischiude un’universalità realmente – e non più virtualmente – concreta, sia come attualità che come orizzonte, come «mondo» che «include in sé tutti i complessi di validità raggiunti dagli uomini rispetto al mondo della loro vita in comune», il mondo, quindi, delle «esperienze intersoggettive»[27].

Certo, Husserl e il suo metodo fenomenologico non dispongono di un prontuario in base al quale si possa sapere come questo «mondo-della-vita» intuitivo possa diventare un tema del tutto indipendente, come possa rendere possibili gli enunciati scientifici, dal momento che a esso ci si deve riferire proprio in quei momenti di crisi delle scienze, dove viene ricercato un fondamento di vera oggettività, ossia una validità necessaria puramente metodica, che noi come chiunque altro, possiamo verificare appunto metodicamente[28].

La vera realtà, dunque, per lo scienziato non è costituita da atomi, da masse, da punti, da linee, ecc., egli ha bisogno di dirigere la sua attività del cogliere, dell’avere e del tenere in pugno (Im-Griff-haben und -halten), sulle realtà pensabili che si costituiscono come «temi» virtuali dell’attività di ricerca sulla natura: egli si occupa dell’atomo, della massa gravitazionale, del punto geometrico, della linea d’universo, mai come oggetti di validità d’essere pre-scientifica ma soltanto attraverso il «tema-atomo», il «tema-massa-gravitazionale», ecc. Il reale-sensibile-cosale, il vero esistente, funge qui da «presupposto» per il virtuale, ovvero porta in sé una validità d’essere fondante, ma non è a sua volta oggetto di un peculiare interesse teoretico[29]. Pertanto, il reale che funge da presupposto per l’attività teoretica-tematica è disposto nell’orizzonte universale del mondo pre-scientifico (quello cui fa riferimento Einstein), il mondo ingenuamente e ovviamente esistente, in cui noi costantemente viviamo e in cui siamo coscienti di vivere.

A questo punto, qualcuno potrebbe obiettare che qui si istituisce una contraddizione, una sorta di dualismo cartesiano, tra ciò che costituisce la sfera «scientifico-tematica» e la sfera della «tematica-pre-scientifica»; ma l’intento della Fenomenologia è proprio quello di dimostrare come si possa conferire nuova validità d’essere alla sfera scientifico-tematica rimanendo stabilmente fissati nel mondo pre-scientifico, indagando tematicamente, non da un punto-di-vista «altro» ma da un punto-di-vista «interno»[30], la relazione trascendentale (immanente) tra soggetto che esperisce a partire dal «proprio-corpo» (Leib) e mondo dell’esperienza nella sua infinita relatività[31].

Appena si produce questa nuova direzione della ricerca, si evidenziano tre momenti fondamentali del metodo fenomenologico: l’epoché, appunto, in cui il Mondo-della-vita pre-scientifico diventa un primo titolo intenzionale, un indice, un filo conduttore, per un’indagine che voglia risalire alla molteplicità dei modi di apparizione e alle loro strutture intenzionali. In una seconda stratificazione d’indagine, si deve rivolgere l’attenzione al polo egologico e ciò che gli è proprio, la sua temporalizzazione; e in quanto portatore della temporalità, l’io come soggettività costruttivamente fungente, è ciò che è nell’intersoggettività.

Questo ultimo ma fondamentale momento comporta i nuovi temi delle sintesi che investono l’io specifico e l’io-altro, la sintesi io-tu e la sintesi più complicata del noi. Ma questa non è altro che una nuova forma di temporalizzazione, la temporalizzazione della simultaneità dei poli egologici, che si compie sempre nell’orizzonte personale in cui ogni Io è immerso[32].

  1. Temporalità fenomenologica nel Manoscritto «Zeit» (1929) di A. Einstein: il virtuale che diventa reale

Poniamo ora in situazione dialogante le istanze della temporalità fenomenologica con alcune delle più importanti, benché inedite, riflessioni einsteiniane sullo stesso argomento.

Nell’ouverture del manoscritto Zeit (Tempo)[33], è come se Einstein avesse già applicato l’epoché fenomenologica all’intero mondo naturale intuitivo, e quale risultato primario egli ottiene una serie di momenti d’esperienza, virtualmente costituiti, come «vissuti» (Erlebnisse), nella coscienza di un Io puro. Mediante tale riduzione fenomenologica, la coscienza rinuncia al suo legame appercettivo con la realtà materiale e il tempo trascendente, quello fisico, ritrova in essa la fonte della sua costituzione originaria[34].

Seguiamo ancora una volta da vicino l’ordito delle riflessioni einsteiniane:

Il concetto fisico di tempo corrisponde al concetto di tempo di un pensiero extra-scientifico (außer-wissenschaftlichen Denkens). Quest’ultimo, però, ha la sua origine nell’ordine cronologico dei vissuti (Erlebnisse) del singolo, e dobbiamo accettare tale ordine come qualcosa di dato originariamente.

Sperimento l’adesso, o più specificamente, l’esperienza sensoriale attuale, insieme con i ricordi di esperienze sensoriali precedenti. Su ciò si fonda il fatto che le esperienze sensoriali ultime sembrano formare una serie, quella temporale del prima e del dopo. La serie di tali vissuti è intesa come un continuum unidimensionale. Le serie di vissuti possono essere ripetute in quanto sono riconosciute come uguali. Si possono anche ripetere, sostituendosi alcune esperienze con altre, senza che il carattere di ripetizione per noi sia celato. Così formiamo il concetto di tempo, come una cornice unidimensionale, che può essere riempita da diverse esperienze. Uguali serie di vissuti corrispondono agli stessi intervalli di tempo soggettivi[35].

Di qui la possibilità che l’io diriga il suo sguardo su questo vissuto virtuale e lo colga effettivamente esistente e perdurante nella coscienza fenomenologica[36].

Husserl aveva affermato in Idee I che ogni adesso di Erlebnis ha pure necessariamente il suo orizzonte del dopo in una corrente infinita di adesso che costituisce il tempo-coscienza, ovvero le possibili datità della percezione riflettente che abbracciano l’Io puro[37].

Il passaggio da questo Io-tempo (Ich-Zeit) al concetto pre-scientifico di tempo è collegato alla formazione dell’idea di un mondo esterno reale indipendente dal soggetto. In questo senso, all’esperienza soggettiva viene assegnato un evento oggettivo, e nello stesso senso all’Io-tempo dell’esperienza (del vissuto) corrisponde un tempo dell’evento (der Ich-Zeit des Erlebnisses eine Zeit des entsprechenden Ereignisses). A differenza delle esperienze, gli eventi esigono l’ordine temporale che è valido per tutti i soggetti[38].

Impossibile negare la pregnanza fenomenologica delle considerazioni einsteiniane. Heidegger si chiedeva proprio in quegli anni: «Sono Io l’adesso? In tal caso sarei io stesso il tempo e ciascun altro sarebbe il tempo. [...] Io dispongo forse dell’essere del tempo e con l’adesso intendo, oltre al tempo, anche me stesso? Sono io stesso l’adesso e il mio esserci è il tempo?»[39]. Queste inesauribili domande mirano innanzitutto a comprendere quale sia il nostro vincolo indistruttibile con questo mondo-di-eventi trascendente, «questo perpetuo rilevamento sulle cose, questa installazione continua fra di esse, in virtù della quale, primariamente, è necessario che io inerisca a un tempo, a un luogo, quali che siano»[40].

La formazione di questa oggettivazione (Objektivierung) non dovrebbe incontrare problemi se l’ordine temporale delle esperienze che corrispondono a una serie di eventi fosse la stessa per tutti gli individui. Con le percezioni visive immediate, questa completa uniformità consiste nell’esperienza di tutti i giorni. Pertanto, doveva maggiormente affermarsi la nozione di un ordine di tempo oggettivo. Con una più raffinata formazione dell’idea di un mondo oggettivo degli eventi era indispensabile che si complicasse ancora di più la concezione della dipendenza reciproca degli eventi e dei vissuti, ottenuta inizialmente per mezzo di regole e modi di pensare spontanei, in cui in particolare il concetto di spazio gioca un ruolo molto importante. Questo perfezionamento conduce infine alla scienza della natura[41].

Si compie, così, il delicatissimo übergang (passaggio) einsteiniano dal livello fenomenologico-trascendentale dell’Erlebnis, del vissuto, a quello iletico-fisicalistico dell’Uhrzeit, del tempo fisico dell’orologio, che richiede una misurazione oggettiva che non può e non deve tuttavia prescindere dall’accordo intersoggettivo sull’essenza del tempo.

Per misurare il tempo viene utilizzato l’orologio. Questa è una cosa che in sequenza automatica (pratica) produce delle serie di eventi uguali (ossia, dei periodi). La misura temporale è il numero di periodi passati (ovvero il tempo dell’orologio). Il tempo di un evento è simultaneo con il tempo dell’orologio. Questa definizione si avvicina a cogliere quando l’evento dell’orologio è pensato spazialmente immediato; quindi, tutti gli osservatori, indipendentemente dalla loro posizione, percepiscono lo stesso tempo dell’orologio come veramente contemporaneo con l’evento (attraverso l’occhio)[42].

Con la nascita della Teoria della Relatività speciale, e soprattutto, con l’introduzione della costante c nella legge di propagazione della luce nel vuoto, si è considerato come il concetto di simultaneità di eventi spazialmente distanti non possieda un significato oggettivo assoluto[43].

Conclude Einstein, ricalcando la conclusione cui era pervenuto precedentemente Husserl[44], che:

Si deve piuttosto attribuire a ogni sistema inerziale il suo tempo particolare. Se non viene applicato alcun sistema di coordinate (sistema inerziale), il presupposto di simultaneità di eventi spazialmente distanti non ha senso. Questo dipende dalla necessità che spazio e tempo si fondano in un unico continuo quadridimensionale[45].

