Autore
Abitare il senso: sulla soglia del nichilismo. Un percorso fenomenologico tra Martin Heidegger, Reiner Schürmann e oltre
- Premessa
- Senso e abitare: per un’impostazione fenomenologica della questione
- Dalla normatività del senso all’abitare anarchico: Reiner Schürmann
- Tra senso e nichilismo: sulla soglia
↓ download pdf
S&F_n. 32_2024
Abstract
Dwelling in Meaning: On the Threshold of Nihilism. A Phenomenological Journey Through Martin Heidegger, Reiner Schürmann, and Beyond
First, the essay elucidates the inherent ambivalence of the concept of “dwelling” by examining the polysemy of “sense” through a phenomenological approach. Furthermore, drawing on the work of Reiner Schürmann and his interpretation of Heidegger’s thought, dwelling is examined in its historical, practical, collective, and normative nature. Based on his epochal conception of history, according to which the contemporary era marks the culmination of nihilism, Schürmann’s notion of “anarchy” and the dwelling he proposes are critically problematized. Finally, the essay inquires whether the nihilism that characterizes sense is not a line to be crossed or overcome, but rather the very threshold of dwelling and its intrinsic ambivalence.
- Premessa
Il presente testo non è che il tentativo di un primo inquadramento teorico del plesso nel quale risultano essere intrecciati i concetti di “senso”, di “abitare” e di “nichilismo”. Ciò che si propone non è una trattazione esaustiva su un tema circoscritto, quanto piuttosto un percorso che si sviluppa lungo alcuni dei motivi fondamentali della fenomenologia, della riflessione di Martin Heidegger e di Reiner Schürmann per una possibile impostazione della questione. Inoltre, come si avrà modo di osservare, il discorso giunge ad aprirsi proprio laddove dovrebbe invece chiudersi. Viceversa, per quanto concerne il suo inizio: paragrafo secondo.
- Senso e abitare: per un’impostazione fenomenologica della questione
In generale, si può affermare che i concetti di essere, di senso e di abitare siano indissolubilmente intrecciati. L’essere, ciò che in generale è, risulta essere dischiuso sempre secondo un senso proprio. Al contempo, tutto ciò che è sarebbe tale poiché incontrato, pensato, esperito, ossia dischiuso in un costitutivo coinvolgimento che troverebbe la sua espressione nella nozione di “abitare”. Si tratterebbe così di una relazione originaria a tre termini, che implicherebbe l'impossibilità di concepire ciascuno di essi indipendentemente dagli altri, e che, notoriamente, sarebbe stata esplicitamente colta da Martin Heidegger, in primo luogo nella descrizione dello «in-essere» (In-sein) dell’esistenza, del suo essere e stare al mondo[1]. Come è possibile leggere in Essere e tempo:
L’in-essere non significa dunque la presenza spaziale di una cosa dentro l’altra (…). «In» deriva da innan-, abitare, habitare, soggiornare; an significa: sono abituato, sono familiare con, sono solito…: esso ha il significato di colo, nel senso di habito e diligo (…). L’espressione «bin», «sono», è connessa a «bei», «presso». «Io sono» significa, di nuovo: abito, soggiorno presso… il mondo, come qualcosa che mi è familiare in questo o quel modo. «Essere» come infinito di «io sono», cioè inteso come esistenziale, significa abitare presso…, aver familiarità con…[2].
In tal senso, la nozione di abitare riassumerebbe in sé l’essere dell’esistenza nella sua costitutiva cooriginarietà con il mondo, la reciproca relazione fondamentale intercorrente tra i due, che si concretizzerebbe nel coinvolgimento dell’esistenza in un senso mondano già sempre dischiuso, compreso e accolto, donde essa trarrebbe le possibilità del proprio aver da essere, del suo curarsi e affaccendarsi, e che si manifesterebbe come rapporto di familiarità vissuta, come un esservi di casa.
Tuttavia, deve essere osservato che il carattere essenziale e non meramente constativo di tale familiarità caratterizzante l’abitare risiederebbe invero nella nozione di senso, la quale fungerebbe da vero “presupposto posto” dell’abitare. Nozione, d’altro canto, non meno problematica. Curioso ma non casuale, infatti, che il senso, come l’essere, possa dirsi in molti modi.
Se da un punto di vista lessicale è cosa nota che l’origine indoeuropea della parola rinvierebbe all’intorno semantico del viaggiare, del seguire un sentiero, il che collocherebbe la nozione di senso nell’ambito della direzionalità e dell’orientamento, nondimeno si può ben osservare come, da un punto di vista concettuale, la nozione di senso si dispieghi in molteplici direzioni dell’intendere.
In primo luogo, si può pensare ad esempio all’ambito sensoriale in generale, ai cosiddetti cinque sensi; oppure all’utilizzo della parola senso per indicare o richiedere il significato di una cosa, di un evento, di un’azione, alludendo quindi al suo aspetto rilevante e significativo. Secondo quest’ultima accezione, comprendere il senso di un fenomeno equivarrebbe all’apprensione della sua regola, delle motivazioni supportanti e delle implicazioni conseguenti, nonché del suo contesto costitutivo[3]. D’altra parte, in una accezione differente, l’idea di senso può essere intesa quale principio orientativo e operativo della ragione stessa, ad esempio come cartesiano buon senso[4], facoltà comune a tutti gli uomini, o come problematico senso comune, a sua volta concepibile come spregevole doxa di platonica memoria o come originaria doxa husserliana[5]. A ciò, inoltre, non può che aggiungersi una accezione per così dire più esistenziale del senso, come domanda sul perché dell’essere e della vita, della gioia e del dolore, del bene e del male: «A che tante facelle?»[6]. Da qui, seguirebbero l’ottimismo leibniziano (o di Candido[7], se si preferisce), la teodicea inquisitoria di Ivan Karamazov[8], la superstizione spinoziana[9], la rosa silesiana «senza perché»[10]. Infine, sempre in una prospettiva esistenziale, il senso apparterrebbe essenzialmente all’essere dell’azione, esprimendone il costitutivo ordine motivazionale, la sua direzione, il suo fine, nonché le sue conseguenze, nel cui riflesso, per giunta, verrebbe statuito il senso di chi si è, ovvero l’identità personale dell’agente, a partire dalla quale, in un continuo movimento a spirale, verrebbe trovato o conferito un senso alle proprie azioni.
A queste specifiche declinazioni (tra le tante possibili), si potrebbe poi aggiungere una accezione più generale del senso, e per questo più complessa da cogliere e articolare, la quale riguarderebbe l’ambito della comprensibilità. Il senso, infatti, non starebbe esclusivamente a indicare l’oggetto cui tenderebbe la comprensione, quale elemento, configurazione o trama di implicazioni dapprima ricercata e poi acquisita, bensì più ampiamente rappresenterebbe lo sfondo inaggirabile lungo il quale la comprensione avrebbe modo di implementarsi, sia nella propria possibilità d’essere che nel proprio orientamento. «Lichtung»[11] direbbe certamente Heidegger. Ma prima di tale specifica connotazione, si può altresì considerare come, in una prospettiva fenomenologica di ampio respiro, la dimensione del senso vada a identificarsi con quella dell’intelligibilità di qualsiasi contenuto e significato in generale, ossia di tutto ciò che può essere incontrato, percepito, compreso, praticato, esplicitato, immaginato, voluto, sperato, desiderato ecc. In tale prospettiva, la nozione di senso esprimerebbe una sorta di intrascendibilità della ragione rispetto a sé stessa e al suo costitutivo correlato. Finanche l’individuazione di un “non-senso”, infatti, così come l’ipotesi di un’entità trascendente il senso – o, se si preferisce, di un elemento noumenico, o ancora di un “fuori” abissale e imperscrutabile – sarebbe nientemeno che qualcosa di sensato, di comprensibile e intelligibile come tale, fosse anche solo come concetto limite o negativo. Come non ha mancato di osservare Heidegger, persino «l’abisso del senza senso» resterebbe «accessibile solo come senso»[12], in quanto, all’interno della cornice fenomenologica, il senso non designerebbe un significato particolare, quanto più veramente «ciò in cui si mantiene la comprensibilità di qualcosa»[13].
