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Natura vs. condizione umana? Una nota su Hannah Arendt (e Adolf Portmann)

1. Una vita activa? 2. Una vita della mente? 3. Bios activo e bios della mente

4. L’uomo non è un fuoriclasse biologico: l’umano come fenomeno naturale e campione politico

 

 

1. Una vita activa?

Com’è noto, per costruire la sua antropologia politica, Hannah Arendt opera una scelta preliminare, atta a segnare, una volta e per sempre, i confini precisi della regione nella quale provare a descrivere e quindi definire il rapporto uomo-mondo. Si tratta della distinzione – che, come si vedrà, non ha solo una funzione metodologica – tra natura umana e condizione umana. O forse, a voler essere meticolosi, si tratta della cancellazione della stessa questione di una “natura” umana, in quanto non indagabile e non descrivibile se non in termini metafisico-essenzialistici. Come a dire, cioè, che quando si tratta di comporre un’antropologia filosofica, quale che sia l’obiettivo o l’esito, l’analisi è limitata alla sola “condizione umana”. Senza indugi la Arendt scrive a mo’ di premessa di The Human Condition:

La condizione umana, si badi bene, non coincide con la natura umana, e la somma delle attività e delle capacità dell’uomo che corrispondono alla condizione umana non costituisce nulla di simile alla natura umana … Il problema della natura umana (quaestio mihi factus sum [“io stesso sono divenuto domanda”] come dice sant’Agostino) pare in¬solubile sia nel suo senso psicologico individuale sia nel suo senso filosofico generale. È molto improbabile che noi, che possiamo co¬noscere, determinare e definire l’essenza naturale di tutte le cose che ci circondano, di tutto ciò che non siamo, possiamo mai essere in grado di fare lo stesso per noi: sarebbe come scavalcare la nostra ombra. Per di più, nulla ci autorizza a ritenere che l’uomo abbia una natura o un’essenza affini a quelle delle altre cose. In altre pa¬role, se abbiamo una natura o un’essenza, allora certamente sol¬tanto un dio potrebbe conoscerla e definirla, e il primo requisito sa¬rebbe che egli fosse in grado di parlare di un “chi” come se fosse un “che cosa”. La difficoltà sta nel fatto che le modalità della cono¬scenza umana riferibili alle cose dotate di qualità “naturali”, com¬presi noi stessi nella misura limitata in cui rappresentiamo la specie più altamente sviluppata della vita organica, si rivelano inadeguate quando ci chiediamo: “E chi siamo noi?”… il fatto che i tentativi di definire la natura dell’uomo conducano così facilmente a un’idea che ci si impone distintamente come “super-umana” e che viene perciò identificata con il divino, può destare dei dubbi sulla possibi¬lità di un adeguato concetto di “natura umana”. D’altra parte, le condizioni dell’esistenza umana – vita, natalità e mortalità, mondanità, pluralità e terra – non potranno mai “spie¬gare” che cosa noi siamo o rispondere alla domanda “chi siamo noi?” per la semplice ragione che non ci condizionano in maniera assoluta .

 