 

  1. Cinestesi fenomenologica della Relatività: «L’Arca-Terra non si muove» e l’ Essere obiettivo «virtuale» del Sig. Michelson

Ci accingiamo ora a passare al setaccio un manoscritto di Husserl del 1934, pubblicato per la prima volta da Marvin Farber in un volume commemorativo del 1940, dal titolo: Rovesciamento (Umsturz) della dottrina copernicana nell’interpretazione dell’attuale visione del mondo. L’Arca-Terra non si muove. Ricerche fondamentali sull’origine fenomenologica della corpo-spazialità della natura nel suo primo significato scientifico-naturale. Tutto quanto concerne necessarie ricerche iniziali[46].

Tale manoscritto, spesso ignorato dalla ricerca storico-filosofica italiana, è la testimonianza più vivida di un Edmund Husserl alle prese con una riscrittura critico-fenomenologica della Teoria della Relatività einsteiniana, negli stessi anni in cui portava a termine i canovacci fondamentali per la stesura della sua Crisi[47].

È proprio a quest’ultima opera, e in particolare alla lettera b) del § 34, che colleghiamo teoreticamente l’analisi di tale manoscritto husserliano, come fosse un’appendice esplicativa, in quanto ci sembra ampliare e precisare il senso di quella intensa, quanto misteriosa, citazione di Einstein, l’unica finora attestata, che lo stesso Husserl ci propone:

Einstein sfrutta gli esperimenti di Michelson e le verificazioni compiute da altri studiosi mediante apparecchi che sono copie di quelli di Michelson, con tutte le misurazioni, le constatazione di coincidenze, ecc, che vi ineriscono. È indubbio che tutto quanto entra in funzione, le persone, le apparecchiature, la sede delle ricerche, ecc. può diventare a sua volta, nel senso usuale, tema di una problematica obiettiva, della problematica delle scienze positive. Ma era impossibile che Einstein elaborasse una costruzione teoretica, psicologica-psicofisica dell’essere obiettivo del Sig. Michelson; egli poteva soltanto servirsi dell’uomo accessibile a lui come a chiunque altro, nel modo pre-scientifico, quale oggetto immediato di esperienza; l’esistenza di quest’uomo, la sua vita, le sue attività e i risultati che egli ottiene nel mondo della vita comune, sono il presupposto di tutti i problemi, dei progetti, delle operazioni scientifico-obiettive di Einstein riguardati gli esperimenti di Michelson. Si tratta, naturalmente, del mondo comune a tutti, quello dell’esperienza, in cui anche Einstein, come qualsiasi scienziato, si sa incluso, in quanto uomo, anche durante le sue operazioni scientifiche. Ma proprio questo mondo e tutti gli eventi rientranti in esso, che, a seconda del bisogno, vengono adoperati per scopi scientifici o di altro genere, reca d’altra parte, per qualsiasi scienziato nell’atteggiamento tematico orientato verso le “verità obiettive”, il marchio del meramente soggettivo-relativo[48].

Ma perché Husserl cita proprio l’esperimento di Michelson sulla indimostrabilità dell’Etere luminifero e obietta provocatoriamente ad Einstein di essersi appropriato dell’«essere obiettivo del Sig. Michelson», ottenuto mediante i già noti esperimenti dell’interferometro? Cosa si celava per Husserl dietro l’evidenza apodittica di tali esperimenti?

Michelson e Morley avevano concepito il proprio esperimento per dimostrare che la luce può avere velocità diverse per diversi osservatori in moto relativo rispetto all’etere, con lo scopo primario, dunque, di provare il moto della Terra attraverso l’etere. Il fallimento dell’esperimento non poteva far altro che smentire gli assunti di partenza, mostrando, da una parte, che la luce ha sempre la stessa velocità per tutti gli osservatori, e, dall’altra, che non è possibile dimostrare alcun moto relativo della Terra rispetto all’etere[49].

Dunque, l’«essere obiettivo di Michelson» non poteva essere compreso se non assumendo virtualmente la Terra come «immobile» rispetto all’Etere, ma ciò era manifestamente assurdo! Non si poteva certo pensare che l’etere, che permeava l’intero universo, seguisse nel suo moto la Terra, un minuscolo frammento di una delle tante galassie che popolano l’universo, la quale non può più essere pensata come centro dell’intero universo e per di più non come centro «immobile». Ecco allora svelato il senso dell’«Essere del Sig. Michelson», che nel significato husserliano diventa l’ «essere virtuale del Sig. Michelson»: un senso che tendeva appunto non a verificare e confermare, bensì a stravolgere, a «capovolgere» (Umsturz!) completamente le idealizzazioni, le «immagini-del-mondo» che la fisica classica (galileiana, copernicana, einsteiniana, ecc.) era andata via via costruendo sulla realtà originariamente pre-scientifica, spacciandole come «vere» e uniche realtà oggettive (obiettive: come dice Husserl).

La Terra, immaginata da Husserl in questo manoscritto come una grande nave, un’Arca primordiale, non è altro che un immenso sistema di riferimento stazionario, apparentemente in quiete, immobile per noi che ci viviamo sopra, perché la velocità e l’intensità del suo moto non può affatto essere percepita rispetto a quella della luce! Tale velocità è virtuale, ma non per questo, meno reale! La percezione della suo moto è simile a quella di un essere vivente, l’ «essere virtuale del Sig. Michelson», che si trova su un’Arca e che non avverte alcun movimento relativo dell’Arca stessa rispetto a se stesso. Ma questo non significa che l’Arca sia assolutamente immobile o realmente immobile per un altro essere vivente che osserva da un’altra parte dell’universo.

Emerge a questo punto l’importanza della cinestesi fenomenologica. L’importanza della percezione del «corpo proprio» in base alla propria e altrui «posizionabilità»[50], come datore di senso, portatore di quel significato reale, che riempie di senso le strutture concettuali delle scienze naturali[51].

Le cinestesi sono qualcosa di diverso dai semplici movimenti del corpo proprio, che Husserl denomina «Leib», per distinguerlo dal semplice corpo, il «Körper», in cui tali cinestesi si rappresentano materialmente e a cui sono intimamente connesse nella loro duplice natura di cinestesi interne e movimenti corporei-reali esterni. La rappresentazione del moto dipende dalla mobilità del corpo e solo in base al campo percettivo si costituisce la realtà cosale: tutto avviene all’interno di una sorta di possibilità (Vermöglichkeit) cinestetica, «il cui correlato è il sistema degli inerenti effetti concordemente possibili»[52].

Così l’essere si trasforma in apparenza, in dubbio, in essere-possibile, in essere-probabile: la cosa singola percepita ha senso in un orizzonte aperto di possibili percezioni, in cui acquisisce senso solo in quanto essa «ritaglia» un certo campo di cose percepite in un universo di possibili percezioni in cui si rappresenta il mondo. Validità e rettifica sono concetti che vanno qui di pari passo: soltanto attraverso mutue rettifiche ha luogo anche una costante evoluzione della validità della percezione della cosa[53]. Tale evoluzione di validità riceve maggiore sviluppo nell’esperienza intersoggettiva: le mie esperienze e i risultati delle mie esperienze si connettono con quelle degli altri, in una connessione analoga alla serie delle mie esperienze o delle esperienze degli altri; si produce la concordanza o discordanza intersoggettiva, attraverso il commercio reciproco e la critica. Ognuno quindi perviene a una stabile validità, in cui si esperisce un mondo che è sempre un unico e medesimo mondo, esperito ed esperibile, in quanto orizzonte di esperienze possibili, orizzonte universale comune a tutti gli uomini delle cose realmente essenti[54]. Per «cose» Husserl intende le «cose dell’esperienza», ciò che ognuno vede ed esperisce, ciò che per lui è valido come essente e come «essente così e solo così»[55]. Husserl precisa ancora che:

La cosa è propriamente ciò che nessuno ha visto realmente [mio il corsivo], perché è continuamente in movimento, continuamente e per chiunque; per la coscienza, è l’unità della molteplicità aperta e infinita delle mutevoli esperienze proprie e altrui e delle cose dell’esperienza[56].

Scorgiamo solo ora l’importanza delle riflessioni husserliane per la costituzione di «una dottrina fenomenologica dell’origine della spazialità, della corporeità, della natura nel senso della scienza naturale e quindi anche per una teoria trascendentale della conoscenza scientifico-naturale»[57].

Ecco, dunque, illustrato l’incipit del manoscritto husserliano di cui ora riportiamo il testo in traduzione:

Distinzione fra il mondo nell’apertura del mondo circostante [Umwelt] – e quello nell’infinità posta concettualmente. Senso di questa infinità – “Mondo esistente nell’idealità dell’infinità” – Qual è il senso di quest’esistenza, del mondo infinito esistente? L’apertura in quanto inerenza d’orizzonte [Horizonthaftigkeit] non perfettamente concepita, rappresentata, ma già implicitamente formata. Apertura del paesaggio – il fatto di sapere che giungo alla fine ai confini della Germania, e che poi viene il paesaggio francese, danese, ecc. Io non ho percorso, né ho potuto conoscere, ciò che si trova nell’orizzonte, ma so che altri hanno potuto conoscere un po’ di più e altri ancora qualcosa in più – rappresentazione di una sintesi dei campi di esperienza attuali, che indirettamente rende riproducibile la rappresentazione della Germania, della Germania nel contesto dell’Europa, l’Europa stessa, ecc. – infine la Terra. Rappresentazione della Terra come unità sintetica che si va attuando in modo analogo a come, in un’esperienza continua e coerente, i campi d’esperienza dei singoli uomini si uniscono in un unico campo d’esperienza. Per via analogica, io mi approprio anche dei resoconti degli altri, delle loro descrizioni e constatazioni e mi formo delle rappresentazioni universali. Bisogna distinguere espressamente:

  1. [La via che consiste nel] rendere intuitivi gli orizzonti della “rappresentazione del mondo” data, come essa è stata formata in trasposizioni appercettive, anticipazioni concettuali e progetti;
  2. La via della costituzione continua della rappresentazione del mondo a partire da una rappresentazione del mondo già data, per es. il mondo circostante del negro o del greco in confronto al mondo copernicano delle scienze naturali dell’età moderna.