Definizione basilare e fondamentale, quest’ultima, che troverebbe testimonianza della sua valenza e della sua complessa articolazione anche nella riflessione husserliana, la quale rivelerebbe l’autostrutturarsi del senso nel dispiegarsi stesso dell’esperienza, rispetto a cui tanto l’analisi statica quanto l’indagine genetica porrebbero di volta in volta in luce tanto senso quanta datità[14], nell’inestricabile intreccio tra l’attività costituente della coscienza e la sua passività a un senso d’essere a essa già sempre prefigurato[15]. Nel segno della riduzione, il senso si rivelerebbe quale dimensione intrascendibile della manifestatività e dell’esperienza. In primo luogo, come ciò che caratterizzerebbe la coscienza intenzionale nella propria essenza[16]; in secondo luogo, come correlazione tra gli atti e la rispettiva oggettualità; e a partire da essa, il senso in qualità di «senso oggettuale noematico», dove esso si realizzerebbe nel conferimento di unità del molteplice (e come sintesi della continuità), i cui i «momenti iletici» e la cui «morphé intenzionale», pertanto, sarebbero distinguibili soltanto analiticamente e mai effettivamente[17], attestando in tal modo l’originarietà e l’intrascendibilità dello statuto di senso.
Primarietà e intrascendibilità del senso che, inoltre, emergerebbe in modo altrettanto emblematico a partire dal concetto di «costituzione»[18] (Konstitution), come illustrato nella complessa architettura fenomenologica del secondo volume delle Idee, nel quale la stratificazione del senso, nelle sue essenziali e costitutive relazioni, è posta in rilievo come dimensione da cui l’indagine fenomenologica deve necessariamente partire e a cui, infine, non può che inevitabilmente tornare, giacché in prima e ultima istanza tanto l’«oggettività» della «cosa materiale», quanto la possibilità stessa della fenomenologia e della sua indagine regressiva, risulterebbero essere nientemeno che formazioni di senso del «mondo spirituale»[19]. Se quindi l’analisi statica della costituzione del senso porrebbe in risalto l’inaggirabile correlazione tra ciò che appare e i modi di datità dell’apparire, l’analisi genetica attesterebbe l’impossibilità di risalire a un primo e ultimo livello fondativo del senso stesso[20].
Complessivamente, dunque, è possibile affermare che all’interno della prospettiva fenomenologica il concetto di senso, pur nelle sue molteplici declinazioni (direzione, sintesi, unità, relazione, correlazione, configurazione, costituzione, manifestazione, orizzonte ecc.), si qualificherebbe come ambito trascendentale di ogni esperienza possibile, di ogni significato e operazione. «C’è del senso», scrive Merleau-Ponty, «questo è il fenomeno originario»[21], e con esso il nostro esserci nel mondo, la reciproca apertura, altrimenti detta In-der-Welt-sein, entro cui sarebbe data l’intelligibilità possibile e l’entità esperibile, nei molteplici sensi, per noi, del mondo.
Che un senso vi sia, che esso si offra e che sia già sempre accolto rappresenterebbe allora l’essenza stessa dell’abitare il mondo, il tratto costitutivo della fondamentale familiarità con cui l’esistenza vi sarebbe coinvolta. Abitare, dunque, vorrebbe dire innanzitutto e fondamentalmente, prima delle varie e possibili determinazioni e tematizzazioni, abitare il senso, esprimendo il costitutivo coinvolgimento pratico, patico e manifestativo dell’esistenza con esso, in esso e per esso.
Una volta visto ciò (ma soltanto dopo), si deve tuttavia prendere atto dell’insufficienza di tale discorso. Sarebbe invero una prospettiva sghemba o parzialmente cieca quella che si limiti a considerare il senso esclusivamente come dimensione costitutiva e intrascendibile dell’umano abitare. I concetti di senso e di abitare, infatti, pur rappresentando una medesima e unitaria struttura, sono per loro essenza ambivalenti.
All’unità e all’onnipervasività del senso che accompagna l’intessersi dell’abitare, e che caratterizza questo come attivo-passiva collocazione in una totalità di senso, appartiene la possibilità di esperire la propria soglia, ossia di acquisire consapevolezza circa la propria finitezza di contro alla connaturata pretesa di assolutezza. Se l’abitare esprime il costitutivo coinvolgimento in una totalità di senso come un familiare esservi di casa, che rifletterebbe la qualità strutturalmente olistica dell’esistenza e dell’esperienza[22], di modo che per ciascuna configurazione dell’abitare, per ciascuna «modalità di frequentazione del mondo»[23] vi sarebbe sempre tutto il senso che c’è e può esserci, allo stesso tempo, il senso non sarebbe qualcosa di esclusivamente necessario, inemendabile o immutabile; tipico della sua essenza, infatti, sarebbe anche il suo esser possibile e, con esso, il suo poter essere altrimenti. In ciò risiederebbe, pertanto, la strutturale ambivalenza del senso e dell’abitare: un’insita duplicità declinabile non solo come coesistenza di necessità e possibilità, ma anche come compresenza di totalità e finitezza, di perennità e transitorietà, di intrascendibilità e distacco, o ancora di imposizione e decisione, di donazione e appropriazione.
Ambivalenza dell’abitare o «ambiguità»[24] del senso in vario modo attestata dalla riflessione filosofica e sempre accessibile all’esperienza di ciascuno. Molteplici sarebbero infatti gli esempi. Si consideri l’esperienza dell’impotenza, del fallimento e dello scacco, segni di una realtà trascendente i nostri progetti e irriducibile al senso da noi attribuito al mondo[25]. O ancora, l’esperienza del dolore, della perdita e, più significativamente, l’evento della morte altrui, la cui irruenta alterità «forerebbe»[26] l’immanenza del senso umanamente condiviso, rivelandone la fragile transitorietà e opacizzando un senso esistenziale personale non più ulteriormente possibile. Si pensi, inoltre, al cozzo interruttivo del «rimando»[27] nella prassi quotidiana, con cui sarebbe annunciata l’inesauribilità delle cose alla loro utilizzabilità, al loro senso per noi e in vista di noi[28]. Oppure allo scivolare del senso a infinita distanza nel languore della noia[29], o al suo sprofondare nel rapimento dell’angoscia[30]. Senso d’altro canto quale oggetto di personale decisione e appropriazione[31], e tuttavia costantemente esposto alla altrui espropriazione; talvolta restituitoci nella distanza della vergogna[32]. Infine, ma non da ultimo, si pensi allo stupore di fronte al senso, come accade nella fruizione artistica, o alla meraviglia destata dall’esperienza di un nuovo coinvolgimento per un senso familiare e quotidiano, come emblematicamente accade nell’incanto amoroso o, più tradizionalmente, nel thauma filosofico. Se non, più pacatamente, come nello sciente e metodico esercizio dell’epoché, nella scoperta di un campo fenomenico sempre disponibile e tuttavia innanzitutto e perlopiù celato nell’atteggiamento e nel mondo naturali.
Se il senso si configura, dunque, come dimensione costitutiva dell’abitare, in quanto sempre accolto e presupposto dall’esistenza, al contempo esso racchiude in sé la possibilità di essere messo in questione, di essere oggetto di distacco, di decisione e di appropriazione, così come di poter essere altrimenti. La sua necessità sarebbe dunque intrinsecamente legata alla sua possibilità, così come la sua assolutezza sarebbe sempre segnata dalla finitezza. In tal senso, vi sarebbe sempre tutto il senso che c’è e può esserci, ma tale senso non sarebbe mai totale, né definitivo. L’abitare non sarebbe altro che la continua attuazione di questa fondamentale ambivalenza, lo sbilanciato sostare su tale insita soglia, luogo liminare tra ciò che è dato e ciò che è aperto al possibile, tra ciò che è necessario e ciò che può esser messo in discussione.
