1. La natura invocata 2. Cercando l’altra faccia dello specchio 3. Lo specchio e l’altro
1. La natura invocata
Può sembrare paradossale, ma quanto più si moltiplicano le capacità esplorative, adattative dell’uomo, tanto più radicalmente viene posto l’interrogativo sulla natura umana. Forse sarebbe più giusto dire che la domanda scaturisce proprio dalla distonia tra conoscenza e processualità della natura umana. L’intera storia dell’uomo, quella che sempre più è apparsa scritta in caratteri umani, testimonia infatti, un corpo a corpo tra l’uomo e la natura esterna e interna a lui. La domanda parte da un ossimoro, nella misura in cui l’uomo ha sempre instaurato con la natura una relazione di negazione e subordinazione insieme, producendo un ripetuto cortocircuito: la natura non è ancora umana e l’uomo non è più naturale. Neanche le neuroscienze sciolgono l’ossimoro, ogni volta che si tratta di entrare nella non prevedibilità assoluta del comportamento umano, dai casi patologici personali agli eventi in cui sembra quasi che l’umanità smarrisca la capacità di fare tesoro della sua esperienza. Nonostante questo, la domanda si ripete e si ripete quanto meno sembra scontata una familiarità tra umanità e uomo. In realtà la stessa posizione della domanda smaschera una difficoltà, così come le risposte sembrano cercare più uno smarcamento dalla nettezza della domanda, che una reale intenzione risolutiva. Sarebbe perciò necessario precisare il significato che assume il termine natura coniugato con la realtà umana, là dove anche la struttura materiale dell’uomo trascende l’ambito rigorosamente fisico, biologico, ecc. Non si tratta di un cambio di fattori, ma dei modi nei quali prende corpo la relazione – dall’interno o dall’esterno – producendo uno spostamento nella natura come nell’uomo. Perciò parlare di natura umana può tanto voler dire richiamarsi alla struttura materiale e finita dell’uomo, eliminando ogni idealizzazione o comparazione con quanto l’uomo dovrebbe o potrebbe essere, tanto cercare una sorta di struttura che si dinamizza nelle figure dell’umano senza per questo perdere o alterare una sua invariante.
L’uomo è allora naturale? O piuttosto la natura dell’uomo è nella innaturalità, o meglio nel gioco di elaborazione continua della propria naturalità? Pretendere di dare una risposta a questa domanda sarebbe ancora una volta un tentativo di irrigidire questa continua apertura di fronti – una sorta di scatola cinese – che si presenta a chi cerca un approccio scientifico alla questione.
Nelle teorie antropologiche è stato alternativamente sostenuto che l’uomo è difettivo, mancante, eccentrico, creativo, un feto nato prematuramente, o un vivente ritardato; ognuna di queste definizioni dice l’uomo attraverso un troppo o un troppo poco e si legittima a partire da una scelta di campo comprovata con indizi e dettagli che a loro volta si prestano a interpretazioni diversificate, dando ragione a una o all’altra tesi. In ogni caso lo sfondo, come affermato da Carl Schmitt, è la scelta di prospettiva che si assume come chiave di lettura di ciò che l’uomo ha fatto di se stesso a partire dai propri limiti, in vista di una loro compensazione o di un loro oltrepassamento . Anche la lettura di Schmitt, che pure è illuminante circa la complementarietà delle diverse ipotesi, finisce per privilegiare le capacità dell’homo faber, l’aspetto decisionale più che la valenza ideologica e orientativa che queste teorie hanno nella determinazione dell’umano. Ogni antropologia di fatto procede per osservazione e per accumulazione di un materiale che rimarrebbe insensato e inerte senza il reperimento della traccia di ciò che l’uomo ha fatto di se stesso. Ogni teoria antropologica riproduce in qualche modo l’istanza pragmatica di determinazione , quasi la legittima individuando la struttura universale della configurazione dell’umano nella risposta riequilibrante di un difetto o di un eccesso: difesa e disciplinamento. In ogni caso la domanda come la risposta testimoniano della difficoltà di giungere al profilo unitario di un genere in divenire, presentando nella teoria il livello di autoconsapevolezza e di autorappresentazione degli uomini egemonica in una data epoca .
2. Cercando l’altra faccia dello specchio
Come il bambino che si guarda nello specchio, o si riflette nello sguardo della madre, ciò che prende corpo nel contenuto di ogni teoria è il tentativo di fissare un’immagine quanto più possibile armonica e stabilizzante. Persino il corpo, che non scegliamo nella sua costituzione e capacità, non è semplicemente un oggetto tra altri, ma il farsi fenomeno a se stesso di ogni Io, riflesso nello specchio o nell’occhio dell’altro, in cui si costituisce e si proietta ogni processo di individuazione. Nelle sue più intime fibre, nella pelle esso testimonia un più-che-vita, terreno della carica pulsionale, ma anche carico della memoria, della storia di un genere eccentrico e in continua costruzione. In ogni corpo si incarna e si rende effettuale la capacità di farsi soggetto nella complementarietà dell’aprirsi al mondo e dell’aprirsi a se stesso in cui si gioca l’umanità dell’uomo. L’apertura al mondo produce una torsione: l’individuo si guarda guardando il mondo, si sente sentendo il mondo, percepisce sempre un doppio lato soggettivo e oggettivo della relazione.