Noi copernicani, noi uomini dell’età moderna diciamo:

La Terra non è “la natura intera”, essa è una delle stelle nello spazio universo infinito. La Terra è un corpo di forma sferica, sicuramente non percepibile nella sua interezza una sola volta e da uno solo, bensì in una sintesi primordiale come unità di esperienze individuali connesse reciprocamente. Ma è solo un corpo! Anche se costituisce per noi il terreno empirico per tutti i corpi, nella genesi empirica della nostra rappresentazione del mondo. Questo “suolo” [Boden] dapprima non viene esperito come corpo, ma un livello superiore della costituzione del mondo, a partire dall’esperienza, esso diventa il corpo-suolo [Boden-Körper], e ciò raccoglie annullandola [l’Aufheben hegeliano appunto] la sua forma originaria di suolo. Esso diventa un corpo totale [Totalkörper]: ovvero il latore di tutti i corpi che finora sono sufficientemente esperibili in modo completo (normalmente) da tutti i lati, empiricamente, nel modo in cui essi sono esperiti, mentre per il momento non si tiene conto delle stelle nel novero dei corpi. Dunque, la Terra è il grande masso sul quale essi si poggiano e a partire dal quale si sono sempre formati o avrebbero potuto formarsi per noi dei corpi più piccoli, per frammentazione o per separazione.

Se la Terra in quanto corpo è pervenuta a validità costitutiva – mentre d’altra parte le stelle vengono considerate solo come corpi non perfettamente accessibili, che si mostrano in fenomeni di lontananza, ciò intacca le rappresentazioni di quiete e di moto che devono essere loro attribuite. È sulla Terra o a Terra, a partire da lei o verso di lei, che ha luogo il movimento. La Terra stessa, nella forma originaria di rappresentazione, non si muove né è in riposo, e in riferimento a essa quiete e moto hanno dapprima senso. Poi, però, certamente la Terra si “muove” o è in quiete – così come i corpi celesti, e la Terra in quanto è uno di essi. Come il moto e la quiete acquisiscono un senso d’essere legittimo nell’ “intuizione del mondo” [Weltanschauung] allargata o riformata e come acquisiscono una loro intuizione che si mantenga concepibile, ossia l’evidenza? Anche se non è una trasposizione appercettiva innaturale, tuttavia, essa deve sempre potersi giustificare.

In generale, l’elaborazione dell’intuizione del Mondo, dell’intuizione dei singoli corpi, dello spazio e del tempo, della causalità naturale – vanno reciprocamente di pari passo.

Il muoversi dei corpi nella funzione intuitiva originaria della Terra come "suolo", ovvero, come corpo inteso nella sua originarietà, si trova effettivamente in una possibile mobilità e variabilità. Essere lanciati in aria o comunque muoversi verso non so quale altra direzione in riferimento alla Terra come Terra-suolo. I corpi nello spazio terrestre sono mobili – hanno un orizzonte di possibile mobilità e anche quando il movimento termina, l’esperienza mostra la possibilità di ulteriori movimenti, insieme, eventualmente, alla possibilità di una nuova causalità cinetica mediante un possibile urto, ecc. I corpi si trovano effettivamente nell’ambito di possibilità aperte, che si realizzano in ciò che di essi effettivamente avviene, ovvero nel loro movimento, nella loro variazione (invarianza come peculiare forma di possibilità della variazione). I corpi sono in movimento effettivo e possibile, una possibilità sempre aperta all’effettuazione, alla continuazione, al cambiamento di direzione, ecc. I corpi sono anche esperiti “sotto” i corpi effettivi e possibili, e correlativamente essi sono anche esperiti effettivamente o potenzialmente nei loro movimenti e variazioni effettivi, ecc., nei loro “casi” effettivi. Possibilità che sono fornite in anticipo, a priori; e come tali, come possibilità esistenti, possiedono una capacità di rappresentazione intuitiva e una relativa giustificazione intuitiva. Esse possiedono ciò in quanto modalità che appartengono all’essere dei corpi e della molteplicità dei corpi.

In ogni perfezionamento dell’appercezione del mondo, l’unità di una “intuizione del mondo” deve confermare la possibilità del mondo stesso – in quanto la possibilità e l’universo di aperte possibilità che costituisce un elemento fondamentale della realtà effettiva del mondo. Il nucleo dell’esperienza attuale (a livello ontico: ciò che del mondo è esperito sotto questo o quest’altro aspetto, e che eventualmente ha già valore di realtà effettiva conosciuta, in base alla sintesi d’esperienza concorde), in quanto nucleo d’esperienza del mondo, diventa il nucleo di ciò che attraverso di lui è indicato, ed è indicato come ambito [Spielraum] di possibilità: cioè un ambito di possibilità concordanti, da perseguire per via iterativa. Il mondo si viene costituendo progressivamente ed è infine costituito – per quanto riguarda la natura come suo elemento di possibile astrazione – in una dimensione di orizzonte entro la quale l’essente, in quanto realmente effettivo, è a sua volta costituito in base a possibilità ontologiche sempre indicate. Ciò è indicato come la forma del mondo che successivamente l’ontologia porterà a concetto e giudizio, e quindi con essi verrà “pensata”; inoltre all’interno di questa forma si muove ogni indicazione induttiva, relativamente determinata, che di volta in volta determina secondo le aspettative e con il procedere dell’esperienza effettiva, sia individuale che comune, la conferma o l’invalidazione che sopraggiungono solo quando si mostra/emerge la realtà effettiva.

L’esperienza effettiva, nell’ambito delle effettive possibilità che si indicano induttivamente, penetrando in modo univocamente sintetico nell’orizzonte e cogliendo un tratto del campo mondano che si offre in modo effettivamente intuitivo e come un essere comprovato – esibisce corpi in quiete o in movimento, nell’invariabilità o variabilità per me o eventualmente per noi che ci troviamo in una comunitarizzazione attuale. Ma ciò che emerge alla fine è un aspetto, nel quale non tutto è già deciso su ciò che è determinante per il senso del mondo pienamente costituito sulla base delle possibilità ancora implicite nell’orizzonte. Qui vale il fatto che: la quiete si dà come qualcosa di definito e di assoluto, e altrettanto il movimento; vale a dire, al primo grado in sé della costituzione della Terra come suolo.

Ma la quiete e il moto perdono il proprio stato assoluto, non appena la Terra diventa un corpo cosmico, nella molteplicità aperta dei corpi circostanti. Moto e quiete diventano necessariamente relativi. E se dovesse sorgere un contrasto in proposito, ciò si verifica solo perché l’attuale appercezione del mondo, come mondo dell’orizzonte copernicano infinito, non è divenuta per noi un’appercezione confermata da un’intuizione del mondo effettivamente realizzata. (“Appercezione” del mondo, appercezione in generale, è la coscienza di validità, con il senso d’essere mondano e con tutti i livelli della costituzione). La trasposizione appercettiva, per come ha avuto luogo, è rimasta soltanto un’indicazione ai fini di un’intuizione verificatrice, invece di costituirsi effettivamente in modo esauriente come una dimostrazione.

Come è propriamente determinato in se stesso un corpo, il suo luogo, la sua posizione temporale, la sua durata e forma, in cui esso in quanto così qualificato è identificabile e riconoscibile, e come deve essere pensato determinabile? Ogni dimostrazione, ogni conferma delle appercezioni del mondo che si vanno formando continuamente e che si sono già formate – come crescenti trasposizioni appercettive nelle quali, a partire da un’oggettività e dal mondo già costituiti, “il” mondo stesso viene dotato di un senso di grado superiore, fino al mondo costituito in modo definitivo e completo, che di continuo si costituisce nello stile compatto che gli è proprio – ogni dimostrazione trova il suo proprio punto di partenza soggettivo e il proprio ancoramento [Ankergrund] ultimo nell’Io, come fonte di legittimazione. La conferma della nuova “rappresentazione del mondo”, quella di senso leggermente modificato, trova il suo primo appoggio e il suo nucleo nel mio campo percettivo e nella descrizione orientata delle partizioni di mondo, sul mio corpo proprio [Leib], come corpo centrale [Zentralkörper] fra gli altri, dati tutti questi ultimi con il loro peculiare contenuto essenziale intuitivo, in quiete o in movimento, in stato di variazione o di invarianza. Si è già formata qui, dunque, una certa relatività di quiete e di moto. Relativo è necessariamente un movimento che venga esperito in riferimento a un “corpo-suolo” esperito come in quiete, con cui il mio corpo proprio corporeo [körperlicher Leib] è un tutt’uno. Quest’ultimo può essere a sua volta in movimento, in quanto movente-si, ma può poi sempre mettersi in quiete ed esperirsi come stazionario. Naturalmente però il corpo-suolo relativo è relativamente in quiete e relativamente in movimento in riferimento al suolo terrestre, che non è esperito come corpo – non almeno in modo effettivamente originario. “Corpi-suolo” relativi: io posso trovarmi su una macchina in corsa, che in questo caso è il mio corpo-suolo, posso essere trasportato su un vagone ferroviario, e allora il mio corpo-suolo è in primo luogo il corpo [Körper] che mi sostiene nel mio movimento e per quest’ultimo lo è a sua volta il vagone ecc. La macchina è esperita come stazionaria. Però se guardo fuori dico che si muove, nonostante che io veda che il paesaggio di fuori è in movimento. So che sono salito in macchina, ho visto simili macchine in movimento con dentro della gente, so che anche loro, come me, quando ci salgo, vedono il mondo circostante in movimento ecc. Conosco bene l’inversione del modo di esperire la quiete e il movimento fin dai tempi in cui saltavo su e giù dal carrettino-giocattolo in movimento. Ma tutto è sempre riferito in primo luogo al suolo di tutti i corpi-suolo relativi, al suolo terrestre: tutte le forme mediate sono implicate nella mia appercezione e vi posso ricorrere per una conferma dell’accordo.

