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Gilbert Simondon – Deux leçons sur l’animal et l’homme [ellipses, Paris 2004, pp. 91, € 11]


In apertura della prima lezione Simondon afferma: «noi studiamo oggi la storia della nozione di vita all’interno del dominio della psicologia» (p. 29). Il punto di partenza è segnato dal fatto che, per studiare la psicologia umana, non si può non tenere conto della maniera attraverso la quale è stato pensato l’animale e la sua relazione con l’umano nel corso della storia del pensiero. Tutto ciò che riguarda la “condotta” umana deve essere letto in relazione all’animalità come dominio di conoscenza dell’uomo. In poche parole pensare la psicologia umana significa in primo luogo porre l’attenzione sulla maniera attraverso la quale è stata pensata la differenza tra l’uomo e l’animale. Non si tratta di determinare un discorso di verità sull’uomo o sull’animale o su entrambi ma di delineare una questione ideologica.

In realtà le due lezioni, la cui trascrizione compone il testo, servivano da introduzione a un corso annuale di psicologia generale propedeutico al proseguimento degli studi in vista dell’ottenimento di una licence in filosofia, psicologia o sociologia. Essendo appunto lezioni introduttive, pensate dunque per un pubblico di studenti giovani e “inesperti” della materia, esse rappresentano una sorta di ampia panoramica della maniera attraverso la quale la filosofia (o più in generale la storia del pensiero umano) ha posto la questione dell’umano in relazione all’animale. Il lasso di tempo trattato va dall’Antichità, dunque i presocratici, fino al XVII secolo, momento in cui si situa quello che possiamo un po’ enfaticamente definire il luogo dello scontro “iniziale” tra le teorie cartesiane e quelle anti-cartesiane (scontro che – sappiamo bene – si combatte, seppur in maniera differente e con differenti armi, ancor’oggi).

Ciò che sicuramente può stupire è il fatto che per introdurre un corso di psicologia generale si reputi decisivo il ruolo del pensiero dell’animalità nella costituzione della modalità attraverso la quale l’uomo pensa se stesso. Per Simondon questa impostazione permette di determinare «il problema dei rapporti tra l’intelligenza, l’abitudine, l’istinto e la vita» (p. 29), insieme di questioni che sarebbero confluite all’interno della sua opera maggiore, quella sull’individuazione come caratteristica (verrebbe da dire) ontologica della realtà.

In questa ricostruzione – rapida ma bisogna ammettere efficace e allo stesso tempo ricca – Simondon sottolinea il fatto che si possa riscontrare nella storia del pensiero della relazione uomo/animale «una specie di movimento dialettico» (p. 60), in quanto «da Aristotele fino a Descartes e da Descartes alle teorie contemporanee sulla nozione di istinto, le teoriche biologiche della nozione di istinto, c’è veramente una specie di relazione di tesi, antitesi e sintesi» (p. 62).

Il primo momento di questa dialettica si situa dunque all’interno dell’Antichità, agli albori del pensiero occidentale, nella quale troviamo sì una gerarchizzazione della vita umana e della vita animale ma «senza opposizione rigorosa e senza passione» (p. 61). Simondon pensa innanzitutto a quelli che definiamo “presocratici” per i quali tutto ciò che “vive” è dotato per l’appunto di un principio vitale per cui l’unica frattura fondamentale all’interno dell’esistente sussiste tra ciò che è provvisto di questo generalissimo principio vitale e ciò che non ne è provvisto, l’inanimato. In questo senso «è un’idea relativamente recente quella che consiste nell’opporre la vita animale alla vita umana, e le funzioni umane alle funzioni animali che sarebbero di un’altra natura» (p. 31). Con postura che ricorda da vicino quella della più accorta epistemologia storica francese, Simondon tende a rintracciare soprattutto i momenti di rottura e discontinuità attraverso i quali il pensiero umano tende a ristrutturarsi su basi differenti.

