Storia di una fede incondizionata ma anche di tentativi falliti e speranze infrante. Cosa accade quando una teoria, per secoli universalmente accettata, viene messa in discussione nelle sue fondamenta? È ciò che si chiede l’astrofisico Pedro G. Ferreira in quella che, a oggi, può essere considerata la più completa biografia della relatività generale. Dagli affanni della genesi agli intrighi della sua evoluzione, dalle nebbie del declino agli utopici entusiasmi della sua riscoperta. A cent’anni circa da una delle più immense conquiste dell’umanità, La teoria perfetta narra dei travagli di quest’affascinante avventura e lo fa, per la prima volta, in termini umanissimi. A incomprensibili equazioni e complesse formule matematiche, Ferreira predilige un linguaggio che, al servizio di esigenze divulgative, abbandona ogni inclinazione al tecnicismo per trascinare il lettore in un mondo, quello della fisica, che diviene, all’improvviso, più accessibile e, inevitabilmente, meno inoppugnabile: persino in ambito scientifico, nulla, dopotutto, è certo come sembra. Dietro la lucida apparenza di formule perfette, tutta la fragilità di un’impresa che si trova a dover fare i conti con il complicato mondo emotivo di menti più o meno geniali, con posizioni apparentemente irremovibili e pur contrastanti, con sodalizi politici e intenzioni, non di rado, miserabili. Viste le premesse, le risposte che giungono dall’indagine sul cosmo, di cui Ferreira offre una ricostruzione storica meticolosa, lungi dal procedere verso l’inamovibilità di un destino, restano aperte a imprevedibili esiti.
Quando Newton, nel 1698, pubblicava i risultati delle osservazioni condotte sulle reazioni degli oggetti alle forze meccaniche, difficilmente avrebbe potuto immaginare che qualcuno, dall’ufficio brevetti di Berna, avrebbe cominciato a scuotere i presupposti della sua legge di gravitazione universale, al punto da sconsacrarne l’indiscussa autorità. Era il giovane Einstein che, duecento anni dopo, si apprestava ad alleggerire l’umanità dal secolare peso di un ipse dixit giunto ormai al capolinea e che, di lì a breve, avrebbe ceduto il passo al più grande tentativo di indovinare il mistero dell’universo, attraverso una vincente unificazione della gravità e della luce. Le falle che la meccanica classica e l’elettromagnetismo avevano lasciato irrisolte, parevano trovare, nell’immensa intuizione della gravità come geometria, un solido tentativo di risoluzione che, se avvalorato da una prova tangibile, avrebbe deviato, per sempre, il corso della storia. Succede a Príncipe, una piccola isola al largo del golfo di Guinea, nel 1919. Da qui, l’osservazione della deflessione della luce durante un’eclissi solare, compiuta dal cosmologo inglese Arthur Eddington, fornisce la conferma inossidabile della geniale formulazione che, il 25 novembre 1915, Einstein aveva elaborato circa la curvatura relativistica dello spazio e del tempo. La «danza cosmica» con la quale queste due entità, confluite in un’unica categoria, si muovono all’unisono, sarebbe divenuta un modello imprescindibile di confronto, per chiunque avesse voluto provare a spogliare la natura dei suoi segreti più remoti. «Le stelle non sono dove sembrava o si era calcolato che fossero. Ma nessuno deve preoccuparsi» (p. 47): suona così, a pochi giorni dalla grande scoperta, la dichiarazione del New York Times, mentre il mondo, tra il fervore e lo sgomento, si prepara a ricevere in eredità le imponderabili conseguenze della teoria perfetta. Ciò che segue, è il progressivo dispiegarsi, dinnanzi agli occhi della scienza, di un universo più misterioso del previsto e di una struttura cosmica molto più complessa di quanto lo stesso Einstein, probabilmente, non si aspettasse. Infiniti orizzonti e scenari inediti ribadiscono, all’uomo, il suo trascurabile passaggio sulla terra e lo informano che è ormai giunto il momento di rinunciare, in via definitiva, a quel che resta delle rassicuranti illusioni antropocentriche, sopravvissute alle rivoluzioni di Copernico e di Newton. Eddington doveva esserne pienamente cosciente quando, con il suo lapidario «Attraverso le nuvole. Speriamo» (p. 46), prevedeva le grandi promesse che, da allora, il cielo avrebbe riservato alla ricerca. Promesse la cui eco rimbomba, con forza, nelle parole di Ferreira che, con lo sguardo rivolto al futuro, racconta dell’aspetto proteiforme assunto dalla relatività