Quando “penso” quindi alla Terra come un corpo mosso, per poterla pensare così, in generale per pensarla come un corpo, nel senso più originario e, cioè, per poter ottenere in rapporto a essa una possibile intuizione nella quale la sua possibilità d’essere come corpo possa divenire direttamente evidente, ho bisogno di un suolo cui si riferisca ogni esperienza del corpo e quindi anche ogni esperienza dell’essere perseverante nella quiete e nel moto. Qui bisogna sottolineare il fatto che io posso continuare a camminare sul mio suolo terrestre e in certo modo esperire in modo sempre più completo il suo essere “corporeo”; Esso trova il suo orizzonte per il fatto che io posso percorrerlo ed esperire sempre di più sia il suolo stesso che tutto ciò che si vi si trova. Lo stesso accade con gli altri uomini che vi camminano sopra con il loro corpo e che di questo suolo e di tutto ciò che su di esso e sopra di esso si trova possono fare esperienza insieme a me, fino a ottenere un accordo. Un pezzo per volta imparo a conoscere la Terra e sperimento anche la separabilità di parti che costituiscono dei veri e propri corpi, i quali nella loro separatezza sussistono secondo la quiete e il movimento – relativamente al suolo terrestre stazionario, che qui funge di nuovo.

Parlo qui di “Terra in stato di quiete” – ma la “Terra” come unitario suolo-Terra può venir esperito, non nel senso di stazionario e quindi non nel senso di un corpo, come proprio “un” corpo, che non possiede solo una sua estensione e una sua qualificazione, ma anche una sua “posizione” nello spazio, tuttavia come sua posizione possibilmente variabile e stazionaria o mossa. Mentre io non possiedo alcuna rappresentazione di un nuovo corpo, come tale, dal quale la terra nel suo vagare continuo ma che ritorna a sé, può ricevere senso come un corpo compatto in moto e in quiete, e finché io non ottengo alcuna rappresentazione di una sostituzione di suoli e di un divenire-corpo di entrambi i suoli, allora la terra è lo stesso suolo, ma nessun corpo. La terra non si muove – io dico forse proprio, essa è in quiete, che può tuttavia soltanto significare, ogni pezzo di terra, che io ripartisco o altri ripartiscono, o ciò che si auto-ripartisce, è in quiete o in moto, costituisce un corpo. La terra è un tutto, le cui parti – se essa sono pensate per sé, per quanto possano essere ripartite, ripartibili, sono corpi, ma come “tutto” essa non è alcun corpo. Qui abbiamo a che fare con un tutto “che si costituisce” di parti corporee, perciò non costituisce alcun corpo. Che dire della possibilità di nuovi “corpi”-suolo o piuttosto di nuove “terre” come fondamenti di relazione per l’esperienza corporea e della possibilità attesa del fatto che la Terra come l’altro corpo-suolo diventino corpi normali? Prima di tutto, sarebbe stato inutile parlare in anticipo di uno spazio vuoto nel senso di come facciamo nel mondo “astronomico” già infinito, come lo spazio in cui è inserita la terra, così come i corpi che vi sono dentro, e quello che circonda la terra.

Noi possediamo uno spazio circostante come sistema posizionale – ossia come sistema di possibili termini dei moti dei corpi. Tuttavia, abbiamo dentro sicuramente anche tutti i corpi terreni, ma la terra stessa non ha un “luogo” attuale. Diversamente forse sarà la questione se una “possibilità razionale” è ottenuta per lo scambio dei suoli.

Obiezione: Non è forse malamente esagerata la difficoltà della costituzione della Terra come corpo? La Terra non è quindi un tutto di parti implicite, ognuna nella possibilità di reale ripartizione e un corpo, ognuno ha il suo proprio posto/posizione – e così anche la terra ha un suo spazio interno come un sistema posizionale o (anche se non pensato matematicamente) un continuo posizionale rispetto alla sua intera divisibilità. Dunque, è per la stessa ragione che ogni ulteriore corpo, come divisibile, in riferimento alla sua parte, ha un luogo. Lo spazio interno e lo spazio esterno della Terra, tuttavia, costruiscono un solo spazio. O rimane ancora qualcos’altro? Ogni parte della Terra potrebbe muoversi. La Terra ha dei movimenti interni; allo stesso modo, ogni corpo solito non è solo divisibile, ma possiede le sue deformazioni e i suoi movimenti interni continui, mentre esso come tutto nella suo modo proprio può conservare o variare il suo posto nello spazio.

 Perciò, la Terra possiede deformazione e movimento interno continuo, ecc. Ma come può muoversi come “tutto”, come si dovrebbe pensare ? Non come se fosse saldamente legata – invece mancherebbe il “suolo”. Ha senso per la Terra parlare di movimento e quindi di corporeità? Quindi, il suo luogo nello spazio universo costituisce effettivamente un “luogo” per essa ? D’altra parte lo spazio universo non è proprio il sistema posizionale di tutti i corpi, in conformità col quale essi si suddividono in parti implicite della Terra (in quanto ripartite e mobili) e liberi corpi esterni? Che stranezze sono quelle dell’ “intuizione dello spazio”, ovvero di tale genere di spazio?

Ma ora dobbiamo ancora prendere in considerazione i corpi esterni – i corpi liberi che non sono partizioni implicite della Terra – e i corpi propri. Il “mio corpo proprio” [Leib] e gli “altri corpi propri”. Percepiti questi come corpi [Körper] nello spazio, di volta in volta nel loro luogo, oppure non percepiti, ma percepibili (o esperibili come modificati) come ciò che perdura continuativamente, in uno stato di moto-quiete (anche moto e quiete interni) che si dispiega su tale durata.

Il mio corpo proprio: a differenza dei corpi esterni, nell’esperienza primordiale esso non conosce né spostamento né quiete, ma solo moto interno e quiete interna. Non tutti i corpi [comuni] “si muovono” nella maniera del “io vado” o, in generale, del “io mi muovo” cinesteticamente, né così si muove l’intero suolo terrestre sotto di me. È proprio, infatti, di uno stato di quiete dei corpi il fatto che gli aspetti di questi ultimi scorrano cinesteticamente in me come “in movimento”, oppure che non scorrano, in base al mio stare fermo, ecc. Io non ho alcuno spostamento; sia che io stia fermo o sia che cammini, io ho il mio corpo proprio [Leib] come centro e attorno a me dei corpi in quiete o in moto, e un suolo senza mobilità. Il mio corpo proprio ha estensione ecc., ma non ha modificazione o invarianza posizionale nel senso in cui un corpo esteriore si presenta in movimento, allontanandosi o avvicinandosi, oppure non in movimento, vicino o lontano. Ma anche il suolo su cui il mio corpo cammina o non cammina non viene esperito come un corpo [Körper] che possa essere completamente spostato oppure no. I corpi propri degli altri sono semplici corpi [Körper] in quiete o in movimento (sempre inteso come spostamento, nel senso che si avvicina o si allontana da me); ma sono corpi propri propri [Leiber] nell’ “io mi muovo”, dove l’io è un “altro io”, per il quale il mio corpo proprio è un semplice corpo [Körper] e per il quale tutti i corpi esterni, che non sono per lui corpi propri, sono gli stessi che si danno a me. Ma anche ogni corpo proprio che è per me estraneo, è per tutti gli altri io, se si eccettua il loro proprio corpo, identicamente lo stesso corpo [Körper] e lo stesso corpo proprio [Leib] dello stesso io; e per ogni io, il mio corpo proprio è lo stesso corpo e insieme anche lo stesso corpo proprio per quello stesso altro io per loro, che sono io stesso per me.

La Terra è per tutti la stessa Terra e su di essa, in essa, al di sopra di essa, gli stessi corpi, che dominano su di lei – “su di lei”, ecc., gli stessi soggetti somatici [leiblich], cioè soggetti di corpi propri [Leibern], che sono per tutti dei semplici corpi [Körper] in un senso diverso. Ma per noi tutti la Terra è suolo e non corpo in senso pieno. Ora supponiamo che io sia un uccello e che possa volare – o anzi che io osservi gli uccelli, che sono pure esseri che appartengono alla Terra. Comprenderli significa trasporsi in loro in quanto esseri che volano. L’uccello è sul ramo, oppure sul suolo, saltella intorno, poi prende il volo: anche lui è come me nel suo esperire e agire, quando è sulla Terra ed esperisce il suolo e i diversi corpi semplici, anche di altri uccelli, del corpo proprio e dell’io incarnato [Leibesich] di altri, ecc., proprio come me. Ma egli si alza in volo – ciò è come il camminare a terra, una cinestesi attraverso la quale tutti i decorsi fenomenici, che altrimenti sarebbero percepiti come quiete e moto di corpi, si trasformano proprio come avviene nel camminare. E diverso solo in quanto il rimanere fermo, il “farsi portare dal vento” (ciò però non deve essere inteso nel senso della mera corporeità) costituisce una combinazione esperienziale con l’ “io mi muovo” e fa sempre emergere il “movimento apparente”, anche se in modo diverso, con la “variazione di posizione delle ali” e con il restare poi di nuovo fermo. Quest’ultima finisce poi con una “caduta”, col fatto cioè che l’uccello non vola più, ma si posa sull’albero o sulla Terra dove magari saltella, ecc. L’uccello si allontana dalla Terra sulla quale fa esperienze non di volo, proprio come noi, vola via e ritorna indietro: e una volta ritornato ha nuovamente le stesse modalità apparenti della quiete e del moto che ho io, che sono vincolato alla Terra; volando via e ritornando indietro va incontro a modalità apparenti motivate da altre cinestesi (quelle sue peculiari del volare), peraltro modificate in modo analogico, che pur nella modificazione hanno il significato di quiete e di moto, poiché le cinestesi del volo e quelle del camminare costituiscono per l’uccello un sistema cinestetico unico; comprendendo l’uccello, noi appunto comprendiamo questo ampliamento delle sue cinestesi, ecc. Ciò che è in quiete ha il suo proprio sistema di apparenze/apparente, che deve sempre essere stabilito in rapporto a un non-camminare, non-volare ecc.