Lo sforzo della torsione non produce risultati confortanti. L’uomo come Alice non si accontenta, cerca l’altra faccia dello specchio, ma anche lì l’enigma non trova una soluzione univoca. Konrad Lorenz ipotizza una possibile conoscenza in termini biologici dell’apparato conoscitivo umano ne L’altra faccia dello specchio, che, però, non aiuta ad annullare la percezione dell’inversione – di un’immagine monca, di un mondo rovesciato . Cassirer è perciò scettico rispetto a questa conclusione che ipotizza e presume di poter individuare una radice materiale della plasticità e della razionabilità umana, quasi una meccanica di un gioco di riflessi raddoppiati come se la base biologica potesse dare un fondamento più stabile a quanto si specifica nella sua instabilità . L’altra faccia dello specchio, come nel caso del racconto di Carroll, non è solo ciò che c’è dietro, ma il luogo in cui prendono corpo favole, immagini di un non-detto, di un indicibile, che sfugge al controllo e alle intenzioni di chi nello specchio cerca in primo luogo se stesso. È stato lo stesso Lorenz a rilevare come il gioco tra il bambino e lo specchio sia dirimente della differenza tra uomo e animale. Attraverso lo specchio il bambino acquisisce la capacità di fare del proprio corpo l’oggetto privilegiato dell’esplorazione del mondo esterno, la palestra in cui impara a relazionarsi attraverso il controllo e la conoscenza del proprio corpo. Il fatto stesso di giocare con lo specchio si ripercuote sull’altra faccia, in ogni posizione assunta l’uomo non può eliminare l’articolazione tra esterno e interno, immagine e movimento. Anche l’occhio dell’altro, o l’altro occhio capace di vedere ciò che il soggetto non vede, rispecchia il desiderio di vedere se stesso: una reiterazione della scoperta infantile artificiosamente fissata, di contro all’evoluzione fisica e biologica. Una cosa è certa: l’una e l’altra faccia dello specchio appartengono a questo Giano bifronte, ma non vi appartengono come dati statici, o meglio sono la combinazione delle due facce in un intreccio filogenetico e ontogenetico insieme. Essere sociale e irriducibilità individuale convivono in maniera più o meno armonica nell’assemblaggio delle componenti istintuali e culturali senza risolversi l’una nell’altra.
Le due facce si riproducono continuamente là dove ogni individuazione si gioca nella reciprocità tra interno e esterno, tra proprio e improprio, tra continuità ed evento, che permangono nonostante ogni ricerca di determinismo e unitarietà. Allora si capisce come l’ossimoro della domanda è prodotto dallo stesso strabismo di questo vivente eccentrico, nella cui immagine, narcisisticamente cercata e delineata, si produce una sorta di anacronismo tra vecchio e nuovo, tra filogeneticamente determinato e ontogeneticamente acquisito, senza che sia possibile fermare quest’effetto di distorsione che emana dalla sua figura.
In fin dei conti si può dire con Valéry che questa ricerca assuma la forma di un’idea fissa , che sembra tanto più affermarsi, quanto più emerge l’impossibilità di uscire dalla impossibile coincidenza tra mente e corpo. In qualche modo, venuta meno la triangolazione Dio-uomo-mondo, attraverso cui circoscriveva i limiti alla sua spinta pragmatica e creativa, l’uomo emancipato si è trovato senza sfondo e senza prospettiva, sbilanciato, rinviato a se stesso e alla propria contingenza ed eccedenza . La risposta cercata in svariate strade si è ricollocata su quell’animale malato, orfano della natura, vittima del disincanto del mondo, in definitiva rinviato come Narciso ad un’immagine senza proprietà. In realtà tutto il dibattito antropologico, dal naturalismo all’idealismo, per finire all’alleanza tra neuroscienze e filosofia della mente, ha continuato a riprodurre un conflitto di interpretazioni in cui sembra essere in gioco ancora una volta la capacità di autodeterminazione dell’uomo a partire dalla conoscenza. Ciò che si cerca è la piena evidenza e trasparenza di un oggetto che, individuato nella sua eccedenza, nella sua difettività, nel suo ritardo o nella sua evoluzione rimane a un tempo visibile e invisibile, leggibile e illeggibile, coeso e disarmonico. I modi dell’esperienza umana si sono trasformati trasformando il mondo e insieme l’uomo stesso, tuttavia ciò non ha prodotto un necessario salto fuori dal piano empirico o materiale. Le forme nelle quali l’uomo ha organizzato la sua vita, a livello personale e sociale, hanno man mano preso il peso di una natura, sia pure seconda. La sperimentazione nella quale l’uomo ha incrementato la sua conoscenza dei processi neuronali, fisiologici, biologici ha prodotto una progressiva trasformazione della qualità e delle condizioni della sua vita. Questo poter guardarsi dentro, però, non ha determinato la congruenza tra le due facce dello specchio, ha dato luogo piuttosto a ulteriori slittamenti nella percezione di sé. Ma tale divaricazione è prodotta proprio dal modo in cui si dà ragione di questa complessità, dal piano a cui si fa riferimento nell’organizzazione dei dati.
