1965: all’età di ottantaquattro anni, Ludwig Binswanger dà alle stampe Delirio, l’opera che, insieme a Malinconia e mania. Studi fenomenologici (Boringhieri, Torino 1983), pubblicata nel 1960, viene salutata dai critici come il testo che sancisce la svolta fenomenologica dello psichiatra svizzero. L’osservazione stupisce lo stesso autore, che ricorda come l’orientamento fenomenologico abbia da sempre caratterizzato il suo metodo (p. 5). Già nel 1922, anno della pubblicazione del saggio Sulla fenomenologia (in Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano 1970, pp. 5-41), il metodo husserliano veniva presentato da Binswanger come la via maestra per una riflessione sui fondamenti epistemologici della psichiatria che prendesse le distanze dalle procedure oggettivanti del pensiero naturalista. La fenomenologia ha rappresentato una costante nell’opera di Binswanger, assumendo, insieme all’ontologia di Heidegger, un ruolo determinante nell’evoluzione della sua riflessione. In luogo di una svolta fenomenologica, dunque, il testo si pone come un ripensamento da parte dell’autore del significato assunto da ambedue gli orizzonti di pensiero nel proprio approccio metodologico.
Le riflessioni condotte da Binswanger nelle pagine di Delirio muovono dalla consapevolezza dell’eccedenza del pensiero heideggeriano rispetto all’ordine di problemi da lui affrontati in ambito psichiatrico. L’autore riconosce: «se da un lato posso apprezzare sempre di più l’ontologia di Heidegger nel suo significato puramente filosofico, dall’altro lato, tuttavia, la distinguo sempre di più dalla sua “applicazione” alla scienza, anche a quella della psichiatria. Sotto questo aspetto ha acquistato invece per me sempre maggior rilievo la dottrina della coscienza trascendentale di Husserl» (p. 5).
Lo stesso Heidegger, d’altro canto, non ha mancato di sottolineare la diversità dei due piani didiscorso, opponendo alla riflessione di Binswanger una critica che ruota intorno al problema della trascendenza. Identificando la trascendenza come «progetto del mondo» (L. Binswanger, La concezione eraclitea dell’uomo, in Per un’antropologia fenomenologica, p. 119), lo psichiatra svizzero la pone come la chiave per il superamento della scissione soggetto-oggetto caratterizzante la psichiatria di stampo naturalista. Heidegger dimostra, però, che Binswanger è lontano dal concetto di trascendenza da lui introdotto. «La trascendenza», afferma il filosofo, «non è una qualità del soggetto e una relazione all’oggetto in quanto mondo» (M. Heidegger, Seminari di Zollikon, Guida, Napoli 2000, p. 262). È, piuttosto, «il nome per l’essere in quanto trascendens; scorto guardando verso di esso a partire dall’ente» (ibid.). Allontanandosi dal concetto di trascendenza posto in essere da Heidegger, Binswanger resta ancorato a una riflessione antropologica, mostrando di aver messo da parte la questione della comprensione dell’essere, punto cardine del pensiero del filosofo, e di aver «estrapolato dall’analitica ontologico fondamentale dell’esserci quella costituzione fondamentale che in Sein und Zeit viene chiamata essere-nel-mondo, ponendola da sola a fondamento della sua scienza» (ibid., p. 257). In quest’ottica, prosegue Heidegger, le analisi di Binswanger non possono che porsi come «un’interpretazione ontica, vale a dire esistentiva dell’esserci fattuale di volta in volta attuale» (ibid., p. 285).
Se l’interpretazione della trascendenza come progetto del mondo segna da un lato la distanza del pensiero di Binswanger dal problema della comprensione dell’essere, dall’altro lato essa mette in luce il debito contratto dall’autore nei confronti della fenomenologia husserliana. Quest’ultima acquista un peso sempre maggiore durante lafase matura del pensiero di Binswanger, costituendo il terreno entro cui si svolge l’indagine sulla genesi dell’esperienza delirante, che proprio nelle pagine di Delirio trova una delle sue espressioni più compiute.
Nel definire le premesse del proprio lavoro, Binswanger parte, ancora una volta, dalla «costituzione fondamentale dell’esserci come essere nel mondo», focalizzando l’attenzione sulla «libertà della trascendenza» (p. 9). Il progetto del mondo trova fondamento nella libertà dell’uomo, libertà che implica un coinvolgimento col mondo, un «sentirsi situato nell’ente» (ibid.), piuttosto che un’imposizione su di esso. Solo lasciando essere le cose, l’uomo fa sì che esse dischiudano le possibilità per una sua scelta. Aprendosi al mondo l’uomo si espone all’indeterminatezza del suo poter essere, in vista della quale mette in atto una decisione che traccia il percorso del proprio destino (p. 10). In quest’ottica, la libertà autentica si distingue dall’arbitrio, per il quale l’uomo «non lascia che accada nulla di tutto ciò, ma s’intromette “abusivamente” nell’accadere» (p. 12), fissandone il senso una volta per tutte.
Nella relazione col mondo, che implica un costante abbandono alle cose, Binswanger individua il punto di riferimento per la comprensione dell’origine dell’esperienza delirante. Quest’ultima ha luogo da un venir meno della libertà della trascendenza, che si traduce in una chiusura al mondo e ai suoi rimandi. L’individuo si trova in tal modo proiettato in uno spazio estraneo, non più familiare, in cui «il sentirsi situati diventa un sentirsi smarriti e la disposizione arbitrio» (ibid.). Tale condizione non esclude di per sé la trascendenza. «Anche “quando è in delirio” o come “malato affetto da delirio” l’uomo progetta un mondo» (p. 11), ma lo fa a partire da una disposizione stabilita una volta per tutte che, nel rifiuto delle novità che il mondo dischiude, ripete invariabilmente se stessa (p. 13). Il progetto di mondo così costituito si rivela, dunque, manchevole, enormemente ristretto.