Se consideriamo il saltar su e il ricadere di un corpo in movimento e l’inversione dei decorsi fenomenici, emerge non soltanto per me, ma per chiunque, quiete e moto nel modo consueto – così io comprendo necessariamente ognuno. Io comprendo il suo saltare all’insù proprio come tale. E comprendo anche come tali i corpi che intervengono nel mio campo visivo, sopraggiungendo per es. fin “dallo spazio vuoto” in caduta. “Come accade ciò?” Il loro essere in movimento sulla Terra si manifesta a me per il fatto che io posso modificare le cinestesi ed eventualmente accompagnarli nella loro corsa, ottenendo in tal modo quella modificazione apparente (dell’apparenza) che corrisponde alla quiete – quella stessa che per me significherebbe quiete, se io fossi cinesteticamente fermo. Questo non lo potrei fare con corpi che si muovono nello spazio ultra-terrestre, lo potrei fare soltanto se volassi. Ma io posso gettare in alto delle pietre e vedere come le stesse ricadono. Il lancio può essere più o meno basso e chiaramente le apparenze sarebbero in questo caso tanto analoghe ai movimenti che si verificano sul suolo terrestre, così da essere esperite come movimenti. Proprio come avviene per alcuni corpi, quali le bocce che rotolano, ecc., che vengono mossi da un urto, o vengono lanciati, ecc. Si dovrebbe pure accennare all’esperienza di un moto di caduta, nel caso di una caduta di un corpo terrestre che si trova in alto, per esempio, dal tetto di una casa o da una torre.

Un corpo in movimento (veicolo) e su di esso il mio corpo-proprio-aeronave [Leib-Flugschiff]. “Potrei volare così in alto tanto che la Terra mi apparirebbe come una sfera”. La Terra potrebbe essere così piccola da poterla circumnavigare da ogni parte e giungere indirettamente alla rappresentazione di sfera. Così scopro che essa [la Terra] è un grande corpo sferico. Tuttavia sorge il seguente problema: se e come io potrei pervenire alla corporeità [Körperlichkeit], nel senso che la Terra “astronomicamente” sarebbe proprio un corpo tra tutti gli altri, tra i corpi celesti. Altrettanto poco si potrebbe dire sul modo in cui un qualsiasi uccello, anche quando lo immagino in alto, potrebbe esperire la Terra come un corpo qualsiasi. Perché no? L’uccello, l’aereo si muove per noi uomini sulla Terra e per l’uccello stesso e per gli uomini che stanno sull’aereo, in quanto esperisce la Terra come “corpo”-fisso [Stamm-“Körper], ovvero un “corpo”-suolo. Ma non può l’aereo fungere da “suolo” ? Posso scambiare tra loro o pensare di scambiare suolo e corpo mosso rispetto al suolo, in quanto luogo originario [Urstätte] dei miei movimenti? Che cosa ciò comporterebbe per una modificazione dell’appercezione e come si potrebbe dimostrare? Non dovrei pensare di applicare all’aereo, nella sua valenza costitutiva (secondo la forma), tutto ciò che dà senso in generale alla Terra come mio suolo, come suolo della mia propria-corporeità [Leiblichkeit]?

Tutto questo non è forse simile al modo in cui, nel comprendere un corpo proprio altrui, presuppongo comunque il mio corpo-proprio-primordiale [Primordialleib] e tutto ciò che gli appartiene? Ma in questo caso mi è dato necessariamente in modo comprensibile il valore di esistenza dell’altro. La difficoltà si ripete con le stelle. Per poterle “esperire” e concepire indirettamente come corpi, devo già essere per me stesso un uomo sulla Terra intesa come mio suolo fisso [Stammboden]. Si dirà forse: la difficoltà non sussisterebbe se io e noi potessimo volare e disponessimo di due Terre come corpi-suolo, dalle quali potessimo raggiungere l’altra volando. Così, appunto, l’una diventerebbe corpo per l’altra che fungerebbe da suolo. Ma cosa significa due Terre? Due frammenti di una Terra con una umanità. Insieme formerebbero un unico suolo e sarebbero simultaneamente un corpo per l’altro. Avrebbero intorno a loro lo stesso spazio in comune, in cui ognuno avrebbe eventualmente come corpo un luogo mobile, ma anche il movimento relativo e irrelativo al suolo sintetico del loro insieme. I luoghi di tutti i corpi avrebbero questa relatività, la quale per quanto concerne la quiete e il moto farebbe sorgere la domanda: in relazione a (in bezug auf) quale dei due corpi-suolo?

Originariamente può essere costituito solo “il” suolo terrestre con lo spazio circostante dei corpi, tuttavia ciò presuppone già che sia costituito il mio corpo proprio e gli altri conosciuti, nonché gli orizzonti aperti degli altri, distribuiti in uno spazio-nello-spazio, che come campo aperto di vicinanza e lontananza dei corpi, circonda la Terra e dà loro il significato di corpi terrestri e allo spazio quello di spazio terrestre. La totalità del noi, degli uomini, degli “animali” è in questo senso terrestre – e dapprima non è affatto in opposizione con il non-terrestre. Questo senso è radicato e ha il suo centro d’orientamento in me e in un noi più ristretto con chi vive insieme a noi. È però anche possibile che il suolo terrestre si allarghi, in modo tale che io arrivi a comprendere che lo spazio del mio suolo terrestre primitivo è percorso da molto tempo da grandi aeronavi: su una di esse io sono nato, vive la mia famiglia, ed essa era il mio suolo esistenziale [mein Seinsboden], fino a quando non ho imparato che noi siamo solo dei naviganti sulla Terra più vasta, ecc. In tal modo una molteplicità di luoghi-suolo [Bodenstätten] e di abitazioni, può pervenire all’unità di un solo luogo-suolo. Ma al riguardo saranno poi necessarie ulteriori integrazioni.

Prima di tutto: se la Terra è costituita con la corporeità-propria [Leiblichkeit] e la corporeità semplice [Körperlichkeit], allora anche il “cielo” è necessario come il campo di ciò che, a partire dal suolo terrestre, resta per me e per tutti ancora spazialmente esperibile fino al limite estremo. In altre parole, si costituisce un orizzonte aperto di distanze raggiungibili; a partire da ogni punto spaziale, che per me è raggiungibile, è dato un orizzonte estremo, un Limes (una sfera d’orizzonte), dove ciò che è ancora esperibile come un qualcosa a distanza [Fernding] scompare infine allontanandosi. Al contrario, io posso naturalmente immaginarmi che dei “punti”, che diventano visibili, siano dei corpi lontani che sono sopraggiunti e che si possono ancora avvicinare fino a raggiungere la Terra-suolo, ecc. Ma per di più ora mi posso anche immaginare che siano delle abitazioni.

Però bisognerebbe riflettere sul fatto che ognuna di esse tragga la propria “storicità” dall’attuale “io” che vi ha dimora. Se io sono nato figlio di naviganti, parte della mia crescita si verifica sulla nave e quest’ultima non si caratterizzerebbe per me come nave in relazione [in bezug zur] alla Terra – fintanto non si fosse stabilita un’unione – ma sarebbe essa stessa la mia “Terra”, la mia patria d’origine. Tuttavia, i miei genitori non sono originari della nave stessa, essi avevano una casa ancora più antica, un’altra patria d’origine. Nello scambio delle abitazioni (se questo termine possiede il significato solito del mio territorio attuale, personale o familiare), rimane il fatto che ogni io ha una sua patria d’origine – e questa appartiene a ogni popolo originario con il suo territorio originario. Ma ogni popolo e la sua storicità, e anche ogni sovra-popolazione (sovra-nazione) ha naturalmente a sua volta la propria patria, in ultima analisi, sulla “Terra” e tutti i progressi, tutte le storie relative hanno, quindi, un’unica storia originaria, di cui essi sono solo episodi. Certamente è anche possibile che questa storia originaria sia stata [quella di] un insieme di popoli vissuti e sviluppatisi in modo totalmente separato, tutti disposti però, gli uni rispetto agli altri, nell’orizzonte aperto e indeterminato dello spazio terrestre.