3. Lo specchio e l’altro
Che si proceda dalla reazione dell’uomo alle basi materiali della propria esistenza o invece dalla sua caratteristica di muoversi sulla base di una finalità o di un progetto, che si proceda dal dato neuronale e biologico, alla fine può essere irrilevante. È significativo il dato comune di queste interpretazioni, un dato che rimane quasi in secondo piano, riattivando in tal modo la polarizzazione e il tentativo di un’assolutizzazione di una prospettiva sulle altre.
L’elemento è lo stesso punto di partenza, che è la considerazione dell’uomo come una totalità configurata intorno al simbolico, al visibile, al biologico o al neuronale, ecc. In questo tutto, o meglio nel nome di questo tutto è racchiuso il carattere specifico del genere umano: la capacità di autorappresentarsi, rappresentando e muovendosi nel mondo. Non si tratta di un centro, di un punto, di un dato, ma di una determinazione complessiva che permette di riconoscere il perdurare di determinati meccanismi anche nel momento in cui si perdono, si recidono, si disattivano parti dell’uomo. Ma la stessa resistenza di invarianti, o il condensarsi di caratteri acquisiti ha sempre per così dire uno sfondo pubblico, più che personale. La stabilizzazione di ogni configurazione dell’umano è risultato di quel gioco di specchi tra passato e presente, tra individuo e individuo, tra io e altro da sé che testimonia e dà forza a un patrimonio comune, transindividuale prima ancora che interpersonale o comune. Nel disciplinamento che ha prodotto l’incivilimento e l’evoluzione del genere umano agisce sempre una complessa dialettica tra norme abitudinarie, accettazione di nuove discipline, adattamenti a nuovi ordini: nulla viene cancellato e nulla assunto in maniera assolutamente neutrale. In fin dei conti che sia distonica, armonica, trasversale, accumulativa la natura umana non può essere determinata che come una totalità delineata da una serie di variabili che giocano nel tempo, nella storia, nello spazio, nel comune e nel personale. Può essere detta invariante solo questa struttura a raggiera dei processi di individuazione umana . In questo senso ogni generalizzazione non può che operare chirurgicamente, eliminando e perdendo in tal modo parti che non possono essere sostituite o eliminate senza lasciare una ferita e un difetto di conoscenza. D’altra parte anche arrendersi al particolare comporta un difetto di visione che emerge non appena ci si soffermi sulla legittimazione di ogni teoria, che tende a privilegiare qualcosa mettendo in subordine altro – il corpo sulla mente, l’interno sull’esterno, ecc. – svelando subito il non-detto: l’istanza alla compiutezza di ogni procedimento conoscitivo dell’uomo. Rimane in definitiva il desiderio o la volontà di sapere dinanzi a quella che vorremmo definire una costellazione in movimento.
In ogni volto umano si rivela la natura umana, ma non in ciascun volto in maniera assoluta, né generica. La risposta alla domanda allora non può che essere di carattere etico, nel tentativo di mantenere fermo quell’intervallo che l’uomo sempre è in termini storici, temporali, psicologici, sociali: lì dove l’uomo risponde a se stesso di se stesso, lì dove si canalizza la spinta all’assolutizzazione e alla sicurezza nell’itinerario complesso e articolato vissuta sin dall’infanzia. Lì dove si dischiude un mondo nella misura in cui emerge con forza il desiderio, lì dove conoscere se stessi non può prescindere dalla sfera del riconoscimento dell’altro. Tutto questo però non può essere solo affidato alla osservazione o a procedimenti definitori, ma richiede lo sguardo arrendevole e pacificato di chi ha imparato a farsi domande più che a darsi risposte, sapendo che la risposta è sempre affidata a quell’immagine distorta in cui l’uomo, cercando se stesso trova altro, altri, nel proprio presente il passato, il futuro, in un continuo divenire il cui dato è il poter essere altrimenti.