Si tratta di una differenza (ontologica?) assai immediata, che il lettore intuisce subito e che lo spinge a procedere lungo una strada talmente spianata da non chiedersi mai se l’affermazione regga sempre e se sia effettivamente rigorosa sul piano teorico quanto lo è nel suo svolgimento assiomatico. I termini intorno ai quali gioca la condizione umana sono esplicitati chiaramente, felicemente accoppiati: vita-morte, natalità-mortalità, terra-mondo; e l’inserimento della locuzione esistenza umana li mette in moto definitivamente sul piano teorico – ma soprattutto pratico – per una soluzione finale in cui uomo e mondo si fanno segno reciprocamente in termini di pluralità, fondamento e senso – perduti nell’alienazione del mondo operata dal Moderno – della politicità intrinseca all’esistenza storica degli uomini. A fermarsi su quest’ultimo passaggio, si potrebbe facilmente inferire, senza neanche forzare più di tanto, che in fondo sul piano descrittivo alla “natura umana” si approssimano “nascita”, “morte” e “terra”, mentre alla “condizione umana” appartengono “natalità”, “mortalità” e “mondanità”. La condizione umana conterrebbe cioè una componente ri-flessa, frutto di una vera e propria declinazione esistenzial-culturale, di una curvatura storico-evolutiva dalla natura (punto zero appena appena ipotetico e inutilizzabile per ogni pensiero prettamente filosofico). Sia chiaro: la Arendt ha perfettamente ragione nel momento in cui dichiara che un’idea di Natura come essenza o sostanza, come ciò che insomma permane e resiste alle dinamiche storiche, retrocede il pensiero filosofico e scientifico moderno nella metafisica classica nella quale l’uomo sarebbe né più né meno che un’idea platonica, il mondo né più né meno che la physis aristotelica, e il pensiero filosofico poco più che un’attività consolatoria che rimedia alle frustrazioni della nostra esperienza finita, dove solo un dio ci può salvare. Da questo punto di vista, le analisi circa il lavoro, l’opera e l’azione di Vita activa sono persuasive e assai coerenti sul piano teorico e metodologico e possono ridisegnare il profilo etico-politico dell’esistenza storica dell’uomo nel mondo. Il punto è, però, che nel momento in cui la Arendt si accinge, nel suo ultimo lavoro, La vita della mente, a indagare le “facoltà spirituali” – che comunque descrivono l’uomo ma che ella stessa aveva volontariamente escluso dall’analisi di Vita activa, per motivi metodologici e in virtù dell’armonia del dettato – l’intero impianto si fa più problematico, perché è proprio la differenza (ontologica?) originaria che, quanto meno, sembra non funzionare più in automatico. Quella “differenza”, che in origine stava lì a segnare l’inizio di un tracciato, sembra progressivamente trasformarsi, quando si tratta di tirare le conclusioni “politiche” dell’esistere umano, in un’opposizione concettuale, natura vs. condizione (e anche in questo caso il secondo termine conterrebbe uno status superiore), che fa risuonare i più tipici interno/esterno e/o natura/cultura, per rientrare nella più classica delle autoprescritte terapie metodologiche contro le infezioni da scienza “dura” cui sembra destinato il pensiero antropologico-flosofico tradizionale quando va a misurare l’uomo al bios e ne scopre i primi eretici risultati.

 

2. Una vita della mente?

Non si tratta qui di smentire la Arendt e neanche di ostinarsi a cercare incoerenze di sorta, si tratta piuttosto di vedere come quella stessa ipotesi antropologica si vada salutarmente a complicare, proprio nel gioco irrisolto di natura e condizione, quando occorre misurare il pensiero al mondo, quando occorre rinunziare ai toni del metodo storico-critico e affidarsi ai modi assai meno melodici del metodo più puramente fenomenologico e cioè quando si tratta (tale è l’intenzione che accompagna ritmicamente lo svolgimento de La vita della mente) di sostenere l’equazione antropologica finale dell’esistere al mondo e nel mondo: ex-sistere, con buona pace di Heidegger, vuol dire che essere e apparire coincidono, e la dimensione caratterizzante l’uomo è una sorta di politicità trascendentale, se mi è concessa l’espressione, data nella pluralità e annunciata dalla libertà e dal pensiero come pratica di senso. Ma per far questo, mi pare, la Arendt, pur senza rinunciare al postulato in sé, sembra costretta a smorzarne il rigore teoretico, sia per quanto concerne la premessa sia per quanto concerne gli effetti.

Un piccolo passo indietro: un attimo prima di operare la distinzione tra natura e condizione umana, la Arendt aveva scritto:

Tutto ciò che è in relazione prolungata con la vita dell’uomo assume immediatamente il carattere di una condizione dell’esistenza umana. Questa è la ragione per cui gli uomini, qualsiasi cosa fac¬ciano, sono sempre esseri condizionati. Qualunque elemento entri a far parte del mondo umano, per disposizione spontanea o per ini¬ziativa dell’uomo, diviene parte della condizione umana (corsivo mio).

Teniamo sotto osservazione per un attimo le due espressioni che ho sottolineato – relazione prolungata e disposizione spontanea – che solo apparentemente sono secondarie; entrambe si riferiscono al mondo così come è esperito dall’uomo in quanto forma vivente e quindi come processo esistenziale. In Vita activa fungono da corsie preferenziali per lo svolgimento della condizione umana, ma non c’è una parola che chiarisca una qualche datità degli elementi cui si riferiscono. A leggere La vita della mente sembra invece che la Arendt, pur non facendone cenno, parta proprio di qui. Ritraducendo il tutto: ci sarebbe una presunta o data cosalità del mondo, che è quando l’uomo c’è e fa: il che vuol dire, in termini fenomenologici, che tale cosalità si dà quando l’uomo la punta, la mira, ma che senza la quale quest’uomo non sarebbe in quanto non avrebbe mondo (terra, mondanità, pluralità).