Passiamo ora alle stelle, dopo che abbiamo chiarito la possibilità di Arche voltanti (questo potrebbe essere anche un nome per l’abitazione originaria), che si presentano nell’ “esperienza” (cioè nella storicità in cui si costituisce il mondo e in esso la natura corporea, lo spazio naturale e lo spazio-tempo, l’umanità e l’universo animale) come semplici “aeronavi”, “navi-spaziali” della Terra, che dalla Terra sono partite e che vi ritornano, abitate e pilotate da uomini che secondo la loro origine generativa ultima, che per loro è la stessa origine storica, risiedono sul suolo terrestre come propria Arca. Prendiamo ora dunque le “stelle” – dapprima punti luminosi, delle macchie luminose. Nel corso dell’esperienza che si viene formando appercepite come corpi in lontananza, ma senza la conseguente possibilità di una normale conferma sperimentale, nel suo senso primario, cioè in quello specifico di una verificabilità diretta. “Corpi celesti”: noi li trattiamo alla stregua di corpi che solo di fatto e accidentalmente sono presenti per noi (ma eventualmente anche per altri) e che sono attualmente corpi inaccessibili; e in riferimento a loro [in bezug auf] traiamo delle conclusioni empiriche, facciamo empiricamente le nostre osservazioni posizionali, osservazioni sui loro moti indotti, ecc., come se si trattasse di corpi come tutti gli altri. Tutto ciò è relativo all’Arca del suolo terrestre, alla “sfera terrestre” e riferito a noi, uomini terrestri, e l’obiettività è riferita all’umanità intera. E che dire della stessa Arca-Terra? Essa non è a sua volta un corpo, non è una stella fra le stelle. Le cose cambiano se dapprima ci figuriamo le nostre stelle come delle Arche secondarie con le loro eventuali popolazioni, ecc., e ci immaginiamo di essere trasferiti lassù, magari volando, fra quelle popolazioni. Allora è come per i bambini nati sulle navi, eppure con qualche variazione. Le stelle sono anche dei corpi ipotetici in un senso determinato del “come-se” [Als-ob-Sinn] e così anche l’ipotesi che siano abitazioni nel senso raggiungibili è un’ipotesi di una specie particolare.

L’omogeneizzazione delle lontananze celesti, anche per iterazione, comporta specifici interrogativi fenomenologici. Che cosa è questa possibilità essenziale [Wesensmöglichkeit], e la possibilità data in anticipo con il mondo terrestre, come possibilità che concorre alla costituzione del suo essere, mediante la relativa specie essenziale. Con l’interpretazione ipotetica delle stelle visibili come corpi lontani e mediante la forma essenziale del limite dell’esperibilità di lontananze, è già fornita l’infinità aperta del mondo terrestre come dotato di una infinità di corpi lontani, che sono possibilmente esistenti. L’omogeneizzazione, senz’altro, viene da noi intesa come il fatto che la Terra stessa sia un corpo, sul quale per caso ci troviamo a strisciare; e con i problemi che abbiamo ora considerati, ci troviamo ormai di fronte a quello che è davvero il grande problema dei giusto senso di una scienza universale della “natura” puramente fisica – di una scienza astronomico-fisica che si mantiene nei limiti dell’infinità “astronomica”, nel senso della nostra fisica moderna (che in un senso ancora più ampio è astrofisica), e di una scienza dell’infinità interna, l’infinità del continuo e del modo di atomizzarsi e di quantizzarsi in una aperta illimitatezza o infinità – la fisica atomica. In queste scienze dell’infinità che si riferiscono alla natura nella sua totalità, l’atteggiamento corrente è quello per cui i corpi propri [Leiber] non sono altro che dei corpi semplici [Körper], casualmente dotati di una struttura peculiare, che, quindi, potrebbero anche essere completamente aboliti, dal momento che è possibile una natura senza organismi, senza animali e senza uomini. E non è mancato molto che si pensasse, anzi a volte lo si è pensato davvero e diffusamente, che sia una mera fatticità, una fattività delle leggi naturali che valgono nel mondo, se con certi corpi o tipi corporei di struttura fisica si trova a essere congiunto (causalmente) un corpo proprio animale e una vita psichica; per cui sarebbe concepibile che questi stessi corpi, così strutturati, non fossero altro che dei semplici corpi. Come si potrebbe anche dimostrare, rispetto alla Terra, che su di essa, un tempo, non c'era alcuna “vita” e che ci sono voluti lunghi periodi di tempo prima che riuscissero a formarsi le sostanze organiche altamente complesse e comparisse così sulla Terra la vita animale. E viene anche dato per scontato il fatto che la Terra è uno soltanto dei corpi dell’universo casuali, uno tra tanti, e sarebbe quasi ridicolo, dopo Copernico, osare pensare che la Terra, “soltanto perché noi per caso ci viviamo sopra”, sia il centro del mondo, privilegiato proprio per la sua “quiete”, rispetto al quale [in bezug auf] tutto ciò che è in movimento si muoverebbe. Sembra che noi abbiamo aperto una breccia considerevole nell’ingenuità [Naivität] scientifico-naturale (non per come teorizza, ma perché crede di conseguire nelle sue teorie l’assoluta verità dell’universo, anche se con gradi relativi di perfezione). Forse sarà vero il fatto che la Fenomenologia ha confermato l’astrofisica copernicana – ma anche l’anti-copernicanesimo, in base al quale Dio avrebbe fissato la Terra in un certo luogo dello spazio. Forse al livello della fenomenologia accade che i calcoli e le teorie matematiche dell’astrofisica successiva a Copernico e quindi anche l’intera fisica mantengono comunque, nei loro propri limiti, una certa legittimità – mentre è già diversa la questione se possa avere senso e legittimità una biologia meramente fisica, che pretenda di essere davvero biologia.

Allora consideriamo come possiamo pretendere di far valere la Terra come un corpo, come una stella fra le stelle? Per cominciare, anche come semplice possibilità. Iniziamo però con un’altra possibilità. Il naturalista ammetterà che sia un semplice fatto che noi vediamo le stelle. Egli dirà: avrebbero potuto certamente essere tanto lontane da non esistere per noi – anche il sole? Anch’esso avrebbe potuto essere invisibile a causa di una coltre di nebbia. Così sarebbe stato in tutte le epoche storiche – noi avremmo quindi vissuto in una storicità generativa e avremmo avuto il nostro mondo terrestre, la nostra Terra, gli spazi terrestri, e lì dentro i corpi volanti e fluttuanti, ecc., tutto come è finora, ma senza stelle per noi visibili ed esperibili. Forse avremmo una fisica atomica, una microfisica, ma non un’astrofisica, una macrofisica. Ma bisognerebbe riflettere in che misura le prime ne sarebbero modificate. Avremmo i nostri telescopi, i nostri microscopi, i nostri strumenti di misurazione sempre più precisi; avremmo il nostro Newton e la legge di gravitazione, così come avremmo potuto scoprire che i corpi esercitano gli uni sugli altri una gravitazione e che inoltre possono anche essere considerati come divisibili, come totalità di parti di corpi parziali che, a loro volta, esercitano, in quanto corpi indipendenti, la propria gravitazione e agiscono secondo leggi meccaniche, producono delle risultanti, ecc. Avremmo scoperto che la Terra è una sorta di “sfera” che è divisibile in corpi, e che in quanto unità totale di parti corporee esercita come totalità una gravitazione nei confronti di tutti i corpi che se ne distaccano, quelli visibili e invisibili sullo spazio terrestre. Che qui vi siano dei corpi da noi percepibili dapprima mediante telescopi sempre più potenti, perché situati via via più lontano, oltre ciò che attualmente è possibile vedere, tutto questo noi lo sapremmo. Allora potremmo dire: in definitiva potrebbero naturalmente esistere dei corpi di grandezza indeterminata, posti a distanze non ancora raggiungibili o mai raggiungibili ai nostri sensi. Senza che li vedessimo e senza avere su di loro alcuna informazione diretta – anche se, in quanto corpi lontani, sarebbero ipoteticamente equiparabili ai corpi ordinari – potremmo fare delle induzioni e calcolare in base agli effetti gravitazionali ecc., l’esistenza di tali “stelle”. Per tutto l’ambito fisico, la Terra sarebbe in ultima analisi un corpo come qualsiasi altro corpo, e avrebbe in più delle stelle intorno a sé. Praticamente noi possiamo già osservare le stelle e possiamo rilevare scientificamente i rapporti fisici calcolabili in base alla Terra e quest’ultima come fisicamente a loro omogenea, un corpo fra gli altri corpi. Quindi noi non interveniamo in alcun modo nella fisica.