- Dalla normatività del senso all’abitare anarchico: Reiner Schürmann
Tra le tante e possibili vie del pensiero, la speculazione di Reiner Schürmann, forse il più audace interprete del pensiero heideggeriano, offre elementi cruciali di riflessione sull’essenziale intreccio tra senso e abitare, declinando una peculiare forma di ispirazione fenomenologica all’interno dell’analisi storica. Da un punto di vista contestuale, la sua riflessione si inserisce a pieno titolo in quella temperie filosofico-culturale seguita al secondo dopoguerra, e che nei propri lineamenti di fondo è stata felicemente riassunta da Lyotard con l’espressione «condizione postmoderna»[33]. Il lavoro di Schürmann prende infatti forma sullo sfondo di una modernità ormai in disfacimento, in cui il venir meno delle cosiddette “grandi narrazioni” che garantivano un tempo una più o meno solida comprensione del reale presta il suo fianco alla consapevolezza condivisa circa l’impossibilità di valori e principi ultimi che possano ancora guidare l’azione e dare senso e direzione all’esistenza. Una condizione che tuttavia, proprio in virtù del venir meno di un’idea monolitica o “forte” di verità, prospetterebbe secondo alcuni interpreti la possibilità di un suo nuovo senso, ovvero un’idea di verità non più univoca, bensì ermeneuticamente aperta, finitamente storica, plurale e per questo meno violenta, il cui riconoscimento oscillerebbe tra un aperto relativismo culturale e l’attestazione di un più moderato relazionismo. Pur con le dovute precisazioni del caso, il pensiero di Schürmann si colloca in tale contesto filosofico e culturale – anche se in sordina, in parte a causa della sua prematura scomparsa –, espletandosi in un serrato, autonomo ma non meno rigoroso confronto con l’opera di Martin Heidegger. Con il suo capolavoro del 1982 Le principe d’anarchie. Heidegger et la question de l’agir[34], Schürmann si colloca pienamente in quella vulgata che ha letto Heidegger in chiave “emancipativa”[35], ricercando nella sua speculazione elementi chiave per la comprensione della storia occidentale (coincidente con la storia della tradizione filosofico-metafisica) e del suo destino consegnato alla contemporaneità. Egli stesso si fa interprete di quella «storia dell’essere»[36] (Seinsgeschichte) formulata da Heidegger, conducendo nella capitale opera postuma Des hégémonies brisées[37] una ardita analisi genealogico-filosofica della tradizione filosofica, ripercorrendo i paradigmi fondamentali del pensiero che avrebbero guidato lo sviluppo della storia occidentale sino a condurla sulla soglia del proprio compimento, alla possibilità della sua definitiva conclusione e «chiusura»[38], la quale, secondo Schürmann, sarebbe stata annunciata proprio dal Denkweg heideggeriano.
Schürmann per questo può essere considerato come un rappresentante sui generis di quel gesto decostruttivo[39] che ha trovato la propria spinta determinante a partire dalla speculazione di Martin Heidegger. Discostandosi dalla più tipica realizzazione derridiana[40], egli recupera un senso più marcatamente heideggeriano di decostruzione, riappropriandosi a suo modo tanto dell’istanza fenomenologica quanto di quella storico-genealogica di fondo, il tutto finalizzato, sorprendentemente, non solo a offrire una inedita modalità di intelligibilità della storia, bensì più effettivamente a ricercare, a partire dalla soglia epocale contemporanea, un rinnovato e originario senso dell’agire, un agire che rappresenti il frutto ultimo della storia della metafisica, quale suo insito destino, e che sia coerente con la condizione postmoderna a lui contemporanea. Da qui può comprendersi il sottotitolo dell’opera del 1982 Heidegger et la question de l’agir, in cui se da un lato viene offerta una tenace chiave di lettura (di matrice heideggeriana) della storia della metafisica e della logica con la quale l’agire avrebbe di volta in volta trovato fondazione, dall’altro viene direttamente affrontato il problema di quell’«etica originaria»[41] che avrebbe segnato la speculazione heideggeriana, la quale, nella lettura offerta da Schürmann, non si limiterebbe a essere semplicemente una topica interna al Denkweg, quanto piuttosto concernerebbe in modo essenziale la condizione epocale contemporanea e il destino stesso della metafisica. Tramite il pensiero di Heidegger, Schürmann fa i conti con il proprio tempo presente, con la storia che l’ha generato e con il dissolvimento di solidi principi di intelligibilità storico-veritativa e di fondazione pratica: la possibilità di un’etica originaria rappresenterebbe la vera scommessa della contemporaneità.
Torniamo ora noi. Per quanto concerne la nostra trattazione, il riferimento a Schürmann trova la propria utilità non solo per il tenore grossomodo heideggeriano che ha accompagnato le precedenti pagine. La sua pertinenza è rappresentata dalla sua posizione teorica di fondo, nella quale è possibile evincere, in modo emblematico e ottimale, la costitutiva ambivalenza caratterizzante l’abitare nel suo originario rapporto con il senso, un’ambivalenza sulla cui soglia sono raccolti da un lato l’intrascendibilità della dimensione di senso, la sua necessità di principio così come la sua realizzazione di fatto (secondo la propria configurazione storica), dall’altro la sua costante apertura alla possibilità, la sua possibile messa in questione e dunque la costitutiva crisi che accompagnerebbe ogni rivelazione e posizione di senso. Inoltre, deve essere altresì considerato che, nella riflessione di Schürmann, l’ambivalenza che caratterizzerebbe il paradigma dell’abitare non sarebbe semplicemente attenzionata storicamente, bensì verrebbe essa stessa assurta a peculiare condizione epocale: l’epoca contemporanea sarebbe infatti il luogo in cui l’insita ambivalenza del senso si renderebbe radicalmente esplicita. In tal modo, la sua speculazione consentirebbe il passaggio da un discorso fenomenologico sull’abitare e sul senso a una sua possibile declinazione e concretizzazione storica. Infine, a rendere l’analisi di Schürmann più funzionale per il nostro discorso rispetto ad altre possibili, è il fatto che in essa vengano accentuati proprio i due momenti costitutivi dell’ambivalente essenza dell’abitare, l’intrascendibilità del senso e la sua messa in questione. Al riconoscimento della insita normatività del senso, di cui ne verrebbe posta in luce l’intrinseca qualità istituente, seguirebbe infatti il proposito della più radicale possibilità di emancipazione, esasperando il coessenziale momento destituente. In virtù di ciò, si è ritenuto opportuno volgere alla sua riflessione in quanto esemplare del modo con cui una certa sensibilità fenomenologico-normativa, a base heideggeriana, può essere implementata nell’indagine storico-genealogica per la comprensione del paradigma abitativo in generale nonché della sua concretizzazione contemporanea, nella quale l’ambivalenza dell’abitare, la sua intrinseca soglia, si farebbe vera e propria condizione epocale. In maniera funzionale al nostro discorso, se ne ripercorrono dunque, di seguito, alcuni dei nuclei principali della sua teoresi.
A partire da una concezione destinale della storia, intesa come Seinsgeschichte, tesi di Schürmann è che il divenire storico sia scandito dall’affermarsi e dal succedersi di alcuni «principi»[42], i quali inaugurerebbero di volta in volta le epoche storiche dell’umanità. Principi che Schürmann attinge dalla storia del pensiero, ma che trovano chiara enunciazione nella riflessione heideggeriana[43], quali sarebbero, ad esempio, le idee platoniche, la sostanza, Dio, la legge morale, l’autorità della coscienza, il bene comune, la felicità dei molti, il progresso storico e scientifico ecc.
Nella Seinsgeschichte, un principio epocale si comporterebbe da vero e proprio «archè» del mondo storico, dischiudendo un’epoca e disponendo sotto il proprio ordinamento i rapporti di significatività, stabilendone al contempo l’ordine motivazionale. L’affermarsi di un principio epocale condurrebbe alla instaurazione di una caratteristica «economia della presenza»[44], ovvero di una configurazione del reale i cui intrinseci rapporti di manifestatività e possibilità, di necessità e contingenza, di senso e non-senso sarebbero tacitamente regolati secondo la sua insita logica. In altro modo, un’economia della presenza altro non sarebbe che una configurazione storica del senso abitato, l’oikos mondano dischiuso secondo nomos epocale[45].
Inoltre, l’egemonia del principio, a partire da cui verrebbe disvelato e determinato il senso mondano, non sarebbe mai qualcosa di per sé evidente, in quanto essa si realizzerebbe attraverso gli usi, i costumi, le pratiche quotidiane che articolerebbero la vita pubblica e comunitaria. In questo quadro, l’abitare, così come inteso da Schürmann, viene posto in luce come fenomeno intrinsecamente collettivo[46], rappresentando il contesto vissuto di significati e possibilità storicamente animato nelle pratiche di tutti e di ciascuno. Le comunità, dunque, e non i singoli individui sarebbero i veri protagonisti della storia epocale, in quanto sarebbe attraverso di esse che i principi epocali si realizzerebbero, trovando espressione nell’esperienza comune del mondo.
Il radicamento storico e comunitario dell’abitare, pertanto, ne evidenzierebbe l’intrinseca valenza normativa. L’intorno di manifestatività e la sfera valoriale e assiologica si costituirebbero sempre in maniera cooriginaria, in quanto l’apertura complessiva del senso sarebbe strutturata e storicamente dischiusa sotto l’egemonia del principio epocale vigente. Il che non comporterebbe soltanto il riconoscimento dell’inscindibile unità tra presenza e pensiero, e dunque tra pensiero e azione, ma implicherebbe più radicalmente il ribaltamento del tradizionale rapporto tra teoria e prassi. In prospettiva epocale, infatti, sarebbe la prassi a fondare e a rendere possibile la teoria e ogni esplicita formulazione, poiché esse, “di principio”, sarebbero necessariamente originate all’interno di un contesto pratico, inscritte in un ordine storico del senso di cui non sarebbero che un prodotto. La prassi, a sua volta, non corrisponderebbe in primo luogo all’applicazione della teoria, quanto piuttosto rappresenterebbe l’orizzonte concreto, collettivo e storico da cui ogni teoria emerge e a cui ogni pensiero inevitabilmente ritorna. Essa sarebbe la vera precondizione del pensiero.