Il punto X dell’origine infondata diviene cioè pensabile non tanto come postulato della ragion pura o della ragion pratica quanto piuttosto nel fatto che appare all’esistenza (e si fa mondo) nelle vesti di una condizione e non di una premessa, non si dà come qualità originaria ma come molteplicità da esperire alla luce superindividuale (o transindividuale) della terra e si fa legge della pluralità del mondo nel momento in cui viene significata.

Non vi è dunque un senso del mondo, il senso si dà nel responso che gli uomini, in quanto attori e spettatori del mondo, liberamente creano quando si interrogano non sul chi o che cosa sono, ma giudicando ciò che è loro più proprio: il tempo dell’esistere scandito dall’agire e dal parlare. È nella luce pubblica, nell’appariscenza, che gli uomini (e le cose del mondo e il mondo stesso) sono, non già come creature o dati ma come vettori di senso nella sempre mutevole esperienza storica. Detto in termini brutali e in connessione al nostro problema iniziale: nell’affermazione ora fondamentale, e cioè che Essere (essere) e Apparire (apparire) coincidono, la differenza (ontologica?) e forse antitesi natura/condizione umana, che la Arendt ne fosse consapevole o meno, sembra aver smarrito la sua onnipotenza.

Il fatto è, mi sento di affermare, che la riscrittura arendtiana della questione uomo-mondo, la sua rimessa in gioco nel momento in cui si tratta delle facoltà “spirituali” dell’uomo, e in particolare dell’attitudine tradizionalmente regina della vita della mente, il pensare, costringe l’analisi antropologica sul piano fenomenologico e di qui incontra, ospite d’onore dell’ultim’ora, il piano biologico. Non è sicuramente un caso che l’ingresso della Arendt nel nuovo edificio spirituale del mondo umano avvenga attraverso il biologo svizzero Adolf Portmann, quello stesso Portmann al quale Merleau-Ponty aveva dedicato una significativa nota di lavoro nell’aprile del 1960 , quel Merleau-Ponty che, nel momento in cui Heidegger viene inesorabilmente meno, rappresenta un decisivo sfondo metodologico e un altrettanto decisivo caratterizzante teoretico su cui si articola la sezione dedicata al Pensare de La vita della mente.

3. Bios activo e bios della mente

Qui la questione filosofica preliminare è, nella sua stessa formulazione, diversa. Si tratta di capire se vi sia effettivamente una distanza, segnata dal pensiero, tra il nostro essere e il nostro apparire. La Arendt si chiede infatti, heideggerianamente, che cosa significa pensare?, ma lo fa significativamente sulla scorta di un’investigazione del luogo in cui l’atto puro del pensare avviene, e cioè, sempre con buona pace di Heidegger, nel mondo fenomenico, dove le cose, le parole o le azioni sono in quanto appaiono. Che vi possa essere un luogo o un momento in cui il pensiero, che è invisibile, si manifesti, la Arendt doveva averlo sospettato o quanto meno sperato, pena sarebbe stata la condanna del complesso “uomo” alla scissione eterna in quanto coscienza e corpo, il cui unico riscatto sarebbe un “universale benevolo”, per ritradurre qui un’assai maliziosa osservazione di Merleau-Ponty su “natura” e “cultura” cristiana . L’esserci dell’uomo nel mondo, nella sua immediatezza, non dava alla Arendt questa impressione: si sarebbe dovuto immaginare un prima, un poi, un interno, un esterno che nel gioco delle manifestazioni si danno come elementi derivati, mediati dal linguaggio o al massimo come elementi spaziali e irriflessi – dunque senza significato altro (e meno che mai valore) – delle forme viventi. È possibile pensare l’uomo, anche questo qui lussuoso e civilizzato, nel suo immediato essere che coincide con l’apparire nel mondo? E quand’anche scoprissimo che il pensare e il produrre idee e concetti costituiscano un atto ri-flessivo che comporta un ritorno a un sé fuori del mondo, che fine farebbe il mondo e dove sarebbe quel sé? L’aporia, per quanto banale possa apparire, sta tutta qui: l’io che pensa certo è invisibile ma l’io che conterrebbe quell’io che pensa, in realtà, sta comunque lì, nello spazio mondano, alla mercé della luce pubblica, mentre l’altro io, nel frattempo, sarebbe in viaggio, in verità, in altri mondi. L’uomo, insomma, vagando tra finito e infinito, cesserebbe continuamente di essere una forma vivente per trasfigurarsi in una sostanza pensante. Che lo si chiami cogito o appercezione trascendentale, l’io pensante, per essere effettivamente tale, si trova a dover sospendere l’empirico e a condizionare il fenomeno ai suoi tempi. E anche quando il pensare è prerogativa passiva del darsi dell’essere, agli occhi di chi osserva il mondo in questo frangente resta, inesorabilmente, un interno e un esterno.

