La decisione di ripubblicare, a più di un secolo dalla traduzione italiana, l’Azione dei vermi ci consente, finalmente, di accostarci a una versione aggiornata dell’ultima opera di Charles Darwin.
Lungi dall’essere una senile manifestazione di eccentricità, come in realtà potrebbe apparire solo a una lettura disattenta, il breve trattato sui lombrichi è, prima di tutto, il risultato della ripresa di un interesse che, come ci ricorda il curatore Giacomo Scarpelli nella lucida e poetica premessa al testo, si era acceso nel ventottenne Charles, incuriosito dall’osservazione degli esiti del lavorio dei lombrichi su un terreno incolto. Fu così che l’anziano naturalista, ritiratosi nella quiete della campagna inglese, decise di riannodare i fili di quelle lontane riflessioni, arricchendole con una buona mole di “osservazioni intorno ai loro costumi”, come recita il titolo della traduzione italiana del 1882 di Michele Lessona.
Nella sua autobiografia, Darwin sottolinea l’importanza delle qualità che lo hanno condotto a ottenere i successi scientifici per cui è universalmente noto. Tra gli altri, «un’infinita pazienza nel riflettere lungamente su ogni argomento» e una «gran diligenza nell’osservare e raccogliere dati di fatto» [C. Darwin, Autobiografia (1809-1882), Einaudi, Torino 1962, p. 127].
Nel saggio sui lombrichi troviamo il risultato dell’applicazione fedele e puntuale delle caratteristiche di questo modus operandi darwiniano: l’infinita pazienza che ha condotto il naturalista inglese a dedicarsi a una ricerca microcosmica e la gran diligenza con cui ha raccolto dati, sia adibendo nella propria casa una stanza a laboratorio per l’osservazione della vita dei vermi, sia nell’inesausta catalogazione di dati provenienti da diverse aree del mondo (dalla Francia all’India meridionale, dalle colline gallesi alle Alpi).
Il viaggio in cui Darwin conduce il lettore è quindi un viaggio nello spazio, ma anche nel tempo, allorquando ci si addentra in antiche abbazie e ville romane per valutare «il ruolo giocato dai vermi nell’interramento di antiche costruzioni», come recita il titolo del IV capitolo dell’opera. Un viaggio in cui sono continui i rimbalzi e i rimandi dalle misure microscopiche dei triangolini di carta che lo scienziato prepara per osservare poi come vengono impiegati dai vermi per foderare i loro tunnel, alle distanze temporalmente macroscopiche delle pietre di Stonehenge, nel cui parziale interramento l’azione dei vermi ha avuto un ruolo fondamentale.
Ritroviamo così, riassunta in uno studio su una tra le creature meno studiate e sicuramente meno amate, forse il lascito più profondo dell’esperienza darwiniana, ossia l’idea che un’azione di entità infinitesimale ma costante nel tempo possa produrre, nel lungo periodo, cambiamenti su scala planetaria. Così i vermi, con il loro agire silenzioso e nascosto, causano il lento modificarsi del paesaggio, rendono fertili e coltivabili i terreni e provocano l’interramento di ciò che vi poggia, fornendo un servizio molto utile ai fini archeologici di recupero dei resti di civiltà passate.
In questo senso Darwin ci fornisce un esempio illuminante di quanto possano essere strabilianti gli effetti di una causa ricorrente, secondo un principio la cui mancata accettazione ha «spesso ritardato il progresso della scienza, come è successo prima per la geologia e recentemente per il principio evolutivo» (L’azione dei vermi, p. 25), come scrive il naturalista inglese nell’introduzione alla prima edizione, datata 10 ottobre 1881.
Il principio evolutivo è presente, sottotraccia, anche nel saggio sui lombrichi ed è accostabile proprio all’azione dei vermi cui è dedicata l’opera, in quanto anch’esso lavora in modo silenzioso e inarrestabile per condurre a risultati inaspettati e di enorme entità.