Ma su tutto questo è sopraggiunto il seguente problema: non perdere di vista la pre-datità [Vorgegebenheit] e la costituzione, che appartengono all’Io apodittico, a me, a noi, come sorgente di ogni senso d’essere effettivo e possibile, di ogni possibile allargamento che possa ulteriormente prodursi nella storicità in fieri del mondo già costituito. Non si può ammettere l’insensatezza, quella fattuale, quella cioè di dare per scontata inavvertitamente la concezione naturalistica del mondo, quella dominante, per poi considerare in termini antropologistici e psicologistici la storia degli uomini come storia della specie, e l’elaborazione della scienza e dell’interpretazione del mondo entro lo sviluppo degli individui e dei popoli come un evento ovvio e accidentale che si è prodotto sulla Terra, ma che si sarebbe potuto verificare altrettanto bene su Venere o su Marte. Anche la Terra e noi uomini, io con il mio corpo proprio e nella mia generazione, nel mio popolo, ecc. Dunque, anche questa storicità complessiva, tutto ciò appartiene inseparabilmente all’Io ed è per principio non più ripetibile, ma tutto ciò che è deve essere riferito a questa storicità della costituzione trascendentale, come nucleo pertinente e nucleo ampliantesi – ovvero: tutto ciò che di nuovo viene scoperto come possibilità del mondo, è legato al senso d’essere già in atto. Da ciò si potrebbe dunque desumere quanto segue: la Terra può perdere così poco il suo senso di “abitazione originaria”, di Arca del mondo, quanto poco il mio corpo proprio [Leib] può perdere il proprio senso d’essere del tutto peculiare di corpo proprio originario [Urleib], dal quale ogni altro corpo proprio deriva una parte del suo senso d’essere e come noi uomini, nel nostro senso d’essere, precediamo gli animali, ecc. E rispetto a questo stato di cose, a questa dignità costitutiva o gerarchia di valori, non possono cambiare nulla tutte le assimilazioni (omogeneizzazioni) che si vengono necessariamente costituendo in connessione reciproca, [come quella] del corpo proprio con il mero corpo, ovvero del soma corporeo assimilato agli altri corpi, dell’umanità vista come specie animale fra le altre specie animali, e così infine anche della Terra come corpo cosmico fra tutti gli altri corpi cosmici. Posso benissimo immaginarmi di essere stato trasportato sul corpo lunare. Perché non dovrei figurarmi la Luna come qualcosa di simile a una Terra, dunque, simile a una dimora animale? Proprio a partire dalla Terra posso benissimo immaginare me stesso come un uccello che vola su un corpo lontano, oppure come un pilota di aereo che decolla e che atterra lì. E posso anche immaginare che là ci siano degli uomini e degli animali. Tuttavia, probabilmente mi capiterà di chiedermi: “Come sono arrivati sin qua?” – così similmente a come se io trovassi su un’isola inesplorata delle iscrizioni cuneiformi e domandassi: Come sono arrivati qui i popoli che le hanno incise? Tutti gli animali, tutti gli esseri viventi, in genere tutto ciò che esiste, possiede il suo senso d’essere solo a partire dalla mia genesi costitutiva e questa genesi “terrena” ha la precedenza su tutto. Sicuramente un frammento di Terra (come un lastrone di ghiaccio) potrebbe magari essersi staccato, rendendo così possibile una storicità particolare. Ma ciò non significa che anche la Luna o Venere potrebbero essere concepite come altrettante abitazioni primitive in una separazione originaria [Urtrennung], e che sia un semplice fatto che proprio la Terra sia per me e per la nostra umanità terrena una di queste abitazioni. Vi è una sola umanità e una sola Terra – a essa appartengono tutti i frammenti che se ne staccano e che se ne sono staccati. Ma se è così, possiamo dire con Galilei che “par si muove” ? e non, al contrario, che non si muove? Naturalmente non che se ne stia in quiete nello spazio, mentre invece potrebbe essere in moto, ma così come abbiamo cercato di chiarire sopra: essa è l’Arca che solo rende possibile il senso di ogni movimento e di ogni quiete intesa come modalità di un movimento. Ma la sua quiete non è appunto una modalità di un movimento.

Ora però tutto questo sembrerà stravagante o perfino folle, in contrasto con ogni conoscenza scientifico-naturale della realtà effettuale e della possibilità reale. Esiste la possibilità che un giorno la morte termica [Wärmtod] ponga fine a ogni forma di vita sulla Terra, o ai corpi celesti che cadono sulla Terra, ecc. Ma anche se si vorrà ravvisare nei nostri tentativi la più incredibile Hybris filosofica – noi non indietreggiamo dal nostro conseguente chiarimento delle necessità di ogni donazione di senso [Sinngebung] sia per l’ente che per il mondo. Neanche di fronte ai problemi della morte, come li concepisce nel suo nuovo modo la Fenomenologia. Il presente: io come essere presente sono in un progressivo morire, gli altri muoiono per me se non trovo la connessione presente con loro. E tuttavia la mia vita è attraversata dall’unità che si stabilisce attraverso la rimemorazione – io vivo ancora, sebbene nell’essere-altro, e continuo a vivere la vita che sta oltre me, il cui senso del dopo-di-me sta nella ripetizione e nella ripetibilità. Così pure il noi vive nella ripetibilità e continua a vivere anch’esso nella forma della ripetibilità della storia, mentre il singolo “muore”, cioè non può più essere “ricordato” empaticamente dagli altri, bensì soltanto nella memoria storica, in cui i soggetti del ricordo possono rappresentarsi.

Ciò che appartiene alla costituzione, esso ed esso solo è assoluta e ultima necessità, e proprio partendo da qui possono essere determinate in ultima analisi tutte le possibilità concepibili del mondo costitutivo. Che senso possono avere le masse che sprofondano nello spazio, in uno spazio predisposto come assolutamente omogeneo e a priori, se viene cancellata la vita costituente? Anzi anche una simile eliminazione non ha senso semplicemente, se in generale lo avesse, come eliminazione della e nella soggettività costituente. L’Io vive e precede ogni ente effettivo e possibile, ogni ente sia in senso reale che irreale. Il tempo mondano costituito racchiude, infatti, in sé il tempo psicologico e lo psicologico rimanda al trascendentale – ma non in modo che si possa semplicemente invertire [rovesciare] l’obiettivamente psichico con il trascendentale. E sicuramente non nel modo in cui, concordemente a qualsiasi punto di vista astratto e relativamente giustificato, viene presupposto un mondo omogeneo e quindi una natura omogenea, in cui l’elemento psichico è vincolato a quello psico-fisico e con ciò in pratica esso opera in modo completamente soddisfacente (per una prassi naturale umana che costruisce la scienza e la valorizza), dal momento che ciò viene capovolto nel trascendentale, salvo poi far valere contro la fenomenologia i paradossi che ne derivano.

  1. Fenomenologia e Relatività: «virtuale» e «reale» a confronto

Sulla scia delle considerazioni sorte da una domanda posta su un noto social network culturale americano[58], e cioè: «se Einstein potesse essere stato influenzato da Husserl o se invece fosse il contrario?», potremmo avanzare alcune osservazioni conclusive sul perché nelle nostre analisi si è cercato di insistere sulla reciprocità dello scambio teoretico-scientifico intercorso fra Fenomenologia e Relatività, e, dunque, tra Husserl ed Einstein, e sul perché, in base a tale interpretazione, si siano considerati i due termini «virtuale» e «reale» come correlativamente interdipendenti e costituenti le due diverse facce della medesima medaglia.

In questo compito ci è d’aiuto ancora una volta Kant, che, a proposito della riflessione trascendentale sui concetti «anfibolici», sottolinea come sorga una contraddizione tra i vari concetti o rappresentazioni del mondo nel momento in cui si assume un punto di vista esclusivo sulla realtà, così come aveva fatto ad esempio Leibniz, allestendo un «sistema intellettuale del mondo»[59], confrontando e paragonando tali concetti solo all’interno delle stesse rappresentazioni dell’intelletto. Ma una vera filosofia trascendentale come quella kantiano-husserliana non deve avere «nulla di assolutamente interno, ma sempre qualcosa di relativamente interno»[60] e relativamente esterno, nel senso che deve consistere di rapporti esterni, con un mondo materiale esterno, il quale, tuttavia, non può essere assunto come ultimo e unico baluardo di una realtà definitiva e assoluta.

Ecco che allora possiamo scorgere nel «noumeno» kantiano una prima declinazione del concetto di «virtuale»: esso «non è il concetto di un oggetto, ma costituisce il problema – inevitabilmente connesso alla limitazione della nostra sensibilità – se possano esistere oggetti del tutto indipendenti dall’intuizione sensibile»[61]. Su questa questione, sulla possibilità, cioè, che possano esistere oggetti diversi da quelli che i nostri sensi indifferentemente ci propongono (la Terra intesa come «Arca» per esempio), si dipana la problematica fenomenologica che individua la «realtà» come «premessa», come indice, segno e indizio di un’ulteriore realtà, nella molteplicità possibile degli orizzonti percettivi.

Con Husserl, il «noumeno» kantiano, inteso in questo ultimo senso «anfibolico», come possibilità di un oggetto sempre ulteriormente esistente, di una visione di una datità di senso sempre diversa, in un possibile orizzonte di mondi diversi, realmente esistenti, acquisisce legittimamente il diritto di condividere con la spiegazione scientifica una prima via d’accesso alla realtà effettuale. La scienza, se la si considera da un punto di vista esclusivo, ha sempre costituito quella sorta di «partito preso di trattare ogni essere come un oggetto in generale, cioè come se non fosse niente per noi e tuttavia si trovasse predestinato ai nostri artifici»[62].

Il pensiero scientifico, dunque, come semplice «pensiero di sorvolo», pensiero dell’oggetto in generale, ha bisogno di ritornare a un «c’è» preliminare nel luogo e sul terreno del mondo sensibile e del mondo esperienziale così come si presentano nella nostra vita, al nostro corpo, e «non quel corpo possibile che è lecito definire una macchina dell’informazione, ma questo corpo effettuale che chiamo mio, la sentinella che vigila silenziosa sotto le mie parole e sotto le mie azioni»[63].

È questo il senso, crediamo, di una vera filosofia trascendentale e della Fenomenologia pura husserliana, che si voglia proporre come «ermeneutica scientifica»[64].

 

 


[1] Cfr. B. Pachoud, J. Petitot, F. J. Varela, Naturalizing Phenomenology: Issues in Contemporary Phenomenology and Cognitive Science, Stanford University Press, Stanford 2000.

[2] Mi riferisco in particolare alla lezione di C. Rovelli, Why Physics needs Philosophy?, https://www.youtube.com/watch?v=IJ0uPkG-pr4.

[3] Già peraltro stigmatizzata da Husserl stesso in Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1936), tr. it. Saggiatore, Milano 2002, p. 461.

[4] Si veda, per citarne solo una, la voce «Emergentismo» in tutte le sue varianti. Cfr. A. Zhok, Emergentismo, Edizioni ETS, Pisa, 2011. Basilare rimane sempre il lavoro di F. J. Varela, E. Thompson, E. Rosch (a cura di), The Embodied Mind. Cognitive science and human experience, The MIT Press, Massachusetts 1993.

