Era il 1937 quando Paul Valéry, ne L’uomo e la conchiglia, si chiedeva che cosa comporti l’osservazione della spirale della conchiglia; egli denunciava l’interdizione ad accedere a un’efficace comprensione dell’oggetto della visione: mai è possibile ricucire la distanza tra l’osservato e l’osservatore. Così all’uomo non è restituito che il pungolo di un enigma: tutti gli elementi che ritroviamo in natura «ci propongono, stranamente unite, le idee d’ordine e di fantasia, d’invenzione e necessità, di legge e di eccezione; e nella loro forma troviamo, da una parte, la parvenza di un’intenzione e di un’azione che le avrebbe plasmate al modo in cui sanno farlo gli umani, dall’altra l’evidenza dei processi a noi vietati e impensabili. […] Concepiamo la costruzione di questi oggetti, e sotto questo aspetto ci interessano e attraggono la nostra attenzione; non concepiamo la loro formazione, ed è sotto questo aspetto che ci incuriosiscono» (P. Valéry, L’uomo e la conchiglia, in All’inizio era la favola. Scritti sul mito, a cura di E. Franzini, Guerini, Milano 1998, p. 71).
Resta sullo sfondo questa riflessione sullo statuto dell’osservatore in Tra il cristallo e il fumo, raccolta di saggi in cui il medico e biologo francese Henri Atlan tenta una descrizione dell’organizzazione biologica: a suo avviso infatti, solo una formalizzazione della conoscenza e dell’ignoranza del soggetto produttore di scienza consente di trovare una terza via di definizione del vivente. Non ci è consentito eludere i paradossi forniti da quella dimensione bizzarra che, all’interno dei sistemi umani, individua nell’osservatore non solo una parte del sistema, ma anche «un metasistema che lo contiene nella misura in cui lo osserva» (p. 121). Il vivente è, per Atlan, sempre precipitato di una negoziazione tra un predittivo ordine deterministico e uno stocastico disordine, creazione ininterrotta che emerge come «compromesso del vortice liquido, tra la ridondanza del cristallo e la complessità del fumo» (p. 7).
Per assumere una simile idea occorre collocarsi su di un crocevia epistemologico che metta in comunicazione le nuove acquisizioni dovute alla biologia molecolare e computazionale, alla cibernetica, alla psicoanalisi etc. Le diverse strutture formali dei differenti saperi, secondo Atlan, andranno fatte dialogare sulla base di un criterio differenziale piuttosto che analogico, «ognuna dal proprio “luogo” tuttavia senza che l’unità pragmatica del vissuto di un’esistenza molteplice si esprima necessariamente nell’unità di un luogo di teorizzazione inglobante» (p. 9), in direzione di nuova filosofia della natura che è ancora tutta in gestazione e che deve fare i conti con la morte dell’uomo annunciata da Foucault, sapendo bene che «in effetti è l’Uomo, sistema chiuso, che è scomparso; i sistemi cibernetici aperti, auto-organizzatori, sono candidati alla sua successione» (p. 165).
Il libro è suddiviso in quattro sezioni, in ciascuna delle quali è ribadito costantemente un assunto: nonostante ogni tentativo di ridurre l’individuo in frantumi, di pensarlo ora in direzione di un corpo oggetto della biologia ora come psiche oggetto per la psicologia, ora come lingua e cervello per la linguistica, ora ancora come elemento per le scienze sociali, noi siamo e rimaniamo un’unità ambigua di soggetto e oggetto, come già insegnava Husserl quando si riferiva a quella natura che fa di noi un Leib e un Körper al contempo.
Il testo è dedicato a un attraversamento del discorso della complessità, a partire dal riconoscimento di un certo debito nei confronti di quella biologia inaugurata da J. Monod e F. Jacob, i quali hanno bypassato la vecchia idea ingombrante di finalismo – che «aveva sempre un sapore religioso» (p. 31) – alla volta del concetto di “teleonomia”, e cioè di una finalità scevra da cause finali, orientata secondo un ordine neo-meccanicista: i meccanismi molecolari dell’ereditarietà infatti ci dicono dell’esistenza di un programma primo assimilabile a una macchina programmata, il cui funzionamento ha solo la parvenza di inseguire la realizzazione di uno stato futuro, «mentre è in effetti determinato in maniera causale dalla sequenza degli strati attraverso cui il programma prestabilito la fa passare» (pp. 22-23). Richiamandosi a Bergson – che ne L’evoluzione creatrice aveva smascherato la falsa disputa che oppone meccanicismo e finalismo – Atlan sostiene che l’intuizione del carattere universale del codice fornitaci dalla biologia molecolare rimane monca se rinunciamo a pensare al vivente come processo aperto a un impatto con l’ambiente, se dunque non va integrata con altre predicazioni, offerte dalla chimica-fisica, dalla termodinamica dei sistemi aperti, dalla cibernetica e dalla teoria dell’informazione. Se è vero, ad esempio, che di funzionamento di una macchina parliamo, è altrettanto vero che la vecchia antinomia tra macchina e sistema organizzato – dove solo il vivente era pensato come organizzato – è ormai del tutto superata grazie agli apporti della cibernetica: sono le idee di feed-back, di controllo, di trattamento di informazione quantificata che hanno sottratto al vivente il monopolio dell’organizzazione, inaugurando la possibilità di pensare alle macchine come organizzate anch’esse. Laddove Monod si era riferito unicamente alla struttura dei cristalli, gli studi di I. Prigogine, M. Eigen e A. Katzir-Katatchalsky hanno fatto riferimento a sistemi termodinamicamente aperti e così «hanno potuto mettere in luce una nuova classe di strutture naturali ben più ricche di quella dei cristalli» (p. 35), dimostrando che nei sistemi chimico-fisici lontani dall’organizzazione emergono proprietà auto-organizzatrici a partire da flussi e fluttuazioni aleatorie.