L’abitare, dunque, in quanto epocalmente configurato, sarebbe sempre coinvolto in un senso contenutisticamente determinato e assiologicamente orientato, impegnato in una economia della presenza entro la quale sarebbero statuite la totalità di «cose, parole e azioni»[47] a esso necessarie e possibili.
Per rendere più comprensibile l’idea di fondo, si richiami il primo esempio fatto da Schürmann nella sua analisi. Esso concerne la città-stato inca di Cuzco e la sua organizzazione a base decimale, secondo la quale era strutturata la vita sociale e cittadina nei suoi rapporti pratici e nelle proprie possibilità di intelligibilità.
Ma qual è il principio di intelligibilità, il principium di questo impero, il più centralizzato che sia mai esistito? La popolazione, gli animali, i lavori, il suolo stesso erano parcellizzati in unità decimali[48]. L’archè, in quanto «cominciamento» di questo sistema, fu il grandioso progetto imperiale concepito dal primo Inca, Pachacuti (…). L’archè, intesa come «comando», era l’autocrazia. Il principio di questa civiltà è, dunque, chiaro: in quanto primo nell’ordine dell’autorità, il princeps costituiva l’apparato politico con, alla sua testa, il cacicco supremo che esercitava il controllo verticale; in quanto primo nell’ordine dell’intelligibilità ovvero della razionalità, il principium era invece il sistema decimale [corsivo mio]. Ciascun dettaglio della vita giornaliera era sottomesso a leggi aritmetiche allo scopo della pacificazione, dell’espansione, della crescita agricola, della difesa, delle opere pubbliche. L’impero inca poté essere un pan-andino perché era un sistema, una piramide con una base decagonale. L’origine del sistema, «origine» sia come archè sia come princeps-principium, ci permette di comprendere questa società e le sue relazioni[49].
Ovviamente questo è soltanto un esempio esplicativo, che tuttavia restituisce un’immagine alquanto chiara dell’idea schürmanniana di economia della presenza e del rapporto che intercorrerebbe tra principio e realtà. Analogamente all’organizzazione interna della città-stato, infatti, si articolerebbe l’apertura mondana in generale, ogni volta secondo una determinata configurazione epocale.
Come osservazione a margine, si può affermare che, nella sua concezione epocale, Schürmann non starebbe che declinando quanto già colto da alcune delle più celebri analisi heideggeriane: la rete di rimandi di Essere e tempo, che caratterizzerebbe la struttura del mondo nel proprio ordinamento oggettuale e motivazionale, nell’appropriazione di Schürmann viene riempita di contenuti storici e epocali, pertanto in maniera perfettamente coerente con il versante per così dire più “ontico” della Seinsgeschichte heideggeriana, nella misura in cui la sottrazione dell’essere (la sua sospensione, la sua «epoché»[50]) con cui esso donerebbe epocalmente la presenza si realizzerebbe ogni volta, come possiamo ad esempio leggere nel Nietzsche, secondo l’affermazione di una peculiare «posizione metafisica di fondo»[51], con la quale sarebbe di volta in volta statuita la «misura»[52] del rapporto dell’esistenza con sé stessa e con l’ente intramondano, e così dell’abitare in generale e dei suoi contenuti mondani. Connotazione epocale del disvelamento che, tra i vari luoghi della produzione heideggeriana, può evincersi nel saggio La questione della tecnica[53], nel quale il fiume (in quel caso il Reno) non sarebbe più il luogo in cui ad esempio sarebbe data, come per Fedro e Socrate, la possibilità di una ninfa ispiratrice[54], bensì il suo essere consisterebbe oggi nella sua impiegabilità tecnica, nel suo essere in funzione del possibile impianto di una centrale elettrica. Ma più in generale basti pensare al rapporto sussistente tra ente e mondo per come posto in luce in L’origine dell’opera d’arte[55], in La cosa[56], e all’intelligibilità epocalmente dischiusa de L’epoca dell’immagine del mondo[57] o de La metafisica come storia dell'essere[58].
In generale, dunque, rispetto a quanto già posto in rilievo da Heidegger, Schürmann starebbe semplicemente esplicitando il fatto che il mondo sarebbe come tale un’apertura strutturata di senso, e che i suoi contenuti, ovvero il significato delle cose, le possibilità di azione e di intelligibilità, sarebbero dischiusi (o riempiti) in modo epocale. Un principio epocale fungerebbe in tal modo da centro di convergenza e di irraggiamento dei rapporti mondani, determinando a partire da sé la direzionalità interna della struttura mondana, e dischiudendo così il senso complessivo intersoggettivamente abitato.
Tuttavia – riprendendo ora il discorso di Schürmann – come la storia insegna, il dominio di un’epoca non sarebbe mai qualcosa di immutabile ed eterno. Le epoche mutano, si susseguono, e i loro mondi tramontano. Oltre a questa constatazione, Schürmann attribuisce un ruolo cruciale ai momenti di crisi epocale. Questi, infatti, non corrisponderebbero esclusivamente a momenti di “instabilità economica”, nei quali il vacillare dei principi e il venir meno del loro mordente sul reale e sulla prassi preparerebbe la transizione da un’epoca a un’altra. Più significativamente, le fasi di crisi epocale comporterebbero l’apertura di uno spazio di intelligibilità e di possibilità che sarebbe impossibile a darsi nella stabile egemonia di un principio. Vacillando nel proprio dominio e perdendo l’immanenza caratterizzante, nei momenti di crisi i principi si renderebbero esplicitamente intelligibili e comprensibili, consentendo una loro messa in discussione e offrendo agli agenti la possibilità di un loro superamento, aprendo così la strada a nuovi e possibili modi di abitare il mondo. In tal modo, sostiene Schürmann, l’intelligibilità della storia sarebbe resa possibile non dalla continuità dei suoi principi, bensì proprio dai suoi rovesciamenti[59].
Ad ogni modo, tale cammino di intelligibilità e progettualità storica non concernerebbe però soltanto lo svolgimento ormai concluso delle epoche passate. Più decisivamente, esso concernerebbe la condizione epocale contemporanea, le sue possibilità e il suo futuro. La crisi caratterizzante la nostra epoca, infatti, sarebbe ben più radicale rispetto a quelle precedenti, in quanto segnerebbe il compimento della storia epocale e della sua logica fondante, raccogliendone al contempo l’arrischiante potenziale dissolutivo.
In linea con le analisi heideggeriane[60], Schürmann osserva come l’imposizione tecnica del disvelamento, con la sua violenta e usurante oggettivazione totalizzante, rappresenterebbe l’espressione più estrema della logica principiale e del suo dominio sul reale, precludendo la possibilità di un diverso rapporto con la presenza, di un’alternativa figura dell’abitare e di un rinnovato senso del mondo. A differenza delle epoche passate, l’era tecnica non sembrerebbe ammettere alcuna vera messa in crisi, in quanto non si fonderebbe su alcun principio specifico. Al contrario, essa segnerebbe proprio la dissoluzione dell’idea stessa di principio, ovvero la rimozione della posizione gerarchica in cui, di epoca in epoca, un principio sarebbe stato assurto a referente ultimo del reale. In tal senso, a caratterizzare la tecnica sarebbe l’estremo dispiegarsi della logica principiale, nella sua essenza disvelante e organizzante, senza che tuttavia vi sia più alcun principio a sostenerla, se non quello della propria immanente e nichilistica imposizione.
Tuttavia, sarebbe proprio in tale situazione estrema che si aprirebbe la possibilità di un radicale capovolgimento, di una «Kehre»[61] della Seinsgeschichte che non condurrebbe più all’affermazione di un nuovo principio, cosa ormai impossibile a darsi, ma al definitivo superamento della stessa modalità economico-principiale del disvelamento, che inaugurerebbe così una nuova e inedita modalità dell’abitare, ovvero un abitare ontologicamente «anarchico»[62], privo di un principio ultimo che ne guidi la direzione e che determini l’imposizione univoca del senso. Un’anarchia che nel disvelamento tecnico del mondo risulterebbe essere tuttavia soltanto preannunciata, e di cui il vacillare dei principi tradizionali non ne rappresenterebbe che un segno, ma che senza una effettiva presa in carico non potrebbe condurre al ribaltamento della logica principiale, quanto piuttosto al perpetuarsi della logorante motilità tecnica.