E come gli effetti dell’azione dei vermi pervadono tutto ciò che ci circonda e la selezione naturale è costantemente all’opera in ogni ambito, allo stesso modo l’idea di evoluzione per selezione naturale è un solvente universale che agisce nel profondo del pensiero dell’uomo, permettendo l’ingresso nella storia di una concezione dinamica in luogo di una squisitamente statica. Del resto lo stesso Darwin, nel 1837 (curiosamente lo stesso anno a cui risale il primo interessamento alla vita e all’azione dei vermi), aveva scritto in un quaderno di appunti di ritenere che la propria teoria avrebbe portato con sé tutta una filosofia. E in effetti il diciannovesimo può a ragione definirsi “il secolo dell’evoluzionismo”. Le aspettative sull’importanza dell’applicazione di un principio dinamico nella storia dei viventi, del resto, erano ben presenti agli occhi di un acuto osservatore del secolo precedente. Si racconta che, mentre a Parigi iniziava a farsi sentire l’azione di alcuni movimenti precursori della successiva rivoluzione, Goethe si fosse detto un giorno rallegrato dalle notizie che giungevano dalla Francia. In seguito il poeta chiarì che il suo riferimento non era a quelle sommosse figlie di un embrionale spirito rivoluzionario, quanto a una discussione che aveva avuto luogo alla Académie des Sciences di Parigi, dove Cuvier e Geoffroy Saint-Hilaire avevano esposto alcune loro dottrine che contenevano un’aurorale idea di trasformismo.
L’idea darwiniana di evoluzione per selezione naturale irrompe quindi nella storia e agisce in ogni angolo del vasto territorio del sapere, dal campo delle scienze naturali a quello delle scienze umane e persino, secondo l’opinione di un interprete eterodosso delle teorie darwiniane come fu Miguel de Unamuno, nella stessa teologia. Il pensatore basco, scagliandosi con l’ardore polemico che lo contraddistingueva contro chi identificava in Darwin un nemico non solo del cattolicesimo, ma di ogni sentimento religioso, sostenne in un discorso tenuto il 22 febbraio 1909 nell’aula magna dell’Università di Valencia (in occasione di una commemorazione per il centenario della nascita del naturalista inglese organizzata dalla facoltà di medicina della stessa università) che pochi uomini sentirono come Darwin «così intimamente […] la solidarietà, non tanto con gli altri uomini, quanto con l’universo intero» (M. de Unamuno, Obras completas, 9 voll., Escelicer, Madrid 1966-1969, vol. IX, p. 258).
Ed è proprio una solidarietà cosmica, un amore per il dettaglio, un’attenzione per la distinzione e per il particolare ciò che il saggio sui lombrichi ci ricorda costantemente, in una vera poetica dell’umiltà che la scrittura accattivante dell’anziano Darwin aiuta a far trasparire dalle pagine del testo.
Il lettore che, incuriosito, si lascia guidare nell’analisi dell’azione dei vermi può scoprire che i vermi sono completamente sordi ma sensibili al caldo, al freddo e alle vibrazioni; che hanno scarse capacità olfattive ma ben sviluppato il senso del tatto e, soprattutto, che non è azzardato riconoscere in loro, e più precisamente nelle tecniche utilizzate nella costruzione delle gallerie, qualcosa che «si avvicina alquanto all’intelligenza» (L’azione dei vermi, p. 53), per poi concludere, anzi, che essi «chiaramente mostrano di possedere un certo grado di intelligenza invece di un semplice cieco impulso istintivo» (p. 168).
Grazie a Darwin e al suo saggio, così, conosciamo l’azione di quelli che Giacomo Scarpelli definisce i «timidi amici» (p. 19) e scopriamo quanto essa incida, non vista, sulla superficie del pianeta, proprio come, per ricordare nuovamente Unamuno e il suo concetto di intrahistoria, la «vita silenziosa di milioni di uomini senza storia che a tutte le ore del giorno e in tutti i paesi del mondo si alzano a un ordine del sole e si recano ai loro campi proseguendo il silenzioso e oscuro lavoro quotidiano ed eterno» (M. de Unamuno, Obras completas, 16 voll., Afrodisio Aguado, Madrid 1959-1964, vol. III, p. 185) incide sulla superficie della storia. Unamuno paragona questa azione a quella delle madrepore oceaniche, così come l’opera di Darwin si conclude con un riferimento all’azione dei coralli che hanno formato banchi e isole in mezzo all’oceano.Come ci aiuta questo breve saggio a capire quanto siamo lontani da quelle letture superficiali del principio evolutivo darwiniano secondo cui esso avrebbe «scoperto il peggiore degli altarini: il nichilismo» (D. C. Dennett, L’idea pericolosa di Darwin, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 21). E come scopriamo di essere lontani, anche, dalle motivazioni miopi con le quali, solo pochi anni fa, il governo italiano ha cercato di far sparire «dai programmi ministeriali per le scuole medie le due voci “Struttura, funzione ed evoluzione dei viventi” e “Origine ed evoluzione biologica e culturale della specie umana”: cioè, precisamente, gli argomenti dei due capolavori di Darwin L’origine delle specie e L’origine dell’uomo» (P. Odifreddi, In principio era Darwin. La vita, il pensiero, il dibattito sull’evoluzionismo, Longanesi, Milano 2009, p. 118).
Alessio Cazzaniga
02_2013