La Arendt si affida così all’esposizione fenomenologica, rinunciando per più di un verso all’idea di un’integrale verticalità temporale dell’esserci (dominio dell’ontologia heideggerante), per far funzionare una dimensione dell’orizzontalità mondana e spaziale della forma vivente “uomo” (dominio della biologia, ancorché della storia). Occorre dunque, per quanto banalmente, fissare un dato: l’uomo è una forma vivente. Quali conseguenze ha questa affermazione? È sufficiente una visione comparata con le altre forme che poi classifichi, tassonomicamente, le differenze e tragga le conclusioni? Oppure è necessario rivedere la premessa epistemica e metodologica che descrive il senso dell’espressione “forma vivente”? Qui a mio parere si incontrano Hannah Arendt e Adolf Portmann. Liberiamo però Portmann dall’idea – che oggi si va diffondendo in ordine a necessità pseudoscientifiche (in verità ideologiche) di liberare la Terra dalla Tecnica e la Storia dall’Evoluzione – che si tratti di un romantico signore, attratto più dal mistero che dalla conoscenza (in fondo chi è attratto dal mistero non vuole conoscerlo ma contemplarlo, e non mi pare il caso del biologo svizzero), che si diletta a parlare di animali e piante e che in fondo, in virtù di nostalgie tolemaiche, destituisce la Scienza dal suo trono per restituire lo scettro a divinità più o meno pagane: sono questioni di cui il biologo svizzero discuteva a Eranos con Jung e Mircea Eliade, tanto per fare due nomi, e non certo con i demagoghi di certo ecologismo da strapazzo oggi di moda.

I dati da cui partire sono dunque due principi secchi: l’uomo è una forma vivente e il mondo ha una natura fenomenica (“La natura fenomenica del mondo” è il titolo del primo paragrafo del primo capitolo de La vita della mente). La Arendt scrive in incipit, stabilendo il programma:

Il mondo in cui gli uomini nascono contiene molte cose, naturali e artificiali, vive e morte, caduche ed eterne, che hanno tutte in comune il fatto di apparire, e sono quindi destinate a essere viste, udite, toccate, gustate e odorate, ad essere percepite da creature senzienti munite degli appropriati organi di senso. Nulla potrebbe apparire, la parola “apparenza” non avrebbe alcun senso, se non esistessero organi ricettivi – creature capaci di conoscere, riconoscere e reagire – con la fuga o il desiderio, l’approvazione o la disapprovazione, il biasimo o la lode – a ciò che non semplicemente c’è, ma appare loro ed è destinato alla loro percezione. In questo mondo, in cui facciamo ingresso apparendo da nessun luogo e dal quale scompariamo verso nessun luogo, Essere e Apparire coincidono. La materia inanimata, naturale e artificiale, immutabile e mutevole, dipende nel suo stesso essere, cioè, nel suo stesso apparire dalla presenza di creature viventi. Non esiste in questo mondo nulla e nessuno il cui essere stesso non presupponga uno spettatore. In altre parole, nulla di ciò che è, nella misura in cui appare, esiste al singolare: tutto ciò che è è fatto per essere percepito da qualcuno. Non l’Uomo, ma uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra .

Se si paragona questo passo con quello inizialmente citato di Vita activa su natura e condizione umana, è evidente – a esclusione forse delle due espressioni più sopra isolate (“relazione prolungata” e “disposizione spontanea”) – che il segno è sostanzialmente un altro. Non si dà più la possibilità di una differenza (ontologica) perché cessa definitivamente l’idea di una supremazia dell’Essere sull’Apparenza e la stessa disponibilità metafisica di categorie come autentico e inautentico.