[5] A tal proposito cfr. R. Feist (a cura di), Husserl and the Sciences: Selected Perspectives, University of Ottawa Press, Ottawa 2004, p. 166.

[6] E. Husserl, Ricerche logiche (1901), tr. it. Il Saggiatore, Milano 2015, p. 194.

[7] Ibid., p. 195.

[8] Ibid.

[9] Id., Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, in «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», I, 1, 1913, § 62.

[10] Id., Natur und Geist: Vorlesungen Sommersemester 1927, in Id., Husserliana, a cura di M. Weiler, Dordrecht, Kluwer Academic Publishers, 2001, vol. XXXII, § 20. Cfr. anche Id., Crisi delle scienze europee, cit., p. 124.

[11] Id., Ricerche logiche, cit., p. 202.

[12] Id., Crisi…, cit., p. 124.

[13] Ibid., p. 418.

[14] M. Merleau-Ponty, Einstein et la crise de la raison, in Id., Signes, Gallimard, Paris 1960, p. 191.

[15] Ibid.

[16] Cfr. A. Einstein, Letter to Hermann Vollmer 30.10.1929, in «Ruth and Hermann Vollmer papers. Manuscripts and Archives Division. The New York Public Library. Astor, Lenox, and Tilden Foundations». Probabilmente qui Einstein si riferisce all’opera più complessa di Husserl, ovvero alle Ideen.

[17] Ibid.

[18] A. Einstein, Physik und Realität (1936), in Id., Aus meinen späten Jahren, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart 19843 (19791), pp. 528-529.

[19] Ibid.

[20] Ibid., p. 529. Questo significa che Einstein, nonostante ignorasse ciò, di fatto compì in questi anni il passaggio dall’empirismo humeiano alla fenomenologia husserliana. Cfr. H. Grelland, Husserl, Einstein, Weyl, and the Concepts of Space, Time, and Space-Time, Third International Conference on the Nature and Ontology of Spacetime, Concordia University Montreal, Canada, June 13-15, 2008. Anche Id., The Phenomenology of Space and Time: Husserl, Sartre, Derrida, in Space, Time, and the Limit of Human Understanding, a cura di S. Wuppuluri, G. Ghirardi, Springer International Publishing, Berlin-New York 2017.

[21] A. Einstein, op. cit, p. 529.

[22] E. Husserl, Crisi delle scienze europee…, cit., p. 172.

[23] Ibid.

[24] Ibid., p. 157.

[25] Ibid.

[26] Ibid., p. 160.

[27] Ibid., p. 162.

[28] Ibid.

[29] Ibid.

[30] Cfr. D. Zahavi, Subjectivity and Selfhood: Investigating the First-Person Perspective, The MIT Press, Cambridge 2005; cfr. anche Id., Husserl’s Phenomenology, Stanford University Press, Stanford 2003.

[31] Illuminanti a questo proposito risultano le riflessioni di Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. Bompiani, Milano 2003, p. 326 sgg.

[32] E. Husserl, op. cit., pp. 198-199. Il tema della temporalità era stato già trattato più estesamente nelle lezioni del 1905 sulla «Coscienza interna del tempo»: cfr. Id., Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstesens (1893-1917), in Husserliana, a cura di R. Boehm, The Hague, Martinus Nijhoff, 1969.

[33]A. Einstein, Zeit, ms. inedito, in Albert Einstein Archives, 1-70, 1929, p. 1. Questo manoscritto inedito, (catalogato dagli Archivi Einstein dell’Università Ebraica di Gerusalemme con la data dell’anno 1929) – che qui si riporta per la prima volta in traduzione italiana – consta di due fogli. Esso sembrerebbe una versione rivisitata dell’articolo pubblicato da Einstein nel 1926 per l’Enciclopedia Britannica. Collegato a questo vi è però un ulteriore manoscritto inedito: quello dal titolo «Raum» (Spazio), sempre degli stessi anni. La presente traduzione del manoscritto einsteiniano è stata autorizzata direttamente dagli stessi Archivi Einstein di Gerusalemme © The Hebrew University of Jerusalem.

[34] Cfr. E. Husserl, Ideen…, cit., p. 162.

[35] A. Einstein, op. cit., p. 1.

[36] Cfr. E. Husserl, op. cit., p. 163.

[37] Ibid., p. 165.

[38] A. Einstein, op. cit., p. 1.

[39] M. Heidegger, Der Begriff der Zeit (1924), in Id., Heidegger Gesamtausgabe, a cura di F.-W. von Herrmann, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 2004, vol. LXIV, pp. 134-ss.; cfr. Id., Il concetto di tempo, tr. it. Adelphi, Milano 201211 (19981), p. 29.

[40] M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile (1964), tr. it. Bompiani, Milano 2007, p. 139.

[41] A. Einstein, op. cit., pp. 1-2.

[42] Ibid.

[43] Ibid.

[44] Cfr. nota 32.

[45] Ibid. Opera imprescindibile per un’interpretazione fenomenologica del tempo è sicuramente quella di H. Weyl, Das Kontinuum. Kritische Untersuchungen über die Grundlagen der Analysis, Veit, Leipzig 1918.

[46] Questo manoscritto (dalla sigla D17) è stato pubblicato per la prima volta nel 1940 da Marvin Farber con il titolo: Grundlegende Untersuchungen zum phänomenologischen Ursprung der Raumlichkeit der Natur, in Id., Philosophical Essays in Memory of Edmund Husserl, Cambridge Mass., USA, 1940. Una prima traduzione italiana di questo ms. è stata curata da Guido D. Neri sulla rivista Aut aut», n. 245, del 1991. La presente traduzione, basandosi sull’ottima traduzione del Neri, si propone come un’ulteriore integrazione e completamento della stessa.

[47] Probabilmente Husserl iniziò a confrontarsi con i temi della Relatività einsteiniana a partire dal lavoro di O. Becker. Cfr. O. Becker, Beiträge zur phänomenologischen Begründung der Geometrie und ihrer physikalische Anwendung (1923), Max Niemeyer, Tübingen, 1973. Cfr. anche Id., Größe und Grenze der mathematischen Denkweise, Karl Alber, Freiburg/München, 1954. Tuttavia, sembrerebbe che già qualche anno prima Husserl avesse iniziato a familiarizzare con la Teoria della Relatività, infatti nella sua biblioteca a personale sono stati rinvenute le opere di Erwin Freundlich, Die Einsteinsche Gravitationstheorie: die Stellung der allgemeinen Relativitätstheorie Zu den Hypothesen der klassischen Mechanik, 1917 e quelle dello stesso Einstein, Über die spezielle und die allgemeine Relativitätstheorie, 1919. Cfr. M. Hartimo, Husserl’s Scientific Context 1917-1938, a look into Husserl’s private library, on http://www.academia.edu/32374977/_Husserl_s_Scientific_Context_1917-1938_a_look_into_Husserl_s_private_library_forthcoming_in_The_New_Yearbook_for_Phenomenology_and_Phenomenological_Philosophy.

[48] E. Husserl, Crisi delle scienze europee, cit., pp. 154-155.

[49] A. Einstein, Relativity. The Special and General Theory, Holt & Co., New York, 1920, pp. 61-64. Cfr. anche Thuan T. Xuan, Il caos e l’armonia. Bellezza e asimmetrie del mondo fisico, Dedalo, Bari 2000, p. 188.

[50] Su questo tema Husserl si era già lungamente confrontato nelle lezioni sulla «Ding-Raum» (Cosa-spazio) del 1907: Cfr. Id., Ding und Raum. Vorlesungen 1907, in Husserliana, a cura di U. Claesges, The Hague, Martinus Nijhoff, vol. XVI, 1973; Id., La cosa e lo spazio: lineamenti fondamentali di fenomenologia e critica della ragione, tr. it. Rubbettino, Soveria Mannelli 2009.

[51] P. Kerszberg, The Phenomenological Analysis of the Earth’s Motion, in «Philosophy and Phenomenological Research», II, 48, 1987, pp. 177-208, p. 196; Id., The Invented Universe, The Einstein-De Sitter Controversy (1916-17) and the Rise of Relativistic Cosmology, Clarendon Press, Oxford, 1989, pp. 104 sgg. Molto interessanti anche le considerazioni di J. Himanka, Husserl’s Argumentation for the Pre-Copernican View of the Earth, in «The Review of Metaphysics», III, 58, 2005, pp. 621-644, p. 634 sgg.

[52] E. Husserl, op. cit., p. 189. Sulla cinestesi fenomenologica e su questo manoscritto si concentrarono anche le riflessioni, fondamentali per il nostro studio, di M. Merleau-Ponty, Husserl’s Concept of Nature, in Texts and Dialogues: On Philosophy, Politics and Culture, a cura di H.J. Silvermann, J. Barry, Humanity Books, New York, 1992, p. 166; e soprattutto Id., Phénoménologie de la perception, cit.

[53] E. Husserl, op. cit., p. 190.

[54] Ibid., p. 191.

[55] Ibid.

[56] Ibid.

[57] M. Farber, op. cit., p. 307.

[58] Cfr. https://www.quora.com/Was-Einstein-influenced-by-Husserl-or-was-it-the-other-way-round/answer/Chingo-Huan-Mare#.

[59] I. Kant, Critica della Ragion pura, tr. it. Bompiani, Milano 1989, p. 341.

[60] Ibid., p. 347.

[61] Ibid., p. 355.

[62] M. Merleau-Ponty, L’oeil et l’esprit, Gallimard, Paris, 1964, p. 1.

[63] Ibid., p. 15.

[64] Questo dovrebbe essere il vero compito della Fenomenologia trascendentale, compito che Husserl affida direttamente a Hermann Weyl: cfr. D. Van Dalen, Four letters from Husserl to Weyl, in Husserl Studies, I, 12, 1984, pp. 3-4.

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