Da un punto di vista concettuale, la suddetta anarchia prende forma non solo a partire dalla constatazione epocale del vacillare dei principi, bensì trova la propria vera ragion d’essere a partire da una base teorica ben precisa. Si deve infatti considerare che la concezione principiale della storia della metafisica e della corrispettiva logica interna, concernente il succedersi delle economie della presenza, sarebbe il risultato di solo uno dei due momenti della decostruzione di Schürmann[63]. Come brevemente posto in luce, il primo momento decostruttivo consisterebbe nella riconduzione dell’agire al proprio principio epocale, e di quest’ultimo alla corrispettiva economia della presenza, la quale, infine, si rivelerebbe essere dischiusa cooriginariamente al principio stesso. L’esito di ciò sarebbe il riconoscimento dell’unità di manifestatività e assiologia per ciascuna apertura di senso, nella quale la totalità dell’ente e delle possibilità pratiche si mostrerebbe essere di epoca in epoca finita, circoscritta, e in un certo senso in sé autofondata. La ragione ultima dell’essere e dell’agire, infatti, sarebbe semplicemente quella della propria necessità epocale, giacché l’imporsi di un principio statuirebbe tanto l’intorno della presenza quanto quello delle possibilità di intelligibilità e di formulazione di qualsivoglia teoria, teoretica o etica che sia. La decostruzione genealogica, incentrata sulla storia della metafisica e rivolta al problema della fondazione dell’agire, si arresta, in ultimo, al riconoscimento del costitutivo rapporto tra principio ed economia della presenza, attestandone pertanto la natura storica ed epocale. Ma questo, appunto, sarebbe solo il primo momento dell’operazione decostruttiva. L’analisi genealogica, infatti, una volta ricondotto l’agire al proprio principio epocale, e con esso la presenza al proprio contesto economico, si trasformerebbe in indagine fenomenologica, ponendo all’attenzione l’imporsi come tale del principio, ovvero il suo donarsi e pervenire; allo stesso modo, sarebbe attenzionata la presenza in generale. In altre parole, l’indagine genealogica, una volta risalita al principio e compresane la logica, domanderebbe del suo pervenire come tale, ovvero di come un principio giunga ad accadere e a imporsi, ponendo così in questione l’evento della presenza e il suo divenire. Volgendosi alla presenza, l’indagine procederebbe allora in modo fenomenologico, ripercorrendo con la sua lente l’indagine genealogica: essa muoverebbe dalla presenza dell’ente, risalirebbe al suo pervenire storico all’interno di ambienti epocali di senso, sino a giungere, infine, al pervenire come tale della presenza, ovvero al puro accadere con cui verrebbero di volta in volta posti in essere, in modo cooriginario, la presenza e il suo principio. La decostruzione di Schürmann si realizza così come una sorta di regressione trascendentale[64] al «venire alla presenza»[65] in quanto tale, in altro modo, a ciò che secondo l’autore sarebbe stato nominato da Heidegger come «evento», «Ereignis», di cui propriamente altro non potrebbe dirsi se non che l’«Ereignis ereignet»[66], che l’evento “eventua”, e che avvenendo fa avvenire, e che Schürmann, prediligendo da un punto di vista teorico la sua identificazione con lo «Es gibt»[67], con il puro “si dà” dell’essere, esplicita nella propria originale interpretazione come «Ursprung»[68], ovvero come «origine originaria» della presenza, di tutto ciò che è e può essere.
Il risultato finale della decostruzione schürmanniana sarebbe allora il seguente: tanto lo sviluppo storico, nel succedersi e alternarsi di mondi e di modi dell’umanità, quanto il dischiudersi e il presenziare della presenza, e con essi la configurazione dell’agire, si rivelerebbero essere fondati in prima e ultima istanza a partire dal gratuito evento del loro stesso pervenire, del loro spontaneo accadere. La loro origine o, in altro modo, il fondamento in generale consisterebbe nell’evento dinamico, sincronico, imprevedibile e in sé a-storico con cui, a partire da sé stesso, al di là di qualsivoglia principio di ragione o di intelligibilità (giacché a loro volta fondati), sarebbe di volta in volta fondato l’intorno della presenza e di pratiche, valori e principi che rendono un’epoca storica quella determinata che è.
E sarebbe proprio a partire dal rivelarsi del fondamento così concepito – il quale, celatamente, avrebbe determinato lo sviluppo epocale della tradizione storico-filosofica occidentale, mostrandosi solo adesso, sulla soglia della chiusura della metafisica – che sarebbe possibile ritrovare un nuovo e tuttavia originario senso dell’agire; un agire che, proprio nel momento epocale in cui i principi tradizionali sembrano venir meno, può ora accordarsi al giocoso mistero del proprio originario fondamento e perseverare nel suo cospetto. In tal senso, l’anarchia prospettata da Schürmann non matura solo a partire da una particolare presa in carico della condizione storica a lui contemporanea, bensì sarebbe radicata in quella «anarchia ontologica» che caratterizzerebbe il fondamento stesso dell’essere, e di cui l’anarchia può farsi ora sciente esercizio, proprio nel momento storico in cui la possibilità di un fondamento solido, tradizionale, sembra essersi esaurita. Sarebbe infatti proprio la crisi dei principi tradizionali ad aver liberato il campo per lo scoprirsi della celata essenza anarchica del fondamento e così della possibilità della sua etica.
Schürmann inviterebbe quindi al consapevole esercizio di tale anarchia, a una prassi condivisa che egli prospetta come un grande «apprendistato collettivo»[69], e che tuttavia non consisterebbe in alcun programma politico o ideologico (che costituirebbe una contraddizione in termini), quanto più essenzialmente in un atteggiamento esistenziale volto all’abbandono di ogni riferimento principiale e dedito alla rimozione degli odierni residui.
La suddetta anarchia non mirerebbe alla messa in discussione di un principio o di un valore in particolare, né ne indicherebbe di alternativi. Essa ambirebbe al superamento della stessa logica principiale a favore di un abitare capace di accogliere la mutevolezza del senso e di aprirsi al suo essere possibile, rigettando qualsivoglia fondamento ultimo così come la sua fissazione in un ordine definitivo.
- Tra senso e nichilismo: sulla soglia
Come è possibile evincere, la riflessione di Schürmann si inserisce pienamente nell’onda lunga del nichilismo annunciato dalla nietzschiana morte di Dio[70]. Questione che, come per Heidegger, non riguarderebbe esclusivamente la morte del dio cristiano, ma più generalmente l’estinguersi di qualsivoglia fondamento ultimo del reale, l’esaurirsi di ogni possibile risorsa simbolica che possa ancora riunire una comunità e guidarne l’azione. In questo senso, il nichilismo non rappresenterebbe semplicemente una crisi di valori, quanto piuttosto il dissolversi della loro stessa possibilità. Se tutta la storia epocale, infatti, risulterebbe essere in qualche modo intrinsecamente nichilistica, giacché le economie della presenza e i loro principi sarebbero di per sé transeunti, inevitabilmente destinati al tramonto, nell’epoca tecnica contemporanea tale nichilismo si farebbe oltremodo radicale, in quanto, nel «Gestell», la logica epocale si sarebbe finalmente compiuta chiudendosi su sé stessa, e nessun principio sarebbe più possibile. In tale condizione, il senso sembra perdere ogni direzione e spogliarsi di ogni scopo: «Manca il fine; manca la risposta al “perché?”»[71].
L’anarchia teorizzata da Schürmann sarebbe dunque un tentativo di accogliere e di corrispondere a tale condizione, preparandosi a un suo attraversamento in vista di un nuovo inizio, per un’economia anarchica in cui l’abitare si faccia libero per l’imprevedibile pervenire della presenza, per un senso molteplice e cangiante. Una libertà senza archè, che eserciti attivamente l’affrancamento da qualsiasi principio e che contribuisca al crollo dei principi vacillanti non ancora destituiti. In ultima analisi, l’anarchia di Schürmann non sarebbe altro che una lettura emancipativa della morte di Dio.
Una lettura che, tuttavia, celerebbe alcune rilevanti criticità. Ci si potrebbe infatti chiedere se tale anarchia rappresenti davvero una risposta all'altezza della condizione nichilistica contemporanea, o se non costituisca, piuttosto, una peculiare forma dell’abitare, figlia della tecnica e della sua astuzia. Non potrebbe essere questa assoluta e anarchica libertà, slegata da qualsiasi fondamento storico e normativo, una peculiare espressione dello sradicamento tipico della tecnica?