Procedendo con la lettura del testo, il solco venutosi a creare tra libertà e arbitrio acquista sempre maggior rilievo nel discorso di Binswanger, intrecciandosi saldamente al problema del significato, radice stessa della costituzione dell’esperienza. Le considerazioni dell’autore prendono le mosse dal rapporto tra significato e significatività, quest’ultima intesa come «la condizione ontologica di possibilità, perché l’esserci comprendente, in quanto interpretante, possa dischiudere qualcosa come significati» (p. 11). In virtù di questa originaria attività di significazione, il mondo entro cui l’individuo si muove risulta familiare. I molteplici contenuti dei suoi vissuti empirici rimandano ciascuno a un significato che li rende immediatamente riconoscibili. È esplicito in questo punto il richiamo alla dottrina fenomenologica, in particolare alla visione eidetica. Il significato, o, per dirla con Husserl, l’essenza, contiene in sé tutte le sue possibili determinazioni fattuali, dischiudendo l’oggetto nella sua generalità. La conoscenza del mondo ha luogo, dunque, in virtù del «vincolo eidetico» da cui promanano i molteplici dati dell’esperienza (p. 49).
Binswanger ritrova tale vincolo nella scienza, rivolta alle essenze del mondo oggettivo (p. 48) e ancor di più nella poesia, che, oltrepassando i confini tra le diverse regioni eidetiche, cerca di fare una sintesi «per configurare a partire da essa una regione eidetica del tutto nuova» (p. 49). Proprio con la poesia si rende manifesto il processo creativo da cui ha origine il significato. Un chiaro esempio è offerto dalla metafora (ibid.), già un tempo protagonista delle pagine intense di Sogno ed esistenza. Nella metafora l’autore vede all’opera «una “direzione di significato” unitaria, propria dell’immaginazione umana» (ibid.). Muovendosi lungo tale direzione significativa, l’immaginazione ha modo di penetrare in diverse regioni eidetiche, dando origine a nuove formazioni di senso, capaci di estendere e di arricchire l’orizzonte della propria esperienza.
Ciò che viene a mancare nel delirio, insieme alla libertà, è proprio questo momento creativo. Perdendo la guida di una direzione di significato unitaria, «le immaginazioni sono impoverite, cioè meccanizzate, al punto tale che alla loro variabilità e movimentazione si è sostituito uno schema bloccato» (p. 61). La paralisi dell’immaginazione rende impossibile accogliere la molteplicità dell’esperienza in un orizzonte di senso unitario. Ne deriva che «nel “mondo” del delirio ciò che ci viene incontro come trascendente e ciò che è costituito come immanente si disgiungono nettamente» (p. 64). Eccedendo lo schema immaginativo qui posto in essere, la pienezza dell’esperienza diventa priva di senso, estranea. Il mondo nella sua unità e continuità esplode, frammentandosi in una miriade di immagini singole e isolate nel tempo, che assumono il carattere di una minaccia. Spaesato in questo spazio non più familiare, l’individuo si ritira nel suo orizzonte ristretto, affidandosi a uno schema di azione che, nella sua monotonia, rasenta l’istintività (p. 85). Il blocco dei rimandi che qui viene a costituirsi determina il fallimento della comunicazione con l’altro, sicché in luogo di un universo condiviso, vengono qui a crearsi molteplici mondi isolati, tanti quanti sono gli individui affetti da psicosi (p. 84). In Delirio vengono descritti tre di questi mondi: si tratta degli universi di Aline e di Susan Urban, casi affrontati da Binswanger stesso nel corso della sua attività di psichiatra, e di quello di August Strindberg, la cui psicosi viene descritta dall’autore facendo riferimento a testimonianze scritte per lo più da Karl Jaspers.
Nelle pagine dedicate alle tre esistenze il racconto biografico cede il passo a una dettagliata ricostruzione del peculiare schema immaginativo che struttura ciascun mondo. Seguendo il filo di una riflessione complessa e articolata, il lettore si trova a essere condotto nei claustrofobici universi di esistenze paralizzate, percepisce l’impoverimento di ciascuna esperienza presente che, svuotata di senso, perde ogni rimando alla memoria del passato e all’attesa del futuro, sperimenta l’isolamento provato di fronte allo scacco di ogni intesa comunicativa con l’altro.
Con vigore e lucidità, in Delirio Binswanger porta a compimento l’obiettivo esplicitato fin dagli inizi della sua lunga e appassionata attività di ricerca: superare il momento dell’intuizione empatica, non discorsiva, della totalità dei vissuti del paziente per andare oltre, fino a «rendere esplicita, fissare ed elaborare fenomenologicamente questa intuizione della totalità» (L. Binswanger, Sulla fenomenologia, p. 39). Tale elaborazione, conseguita mediante un lavoro ermeneutico che coinvolge il terapeuta e lo stesso paziente, si pone come la chiave di accesso all’orizzonte significativo della psicosi e sottrae l’esperienza delirante dalla sua presunta estraneità, ponendo di fronte alla consapevolezza di muoversi sul terreno di una comune umanità.
Anna Baldini
S&F_n. 8_2012