Tali acquisizioni vengono, dallo studioso francese, ulteriormente articolate all’interno di una teoria dell’organizzazione che fa capo a quella dell’informazione di Shannon e che però sposta l’attenzione dal messaggio all’ascoltatore, consentendo di stabilire le condizioni in cui il rumore, inteso come fattore aleatorio, può diventare fonte d’informazione, piuttosto che essere una fonte di disordine: come già aveva evidenziato J. Piaget ne l’Adattamento vitale e psicologia dell’intelligenza,gli organismi sarebbero infatti caratterizzati dalla «proprietà non solo di resistere al rumore in modo efficace, ma anche di utilizzarlo, fino a trasformarlo in fattore di organizzazione!» (p. 54). Così l’auto-organizzazione può essere pensata come un processo di infittimento di complessità a metà tra il funzionale e lo strutturale, «risultante da una successione di disorganizzazioni recuperate, seguite ogni volta da un ristabilimento a un livello di varietà superiore e da una ridondanza minore» (p. 63). Lo spauracchio del mistero viene così estirpato dall’idea di stocastico: i fattori aleatori obbedirebbero a una logica particolare e non sarebbero che la risultante di una serie di errori in un sistema ripetitivo, responsabili di un’evoluzione che va in direzione di una sempre maggiore complessità dell’organizzazione. Attraverso di essi, l’ambiente circostante modifica di continuo – in maniera né prestabilita né tantomeno magica – il sistema vivente che, essendo a sua volta in grado di integrare gli errori nella propria organizzazione, «è capace di reagire in modo tale, non soltanto da scomparire, ma da modificarsi in un senso che gli è benefico, o che al minimo preservi la sua ulteriore sopravvivenza» (p. 72).
Quest’organizzazione quindi va declinata non già come stato, ma come dinamica incessante di disorganizzazione-riorganizzazione, processo relazionale – e qui c’è probabilmente tutta l’influenza dell’ontologia di Spinoza, di cui Atlan è acuto conoscitore – e sintetico di quei contrari che solo il senso comune ci costringe a definire come tali: vita e morte, organizzato e contingente, ordine e disordine; a tal fine, vengono chiamate in causa la pulsione di morte freudiana o ancora la “logica dei magmi” di C. Castoriadis, e tutte quelle riflessioni psicoanalitiche che si sono confrontate con la difficoltà di individuare uno statuto particolare da attribuire al soggetto. Così Atlan: «“io” sono l’origine di tutte le determinazioni poiché le stesse nozioni di aleatorio e di determinato dipendono dalle “mie” possibilità – come osservatore reale o potenziale – di conoscenza e comprensione del reale. […] Niente è caso poiché ciò che sembra caso è rumore agli occhi dell’osservatore esterno è integrato in fattori di autorganizzazione e di nuovi significati» (p. 124). In definitiva, se la nozione di programma prestabilito riferita agli organismi rimaneva riduttiva, un simile e differente approccio permette di sostituire alla metafora del programma quella – ancora una volta di matrice bergsoniana – di “memoria”. A questo proposito, l’assunto dell’autore è che mentre il volere si colloca in uno spazio che trascende la nostra consapevolezza, si dichiara in ogni nostra singola cellula, la memoria invece interessa la coscienza che abbiamo del nostro passato: «l’auto-organizzazione incosciente con creazione di complessità a partire dal rumore deve essere considerata come il fenomeno primo nei meccanismi del volere, guidati verso il futuro; mentre la memoria deve essere posta al centro dei fenomeni di coscienza» (p. 172). Di più, la memoria e il volere si complicano vicendevolmente, in una continua interazione che dà vita a ulteriori fenomeni: da un lato la coscienza volontaria, e dall’altro i fenomeni di rivelazione dell’inconscio.
L’incedere del testo segue dunque la logica stessa della complessità: si passa così da un’analisi microscopica a una macroscopica, che tiene prima presente la psiche umana e di poi il suo articolarsi in spazio culturale. È forse in quest’ultimo passaggio che Atlan non sembra convincere del tutto: nell’ultima parte egli infatti prova ad applicare la propria idea sul vivente a una disamina della storia del popolo ebraico, dal momento che «si tratta in effetti di una società di volta in volta spaccata, dispersa, unificata, nello spazio e nel tempo, un’esperienza esemplare di permanente rinnovamento e di rinnovate stabilità» (p. 283, n.). Tentativo, questo, che ci appare frutto di una certa forzatura.
Ma, al di là di ciò, questo libro, scritto una raffinatezza tale che sfiora la letterarietà, può appassionare come un romanzo, nonostante l’estrema difficoltà – dovuta a un’enorme densità di approcci e informazioni – nel quale conduce il lettore. La filosofia, che ancora si deve confrontare con certa metafisica sostanzialistica, ha tanto da imparare da Atlan: assumere infatti le organizzazioni viventi come “fluide”, “mobili” (p. 13), equivale ad andare incontro, nel tentativo di descriverle, alla sfida che la complessità continua a lanciarci.
Sara De Carlo
S&F_n. 3_2010