In effetti la posizione di Schürmann, per quanto filosoficamente coerente, resta in qualche modo ambigua. Lo si può osservare in alcune istanze che definirebbero la suddetta anarchia. Figurerebbero tra queste: 1) il ripensamento radicale di alcuni concetti fondamentali, quali quelli di finalità, responsabilità, funzione, destino, violenza, così come di volontà, libertà, decisione, i quali, da tipici concetti etici e morali, nell’anarchia diverrebbero nozioni topologiche[72]; 2) l’abbandono di ogni «polemos»[73] diretto, sia esso morale, culturale o politico, a favore di un «fare polimorfo»[74], che si accordi alla mutevolezza del reale e che la assecondi; 3) in generale, il proposito di «liberare le cose dal “concetto abituale” che le “imprigiona” sotto rappresentazioni fondamentali»[75], evidenziandone l’essenziale contingenza.
L’aspetto maggiormente problematico di tali istanze qualificanti l’abitare anarchico sarebbe rappresentato dal primo punto, ossia dalla topologizzazione di quelle che potrebbero essere considerate come alcune delle fondamentali nozioni della cultura occidentale. L’operazione di topologizzazione consisterebbe nella reinterpretazione delle suddette secondo una accezione «antiumanistica»[76], secondo la quale esse verrebbero astratte dalla loro essenziale appartenenza alla sfera soggettiva di senso, e così spogliate della loro tipica connotazione etica e morale, e ricomprese in qualità di categorie appartenenti al venire alla presenza come tale. Per intendersi, topologizzare il concetto di “finalità” equivarrebbe a dire slegare la finalità pratica dall’azione dell’agente, per ricomprenderla a un livello superiore e più originario nell’Ursprung: sarebbe a partire da quest’ultima che la finalità pratica dell’agente, la finalità tradizionalmente intesa, troverebbe la propria fondazione. Essa verrebbe così riassorbita nell’essere in sé gratuito e, propriamente, “senza fine” del venire come tale alla presenza. Ma ciò, si badi bene, non equivarrebbe a ricomprendere la finalità pratica soggettiva a partire da una donazione di senso, da un’apertura mondana che, per necessità costitutiva, non sarebbe in potere del soggetto, e che quindi ne trascenderebbe la libertà e la responsabilità; bensì condurrebbe più radicalmente alla trasformazione della finalità stessa dell’agente in una finalità intrinsecamente “senza perché”, giacché senza finalità sarebbe lo statuto ontologico dell’origine, il suo occasionare la presenza e il suo dischiuderne il senso. La topologizzazione della finalità avrebbe come esito quello di liberare l’agentività del soggetto dalla sua finalità, in direzione del plurale e imprevedibile pervenire della presenza. In tal modo, la trasformazione topologica della finalità che si realizzerebbe nell’anarchia schürmanniana si tradurrebbe più concretamente come un vivere nell’«assenza di scopo così nel pensare come nell’agire»[77].
Lo stesso avverrebbe per la tipica categoria etico-morale di “responsabilità”, anch’essa ricondotta all’origine e alla sua natura anarchica. Se nella sua tipica accezione morale, insita della responsabilità sarebbe la libertà decisionale dell’agente e, con essa, il suo strutturale riferimento a una alterità cui dar conto delle proprie azioni, sia tale alterità un principio, un valore o una comunità, nella sua reinterpretazione topologica essa diviene una più semplice e originaria «risposta»[78] al venire alla presenza, indicando con ciò il necessario accordo dell’esistenza, individuale e intersoggettiva, al dischiudersi di una economia della presenza e al cangiante pervenire e dileguare del reale. Risposta che quindi si realizzerebbe non solo come accordo al senso disvelato, ma più veramente all’accadere stesso dell’origine, e che, in un abitare anarchico, avrebbe modo di attuarsi in modo maggiormente esplicito e consapevole rispetto a quanto, per necessità essenziale, sarebbe sempre accaduto nella storia destinale. La responsabilità e il suo riferimento sarebbero così direttamente rivolti al venire alla presenza e non più a un qualche simulacro principiale e valoriale, né tantomeno essi si realizzerebbero secondo l’appartenenza a una comunità, giacché, nel fondo dell’origine, ne sarebbe rivelata l’essenziale contingenza.
Analogamente, stessa sorte subirebbero i concetti di “destino” e di “situazione”. Da tipici concetti di matrice esistenziale, essi diverrebbero categorie del venire alla presenza, concetti che più profondamente esprimerebbero il dispiegarsi dell’Ursprung, e che ora, in quanto tali, dovrebbero essere interiorizzati e vissuti dall’esistenza anarchica. In particolare, il destino non consisterebbe più nella strutturale unità di necessità e di possibilità che caratterizzerebbe l’esistenza in generale, nel fatto che l’aver da essere di ciascuno sarebbe sempre chiamato a realizzarsi a partire da possibilità che non possono essere progettate e decise a monte e su di cui, per necessità costitutiva, non si può avere alcun preventivo potere ma che, nondimeno, possono essere oggetto di personale, intersoggettiva e eventualmente condivisa appropriazione – in questo specifico senso, “liberamente”; né tantomeno il destino starebbe a indicare l’appartenenza collettiva o il processo con cui accadrebbe una comunità. Esso invece sarebbe più essenzialmente da intendersi come heideggeriano «Geschick», ovvero come invio della presenza: «Il destino è l’ordine sempre mobile del venire alla presenza-ritrarsi nell’assenza, la costellazione aletheiologica così come essa situa e ri-situa ogni cosa nel tempo»[79]. Le strutture esistenziali, storiche e incarnate del destino e della situazione sarebbero così ricomprese a partire dall’attività dell’Ursprung, rivelando il loro essere in essa fondate: sarebbe infatti a partire da essa, dalla sua donazione di orizzonti di senso che, a livello inferiore, verrebbe costituita la necessità mondana dell’esistenza e il suo essere in situazione, e quindi le sue possibilità di realizzazione.
Infine, la medesima operazione subirebbero le nozioni di libertà, volontà e decisione, le quali anch’esse, in prospettiva topologica, verrebbero spogliate della loro valenza soggettiva, etica e morale e ricondotte al loro fondamento originario nell’Ursprung. La loro implementazione soggettiva e intersoggettiva, infatti, sarebbe di volta in volta realizzabile a partire da ciò che l’Ursprung avrebbe reso possibile, ossia presente, praticabile e intelligibile. E l’autentica libertà, volontà e decisione consisterebbero pertanto in quella a-soggettiva e non umana del venire alla presenza.
Da un punto di vista filosofico, l’aspetto rilevante dell’operazione promossa da Schürmann può cogliersi nel fatto che la suddetta topologizzazione spoglierebbe sì tali categorie della loro tipica connotazione morale, così come, si capisce, porrebbe tra parentesi la loro fondamentale costituzione storica. Nondimeno, egli ne proporrebbe un nuovo e inedito senso etico. Trascendendo l’orizzonte entro il quale può darsi qualsivoglia discorso sul giusto e l’ingiusto, sul bene e sul male, l’anarchia formulata da Schürmann si sottrarrebbe di principio a una possibile connotazione morale. Essa si collocherebbe proprio “al di là del bene e del male”, in quanto ciò di cui si curerebbe sarebbe il fondamento originario dell’essere e dell’agire in generale, a partire da cui ogni giudizio, teoria, significato e intelligibilità possibile sarebbero fondati in prima e ultima istanza. Ma non per questo l’anarchia non sarebbe allora etica: essa realizzerebbe infatti come disposizione esistenziale e come prassi ciò che l’analisi prima genealogica e poi fenomenologica avrebbero posto in luce: l’essenza anarchico-ontologica del fondamento. In tal senso, Schürmann realizzerebbe a suo modo il profilo di quella «etica originaria»[80] da Heidegger soltanto scrutata e chiosata (e ciò non a caso, come si suggerirà a breve), nel cui cospetto, una volta riconosciuta la finitezza del senso e, conseguentemente, l’esser derivato e non originario del discorso morale, verrebbe dissolta la canonica distinzione tra ontologia ed etica. Ciò perché, a partire dall’Ursprung, dal suo esser fondamento anarchico e non monolitico, l’ontologia non potrebbe più realizzarsi come discorso sui principi primi e ultimi dell’essere; al contrario, con la rivelazione del fondamento quale puro venire alla presenza, essa non potrebbe far altro che realizzare tale consapevolezza ontologica come atteggiamento pratico, e quindi come etica, per giunta, anarchica. Parimenti, l’etica non potrebbe più ambire a una fondazione descrittivo-prescrittiva dell’agire, né tantomeno potrebbe consistere in un sistema di massime morali. Essa non avrebbe che da realizzare in sé stessa, come prassi, e in modo quanto più consapevole, il fondamento ontologico che originariamente sempre la occasionerebbe. Nell’anarchia, dunque, l’ontologia diverrebbe etica pratica, e l’etica realizzerebbe in sé l’ontologia. La distinzione sfumerebbe nell’unità (unità nella differenza) di senso e Ursprung, nella loro reciproca ed essenziale coappartenenza.