 

4. L’uomo non è un fuoriclasse biologico: l’umano come fenomeno naturale e campione politico

Il progetto di Portmann e la prassi della Arendt risultano, di fatto, speculari. Se il primo ritiene che le scienze naturali hanno l’obbligo di indagare tutte le dimensioni dell’esperire umano (ivi compresi i suoi bisogni intellettuali, la  sua volontà creativa e persino la forza dell’esperienza religiosa), e devono dunque rinunziare a qualsiasi strategia semplificativa e riduzionista che dica dell’uomo solo ciò che il lessico familiare del sapere naturalistico propone, per la Arendt quando si è trattato di investigare lo spirito e il mondo umano (sempre in difficile equilibrio tra nous, bios, zoe, kosmos, physis, animal rationale, res cogitans, res extensa, Welt, Umwelt, Sein, Dasein) è occorso sospendere la classica autoreferenzialità del dire filosofico, che produce gerarchie e classifiche tra soggetto e oggetto, tra mente e corpo, tra natura e cultura, tra essere e apparire, tra essenziale e accidentale. La Arendt si impadronisce così – addirittura proponendoli come quinte del palcoscenico dell’io che pensa – dei concetti chiave della biologia portmanniana: autopresentazione e autoesibizione.

Ogni forma vivente – che sta nel mondo e ha dunque una natura fenomenica – si autopresenta: l’ornamentazione della superficie esterna fa parte del modo di manifestarsi dell’animale e non ha un legame necessario con una funzione (l’eventuale riscontro tra una “decorazione” destinata a un organo interno è la rara eccezione che mai può farsi norma). Ogni superficie ha un suo senso (e un suo valore) come vetrina di fenomeni ottici. L’“apparenza” non è dunque un inessenziale che si può eventualmente aggiungere a un più vero e autentico “interno”:

all’interno non compete un grado di essenzialità o di dignità maggiore di un’esteriorità opaca e variegata: l’interiorità dell’essere animato è una realtà senza dimensioni, che non ha la sua sede nello spazio interno, non occupa un centro nello spazio, bensì è essa stessa un “centro” attivo, ugualmente presente in tutto l’animale .

Di più: l’esistenza di uno «stimolo innato» (sono parole della Arendt) – e non meno urgente dell’istinto meramente funzionale di conservazione – come la Selbstdarstellung, l’impulso all’autoesibizione, che in termini di conservazione della vita risulta «del tutto gratuito e trascende di gran lunga ciò che può stimarsi necessario per l’attrazione sessuale» , propone uno scenario rivoluzionario, soprattutto se si tiene conto che tale autoesibizione è molto pronunciata nelle forme superiori della vita animale e trova il suo culmine nell’uomo.

La dimensione autopresentativa, e ancor di più l’autoesibizione delle forme viventi (che si tratti di uccelli o di newyorkesi) segnano la fine non solo del funzionalismo in biologia, ma anche, sembra concludere la Arendt, di ogni polarità oppositiva atta a interpretare il mondo e i suoi abitanti. D’emblée sembrano scomparire i pregiudizi che hanno costituito prima la tradizione metafisica (la superfluità e non già l’essenzialità è il contrassegno della vita nel mondo) e poi ogni ambizione ontologica: nella coincidenza di Essere e Apparire, dice la Arendt con Portmann, “autentico” è ciò che viene spontaneamente alla luce come i rami di un albero, le piume di un uccello; “inautentiche” sono le radici di un albero (prima di averle eventualmente estirpate), o gli organi interni di un uccello o di un uomo (che di solito, puntualizza la Arendt, se mostrate risultano non a caso sgradevoli). Ed è sull’esterno che, peraltro, si giocano le differenziazioni e le varietà, che sono tali quando sono effettivamente visibili – noi cogliamo tali differenze e perciò ri-conosciamo qualcuno o qualcosa, se ci mostrassero un fegato assai difficilmente sapremmo dire “chi” o “di chi” è e forse neanche se si tratta di un fegato umano – e sulle quali noi ci esprimiamo in termini di piacevolezza o sgradevolezza in virtù dello sguardo che magari capta un ordine e una simmetria, un abito insomma. In termini meno biologici e più prettamente fenomenologici ciò vuol dire che il primato dell’apparire esterno tradisce, come un di più della mera ricettività dei nostri sensi, «un’attività spontanea [corsivo mio]: ogni cosa che può vedere vuole essere vista, ogni cosa che può udire richiede di essere udita, ogni cosa che può toccare si offre per essere toccata (corsivo della Arendt)» .