Il secondo momento, infatti, è quello che vede nascere il dualismo tra l’animale e l’uomo, dualismo che, secondo Simondon, ha il compito di mostrare per contrasto cos’è l’uomo: l’animale è «un vivente o pseudo-vivente che è giustamente ciò che l’uomo non è, una specie di controtipo della realtà umana idealmente costituita» (p. 61). Vero e proprio fondatore del “dualismo” in questo senso sarebbe stato Socrate, suoi successori il pensiero cristiano e Descartes. Socrate è alla base di quell’umanismo che legge il fenomeno umano in assoluta discontinuità con il resto dell’esistente, l’uomo essendo di una natura incomparabile a quella di qualsiasi altro essere vivente e non. Si tratta della prima forma – eppure già compiuta – di “differenza antropologica” per la quale tra ciò che può permettere la descrizione del comportamento animale – poniamo l’istinto – e ciò che può permettere la descrizione del comportamento umano – poniamo l’intelligenza – c’è, utilizzando una terminologia bergsoniana, un’incolmabile “differenza di natura”. In questo senso l’altro vertice o addirittura il compimento di questa impostazione, che tra l’altro si posiziona a distanza di due millenni, è Descartes nel pensiero del quale si trova la più limpida rappresentazione di questa “differenza”. Anche se, come ha mostrato Canguilhem, la questione in Descartes è più articolata e complessa, è indubbio che la ricezione del suo pensiero sia andata immediatamente in una direzione che fa dell’animale una specie di meccanismo puro e semplice e dell’uomo un’entità pensante slegata dalla natura corporale e capace di attività ben superiori. Se in Descartes si ha la «negazione della coscienza nell’animale, negazione soprattutto della facoltà di acquisizione razionale, di apprendimento intelligente, di risoluzione intelligente dei problemi» (p. 78) per cui si giunge a una rappresentazione della condotta animale nella quale nemmeno l’istinto ha un suo posto, in Malebranche, che potrebbe essere definito un cartesiano fondamentalista, si ritrova l’idea della possibilità di “aprire” gli animali come si apre un orologio per capirne il funzionamento (la vivisezione), “apertura” che può avvenire in quanto gli animali non possono soffrire, essendo la sofferenza una prerogativa umana dovuta alla cacciata dall’Eden e al peccato originale.

Il terzo momento – in realtà non trattato all’interno delle lezioni ma soltanto accennato – è quello rappresentato dal superamento del cartesianesimo prodottosi nello sviluppo delle scienze tra il XIX e il XX secolo. Questo superamento non ha nulla a che vedere con un puro e semplice rovesciamento del “cartesianesimo”, non ci dice che anche l’animale è un essere ragionevole e dotato di coscienza, ma che l’animale proprio grazie alle scoperte delle teorie biologiche dell’istinto può dire qualcosa dell’uomo e raccontare una dimensione di continuità tra l’animale e l’uomo in maniera differente e più ricca: gli Antichi affermavano che «ciò che è vero per l’uomo è vero in qualche misura per l’animale», il cartesianesimo affermava che «ciò che è vero per l’uomo non è vero in alcuna misura per l’animale», infine le tesi contemporanee affermano che «ciò che scopriamo per quanto riguarda la vita istintiva, la maturazione, lo sviluppo comportamentale nella realtà animale, permette di pensare in una certa misura la realtà umana, finanche la vita sociale» (pp. 62-63).

All’interno di questa dialettica generale (e che denota comunque un certo grado di semplificazione del problema probabilmente connesso anche alla funzione di queste lezioni cui si è accennato precedentemente) Simondon accenna qua e là a una maggiore complessità della questione.

In realtà il problema non è soltanto quello di determinare e analizzare le teorie che hanno pensato la “continuità” o la “discontinuità” tra l’uomo e l’animale; ciò che si può ricavare da queste lezioni è che all’interno di questa dicotomia essenziale si riscontrano molte posizioni sfumate e che rendono maggiormente complessa una ricerca di questo tipo. In primo luogo tra coloro che pensano la discontinuità Simondon sostiene che si trovano sia coloro per i quali questa differenza è “di natura” e radicale come in Socrate, negli Stoici, negli Apologeti cristiani e in Descartes ma anche coloro per i quali la differenza, pur sussistendo, è più sfumata e meno radicale, potremmo dire “di grado”, come in Aristotele, in Agostino, in Tommaso ma anche in autori come Montaigne e La Fontaine. Ma, sembra sottolineare Simondon, ci sono anche autori come Giordano Bruno e lo stesso Montaigne che, partendo essi stessi da una differenza tra l’animalità e l’umanità, mettono in campo, probabilmente in vista di una critica della decadenza dei “costumi” umani, una certa superiorità dell’animale. In secondo luogo anche tra coloro che pensano la continuità vi sono gli Antichi che pensavano che l’animale dovesse essere pensato a partire dall’uomo e i contemporanei che, in un certo senso, ritengono che l’uomo debba essere pensato a partire dall’animale.

Insomma tutto è ben più complesso di quanto possa sembrare, se vi è una dialettica che sembra dominare il procedere di questa relazione fondamentale, è pur vero che le posizioni che il pensiero umano ha messo in gioco sono molto più ricche e sfumate e all’interno di ogni “epoca” del pensiero ci sono state posizioni discordanti, segno che questa questione è stata quanto mai sentita da quando – e qui ci aggiungiamo in conclusione una nota antropologica – l’uomo si è staccato dalla sua dimensione di naturalità e si è trovato a costruire un mondo propriamente umano dinanzi al quale la natura esterna e interna si è rivelata sempre di più come un mistero.

Delio Salottolo

S&F_n. 7_2012

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