Ed è all’interno di tale quadro teorico che si rende comprensibile perché Schürmann disincentivi qualsivoglia forma di polemos diretto, sia esso politico, culturale o morale. Esso non si avvedrebbe che l’apertura di senso entro cui può esercitarsi, nonché le sue possibilità disponibili, sono qualcosa su cui da ultimo non avrebbe alcun potere e efficacia, in quanto il senso disponibile e il senso possibile sarebbero sempre e solo concessione dell’Ursprung. Il polemos verrebbe così ridotto a mero epifenomeno, a mero esercizio di vana gloria, frutto del misconoscimento del fondamento dell’azione e di ogni mondo possibile. Ogni possibile cambiamento dello status quo, ogni rivoluzione di una determinata configurazione epocale sarebbe sempre e solo appannaggio del venire alla presenza.
In fin dei conti, l’anarchia di Schürmann, come è egli stesso a sottolineare, non sarebbe altro che una singolare interpretazione della «Gelassenheit»[81] heideggeriana, ossia di quell’atteggiamento di abbandono e di apertura al mistero celantesi nel disvelamento mondano del senso. Interpretazione che troverebbe il proprio radicamento teorico ed esistenziale nella peculiare accezione heideggeriana del fondamento quale «Abgrund»[82], e che, a partire dai celebri versi eckartiani di Angelus Silesius, così cari a Heidegger come anche a Schürmann[83], tradurrebbe il «senza perché»[84] del fondamento nel “senza perché” di una vita ad esso conforme, e quindi in una vita che si scopra e che si realizzi in modo anarchico, al di là di qualsivoglia principio di ragione.
Tuttavia, come accennato, l’abitare anarchico prospettato da Schürmann celerebbe in sé alcune problematiche di fondo, le quali emergerebbero proprio nel momento in cui tale paradigma filosofico verrebbe calato nel contesto storico-culturale contemporaneo.
Per quanto, infatti, le suddette istanze anarchiche siano motivate dal riconoscimento dell’insita ambivalenza dell’abitare nel suo rapporto con il senso, e ciò sia a livello ontologico che a livello epocale, secondo quanto posto in luce dall’analisi genealogico-fenomenologico-decostruttiva, esse, in realtà, sembrerebbero accogliere e nascondere in sé alcuni dei processi già in atto nella temperie culturale attuale. A uno sguardo distaccato dalla sua coinvolgente speculazione filosofica, la proposta di Schürmann rischia di rappresentarne una fine e sofisticata giustificazione filosofica.
In particolare, si auspicherebbe una destoricizzazione delle categorie fondamentali che renderebbero tale la cultura occidentale, attraverso una risemantizzazione topologica che le astrarrebbe dalla vicenda storica che le avrebbe originate e che le spoglierebbe della loro valenza etica e morale; il cui rischio sarebbe quello di condurre, più che alla individuale o collettiva loro messa in questione, per il ritrovamento di un senso che possa essere attuale, a un più decisivo svuotamento del loro significato effettivo e potenziale, e dunque all’incapacità di poter orientare la riflessione contemporanea e il suo abitare.
Parallelamente, attraverso tale operazione topologica, si promuoverebbe la dissoluzione di quelle strutture normative che conferirebbero senso e coerenza alla realtà; strutture che tuttavia, come emerso nell’analisi epocale, sarebbero costitutive delle comunità. Il che solleverebbe un’interessante questione. È infatti singolare che, mentre nella storia epocale descritta da Schürmann le comunità rivestirebbero un ruolo centrale, poiché sarebbe proprio attraverso di esse che il senso mondano si realizzerebbe, nell’anarchia prospettata invece non vi sarebbe alcun riferimento significativo a esse. Singolare, sì, ma forse non casuale. Auspicando la destituzione dei principi attorno ai quali le comunità si sarebbero storicamente raccolte e forgiate, nella condivisione di un senso comune, Schürmann non può che tacere il modo con cui tale anarchia possa effettivamente assurgersi a progetto collettivo e politico (anziché rimanere una condizione meramente vissuta, o meglio patita nella solitudine dell’esistenza), configurandosi in un abitare che non sia semplicemente accondiscendente nei confronti dei processi in atto e dell’imporsi del senso mondano, ma che sappia farsi carico del proprio potenziale trasformativo.
Infine, emblematico sarebbe il riferimento a una «fluidità radicale»[85], a una «grande fluidità nella sfera pubblica»[86] che caratterizzerebbe l’abitare e la sua epoca, del quale invero assai dubbio parrebbe il suo esser a venire, quanto piuttosto sembrerebbe ottimamente riassumere l’attuale condizione epocale[87], di cui la perdita della stabilità e la frantumazione dei limiti ne sarebbero la cifra distintiva[88]. Pur non affrontati direttamente da Schürmann, fenomeni tipicamente nichilistici quali l’indebolimento identitario, personale e collettivo, l’illanguidimento della sfera valoriale e normativa, lo sradicamento territoriale e, più in generale, la liquefazione dell’esistenza, fenomeni che caratterizzerebbero in modo ormai “globale” l’abitare contemporaneo[89], sarebbero anticipatamente risolti a somma di segno positivo in virtù della carica emancipativa loro sottesa, piuttosto che essere considerati quali patema dell’abitare contemporaneo.
Effettivamente, l’ambiguità della posizione di Schürmann sarebbe radicata nella sua impostazione teorica di fondo, di cui se ne possono esplicitare due punti significativi. Il primo consisterebbe nell’identificazione del fondamento originario come Ursprung, in particolare, come fondamento abissale, che trascenderebbe la sfera delle ragioni e dell’intelligibilità e che, agendo di volta in volta “senza perché”, si sottrarrebbe alla sfera di senso in quanto essa fondante. Come si è detto, da ciò seguirebbe la concezione anarchica dell’abitare, ossia di un’esistenza che dovrebbe vivere in accordo con la giocosità del venire alla presenza. Qui si inserirebbe il secondo punto. Nell’elaborazione dell’esistenza anarchica, Schürmann starebbe a suo modo appropriandosi della figura heideggeriana della Gelassenheit, ossia di quell’atteggiamento di ritegno e di apertura verso l’origine di ogni senso possibile nel cui cospetto ogni istanza più canonicamente etica, prescrittiva, normativa verrebbe meno a favore di un esistenziale disporsi, prepararsi e curarsi di ciò che, serbandosi in sé, si sottrarrebbe alla sfera di senso. Di tale «Seinlassen» Schürmann esaspererebbe, consapevolmente, il momento emancipativo, ossia il suo riguardo per il poter essere altrimenti del senso, per il suo esser possibile. Se la Gelassenheit sarebbe fondamentalmente apertura dell’esistenza a quell’alterità che costituirebbe il fondamento del senso, nel riconoscimento che il disvelamento del mondo, per come dato, non rappresenterebbe l’unico senso possibile – aprendosi così, parimenti, alla possibilità di un abitare e di una prassi che si dispieghino in maniera differente rispetto a quanto avvenuto nella storia della metafisica, motivo per cui Heidegger si guarderebbe bene dal fornire istanze precise e soprattutto prescrittive concernenti l’etica originaria, pertanto dando spesso a intendere una sciente ammissione di ignoranza su ciò che sarebbe da farsi per il superamento della metafisica e della sua imposizione tecnica[90] – , a ciò Schürmann fa seguire il proposito di un attivo abbandono delle configurazioni di senso in generale, spogliando di ogni rilevanza storica e pratica i concetti e i significati contemporanei tramandati dalla tradizione storica, i quali verrebbero ricondotti al loro fondamento anarchico, ovvero libero, gratuito, fondante ma in sé infondato, e così ridotti a un che di contingente e arbitrario, di in sé insignificante e insensato.