In altre parole, le forme viventi, e in particolare l’uomo, hanno una superficie specificamente fatta per apparire e cioè atta a essere vista e destinata a mostrarsi a qualcuno, ma tale apparire è simultaneamente impulso ad apparire: è qui che le forme di vita trovano l’accordo e l’intonazione al mondo, nell’esibire non un “sé interno” ma tutte se stesse come individualità. Il che, rientrando per un attimo sul piano più propriamente biologico, vuole anche dire che taluni degli effetti sensibili di tale manifestarsi (odori, rumori e suoni, ad esempio) non sono mere espressioni umorali o comunque autoriferite: agiscono sempre “a distanza”, spiega Portmann, reclamano cioè un’altra interiorità (o esteriorità) (uno per tutti, individualità) che le esperisca (e già risiamo sul terreno fenomenologico). Contrariamente a quanto siamo soliti pensare o illuderci, conclude la Arendt, siamo esseri superficiali almeno nel senso che la vita interiore non è più pertinente a ciò che veramente siamo. E le emozioni, i sentimenti e le passioni partecipano dello stesso gioco, ci sostengono, ci conservano, ci fanno apparire gradevoli o sgradevoli, magari in virtù della coerenza dell’immagine che presentiamo al mondo: ogni senso, si potrebbe concludere, ha il suo immaginario.

Ora, sostiene Portmann, l’effetto sensibile accresce il campo di attività dell’individuo e ne rafforza la possibilità di esperienza. L’apparire all’altro produce cioè un arricchimento della vita intersoggettiva, che però non va interpretato come la nascita di una vita associata da un primitivo stato di isolamento individuale (e qui la biologia sembra distruggere alla radice l’antropologia politica moderna): l’arricchimento che la comunicazione produce, agisce su una predisposizione alla “simpatia”, alla mutua rispondenza. Tale attitudine al riconoscimento e alla ricerca del proprio simile (e qui i limiti della vita individuale appaiono superati fin dall’origine) rende possibile l’evolversi dei sistemi di comunicazione. Portmann chiude il capoverso senza timori di sorta: «L’individuo non è mai solo, ma già precostituito alla superindividualità» (corsivo mio) .

Non c’è bisogno di avventurarsi oltre in senso comparativo per ritrovare il nesso con La vita della mente, basta rileggere il già citato incipit riscrivendo in corsivo le ultime due affermazioni:

Il mondo in cui gli uomini nascono contiene molte cose, naturali e artificiali, vive e morte, caduche ed eterne, che hanno tutte in comune il fatto di apparire, e sono quindi destinate a essere viste, udite, toccate, gustate e odorate, ad essere percepite da creature senzienti munite degli appropriati organi di senso. Nulla potrebbe apparire, la parola “apparenza” non avrebbe alcun senso, se non esistessero organi ricettivi – creature capaci di conoscere, riconoscere e reagire – con la fuga o il desiderio, l’approvazione o la disapprovazione, il biasimo o la lode – a ciò che non semplicemente c’è, ma appare loro ed è destinato alla loro percezione. In questo mondo, in cui facciamo ingresso apparendo da nessun luogo e dal quale scompariamo verso nessun luogo, Essere e Apparire coincidono. La materia inanimata, naturale e artificiale, immutabile e mutevole, dipende nel suo stesso essere, cioè, nel suo stesso apparire dalla presenza di creature viventi. Non esiste in questo mondo nulla e nessuno il cui essere stesso non presupponga uno spettatore. In altre parole, nulla di ciò che è, nella misura in cui appare, esiste al singolare: tutto ciò che è è fatto per essere percepito da qualcuno. Non l’Uomo, ma uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra.

Non è questa la sede per ricostruire il percorso della Arendt sul pensare e per scoprire dove si risolvano le suggestioni portmanniane. Il punto è che quella distinzione così netta e impeccabile tra natura e condizione umana, appare in questo nuovo contesto assai sbiadita, perché ha perduto, irrimediabilmente, ogni prerogativa teoretica, ogni privilegio ontologico e ogni garanzia di applicabilità pratica.

L’io che pensa, quali che saranno le sue specificità e le sue peculiarità, è in una forma vivente entro un processo vitale, nella vita della mente, e in quanto tale non può trascendere totalmente il mondo come ha voluto la metafisica, almeno da Parmenide a Hegel. Il pensiero è ri-flessione non perché flette la mente altrove, catapultandola in un oltremondo per poi riportarla sulla terra e assegnare i valori alle cose; è ri-flessione perché è un dialogo tra me e me stesso: e il me stesso è un’immagine etico-politica appariscente, l’immagine del noi-plurale, dove si specchia il mondo quando la coscienza è attiva e vuole giudicare le cose e le vicende mondane.

E le cose e le vicende del mondo, naturalmente, ci condizionano.

 

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