generale rispetto alla sua germinale, seppur vincolante, formulazione. Nonostante la sua innegabile efficacia e la sua estrema semplicità ed eleganza, la sensazione che qualcosa sfuggisse al controllo della teoria di Einstein gettava come un’ombra sulla sua decantata perfezione e generava, nel mondo della fisica, una netta spaccatura tra i relativisti fedeli e i più convinti avversari di una formulazione «troppo strana, troppo esoterica, troppo inutile per gli scienziati reali». Mentre intere scuole di fisici si accingevano ad applicare la relatività, dotata ormai di vita propria, a nuovi campi d’indagine, il suo creatore, avvinghiato a posizioni più moderate, diveniva sempre più schivo. All’astronomo belga Lemaître, che, a partire da una possibile soluzione all’equazione della relatività, fornisce, per primo, la prova di un universo in espansione, Einstein, tratteggiato da Ferreira oltre ogni idealizzazione, risponde sdegnoso: «sebbene i vostri calcoli siano corretti, la vostra fisica è abominevole» (p. 64). Di lì a qualche anno, alla convinzione del carattere finito e immutabile dell’universo, lo stesso Einstein avrebbe, tuttavia, attribuito il suo più grande errore: la proposta di Lemaître diveniva, a un tratto, «la spiegazione più bella e soddisfacente della creazione che io abbia mai ascoltato» (p. 72). La tesi che il cosmo fosse in continua evoluzione apriva, però, la strada a nuove e più profonde domande circa l’inizio dello spaziotempo e offriva, ai detrattori della teoria, ingiustificati pretesti di accusa. Era il caso dell’Unione Sovietica che, nella concezione evoluzionistica e nell’ipotesi di un’origine a essa sottesa, trovava le tracce di un inammissibile presupposto religioso. Nel frattempo, la Germania nazista non mancava di manifestare il suo dissenso per una teoria, che appariva come il frutto di quella «fisica ebraica» da estirpare, perché divenuta sempre più minacciosa per la formazione culturale tedesca. Alla morte di Einstein, nel 1955, così Oppenheimer ne congedava lo sforzo di una vita: «Nella compatta confraternita dei fisici si ammette tristemente che Einstein è una pietra miliare, non un faro; nei rapidi progressi della fisica, è rimasto alcune leghe indietro»(p. 118). Era il chiaro sintomo che qualcosa stesse cambiando: l’interesse per la fisica quantistica inaugurava il periodo buio della relatività generale. Ma una cosa è certa: nonostante gli innumerevoli tentativi di annientarla, nessuno, nel corso degli anni, è mai riuscito a trovare prove sufficienti a oscurarne la magnificenza.
Conciliare la relatività con la meccanica quantistica in una sintesi unitaria, analizzarne l’applicabilità su scale molto maggiori o infinitamente più piccole, verificarne la coerenza in condizioni di differente intensità gravitazionale, sono solo alcune delle sfide lasciate aperte dalla teoria alla moderna ricerca. Molti sono gli interrogativi rimasti insoluti, eppure, nella sua complessità, la relatività generale resta, ancora oggi, uno dei più potenti – sicuramente il più affascinante – strumento di comprensione della storia dell’universo, dell’origine del tempo, dell’evoluzione delle stelle e delle galassie. I buchi neri, i teoremi sulle singolarità di Penrose-Hawking, la teoria delle stringhe, le onde gravitazionali, l’ipotesi del multiverso sono tutte scoperte che, in un modo o nell’altro, hanno contratto, con la teoria perfetta, un debito inalienabile. La forza attrattiva che la relatività, questa «bizzarra teoria, con le sue griglie contorte di spaziotempo che si avvolgono attorno a profonde, desolate gole di nulla» (p. 10), ha esercitato – e continua a esercitare su intere generazioni di fisici – rende il confronto con essa ineludibile. Ferreira, che non fa mistero della sua personale «storia d’amore» con la formulazione einsteiniana, si dichiara entusiasta di come, al centro delle recenti argomentazioni a sostegno delle future missioni stellari, vi sia proprio la relatività generale. L’autore, del resto, lo aveva annunciato da subito: «Una volta presi dal sacro fuoco della relatività è pressoché impossibile liberarsene» (p. 13). La teoria perfetta è la storia di quest’impossibilità e di come, agli albori del XXI secolo, tanto ancora ci si aspetti da quella fortunata equazione che, nella bellezza della sua semplicità, regala l’accesso privilegiato al cosmo e ai suoi enigmi.
Rosa Spagnuolo Vigorita
S&F_n. 15_2016