In tal modo l’anarchia di Schürmann non solo si esporrebbe alle stesse accuse di quietismo e di deresponsabilizzazione cui sarebbe stata particolarmente soggetta la teoresi della seconda fase del pensiero heideggeriano, ma anche alla possibile accusa di un nichilismo attivo ma sfrenato, per il quale non vi sarebbe alcuna conformazione di senso a essere veramente sensata. Ne sarebbe emblematica non solo la reinterpretazione topologica dei concetti fondamentali della cultura occidentale, ma anche quanto si può leggere nel punto 3, il proposito generale di «liberare le cose dal “concetto abituale” che le “imprigiona” sotto rappresentazioni fondamentali». Anche qui, al riconoscimento (di matrice heideggeriana) della finitezza del senso, Schürmann fa seguire un radicale e attivo momento destituente, per il quale non si tratterebbe solo di vivere nella consapevolezza che il senso non si esaurirebbe mai nel senso disponibile, e che le parole sarebbero da pensarsi più come apertura di sensi possibili (e non invece come sicuro possesso di un significato univoco), bensì proporrebbe lo svuotamento del loro contenuto concreto, ossia storicamente determinato, intersoggettivamente qualificato, culturalmente conservato, rispetto al quale se decisa si mostra essere l’operazione emancipativo-destituente, alquanto vaga e indeterminata non può che essere il suo possibile seguito istituente: liberare il significato della sua valenza abituale a favore di cosa? Quale sarà il significato che si sostituirà alle stesse? Lo si deciderà a partire dall’origine originaria, si potrebbe rispondere. Ma se questa viene identificata come anonimo, astorico e inintelligibile fondamento, come si deciderà per un contenuto a favore di un altro? In base a cosa? E poi, vi sarebbe ancora contenuto in quanto tale?
Una volta accolta l’assoluta contingenza del significato e del senso in generale, la risposta non può che tacere. Spogliando il senso della sua intrinseca necessità storica, della sua insita valenza normativa (in quanto intersoggettivamente costituito); posta tra parentesi tutta la vicenda concreta e materiale entro la quale il senso sarebbe di volta in volta forgiato, tramandato, consegnato, ereditato per e all’interno di una comunità incarnata e diveniente di interpretanti; e spogliato così il senso della sua necessaria valenza tradizionale, ovvero della costitutiva appartenenza del significato a un patrimonio culturale, sia questo scientemente o inconsapevolmente vissuto ed espletato – Schürmann non può che prospettare la possibile realizzazione intersoggettiva dell’anarchia in modo quantomai generico e di principio non meglio definibile, ossia come una sorta di «apprendistato collettivo» di cui effettivamente nient’altro si potrebbe dire, avendo egli dissolto a monte la possibilità di ogni fare comunitario e ridotte a metafisiche, e dunque superabili nell’anarchia, tutte le forme che caratterizzerebbero come tali l’intersoggettività nel suo rapporto con il senso. Anche qualora si trattasse di una nuova e inedita comunità ontologicamente anarchica, attorno a cosa si raccoglierebbe? In quale contenuto di significato intersoggettivo potrebbe ancora riconoscersi e identificarsi?
Difficile rispondere, una volta che il significato è stato svuotato di tutto ciò che costituisce il suo contenuto. Esso diviene una possibilità vuota, ovvero nessuna possibilità. Il rischio, però, è che tale vuotezza del significato, tale anarchia del senso mondano, esistenziale e comune, nonché dell’agire, venga silentemente riempita dai valori (o non valori) dell’epoca tecnica, prestando il fianco ad alcuni dei fenomeni nichilistici caratterizzanti l’epoca contemporanea. Non sarebbe irragionevole pensare che, una volta ricondotta nel nulla dell’origine la valenza storica e intersoggettiva del senso e dei valori comunitari, ciò non spiani in qualche modo la strada a una libertà anarchica di tipo prettamente individuale, che abbia come unico contenuto l’esercizio stesso della propria libertà, ossia l’affermazione, il prosperare di sé e nient’altro che questo, a suo modo espletando la logica dell’imposizione tecnica.
Infine, una breve considerazione a margine. Schürmann accoglie senza davvero problematizzare il concetto di fondamento che lo guida nella formulazione dell’anarchia. Nella sua indagine decostruttiva, egli non si avvede di sollevare a questione quello stesso concetto di Ursprung la cui “semplicità”, invero, non sarebbe affatto alcunché di semplice, e ciò sia da un punto di vista storico e genealogico che da un punto di vista teorico. Che anche l’Ursprung, il puro e semplice “si dà”, l’Abgrund “senza perché” sia a sua volta un concetto, e nient’affatto una cosa in sé, non viene posto all’attenzione. La semplicità dell’origine sembrerebbe in qualche modo giustificare sé stessa, sottraendosi a una possibile indagine filosofico-genealogica. E qui sorgerebbe un altro problema. Così come per l’Ursprung, Schürmann non pone minimamente in questione il suo stesso gesto decostruttivo, così come l’indagine genealogica e l’osservazione fenomenologica della presenza stesse. Egli non sembra accorgersi che questi, a loro volta, sarebbero frutto di tutta una storia, di tutta una sterminata vicenda che avrebbe condotto tali principi teoretici a maturare e ad affermarsi; quella stessa vicenda che avrebbe condotto Schürmann a intendere, per come ha inteso, lo statuto del fondamento e la sua corrispettiva possibilità etica. La decostruzione, la genealogia, la fenomenologia, come tali, sono in sé dei punti di arrivo, non dei neutri punti di partenza. Pertanto, esse sono istanze che, accadendo, fanno accadere con sé il loro corrispettivo ambito oggettuale: nell’accadere della loro domanda, è già accaduta la possibile risposta. Per poter anche solo pensare il semplice “si dà” della presenza, tante cose sono già successe e su tante cose si è già deciso, senza che di ciò si abbia contezza – noncuranza o ignoranza forse costitutive del comprendere e della sua necessità. Infine, risulta essere da sé evidente che un pensiero anarchico, che pretenda di dire qualcosa di originario, in realtà presupponga in sé già l’archè. Ma si abbandonino ora questi più complicati discorsi.
Tornando a noi, l'anarchia di Schürmann, dunque, rischia di configurarsi non solo come una vita senza principi, ma, più profondamente, come una vita senza forma. Nella sua libertà assoluta, disancorata da ogni necessità storica e condizione concreta, sembrerebbe celarsi la stessa razionalità tecnica e nichilistica che essa vorrebbe superare; una razionalità anarchica, senza archè, in un certo senso, liberale[91]. Una libertà che non mirerebbe esclusivamente ad affrancarsi dai significati generati, tramandati e consolidati da una tradizione storica, bensì più radicalmente dalla forma stessa in cui qualsivoglia significato può darsi. L’anarchia ambita, più che aspirare alla ricomprensione dell’unità di necessità e di contingenza del senso, al fatto che la sua intrascendibilità e la sua determinatezza non ne esaurirebbero il suo esser possibile, sembrerebbe fondamentalmente dedicata alla sua destituzione, prediligendo all’essenza normativa dell’abitare il suo esser contingente, inficiando così a monte la ricerca di un senso che possa dirsi ancora comune e condiviso.
L’abbandono di qualsiasi principio normativo potrebbe riflettere non tanto un’affermazione di libertà, come l’emancipazione da sistemi di riferimento ormai obsoleti, quanto piuttosto un’accettazione passiva delle dinamiche nichilistiche contemporanee. La fluidità anarchica, per quanto liberatoria, rischierebbe di degenerare in una perdita di direzione fondamentale, in una condizione in cui il fare polimorfo diventerebbe un fine a sé, privo di una vera guida etica o politica e impossibile a tradursi in un fare comune.
Più che la ricomprensione del senso e della sua finitezza, Schürmann sembrerebbe prefigurare il suo completo dissolvimento a favore di un nuovo inizio del pensiero e dell’agire. Del resto, l’anarchia non sarebbe che l’esplicita assunzione del nichilismo in vista di un suo superamento, la risposta a una bruciante richiesta di senso: «Che fare alla fine della metafisica?»[92].
Riecheggia qui, in tutta la sua gravità, il celebre dialogo tra Jünger e Heidegger svoltosi sul crinale notturno del nichilismo, condizione la cui anamnesi viene saggiata nell’imminente cogenza di una sua assunzione, nell’auspicio di una guarigione che possa segnare il passo verso un oltre. Nichilismo come condizione divenuta normale, come linea che delimiterebbe l’abitare contemporaneo rispetto al suo possibile avvenire. Una linea che per Jünger si tratterebbe di oltrepassare, attraversandone il deserto e beneficiando, in tale arrischiata traversata, del ristoro di alcune «oasi» dello spirito, quali sarebbero la morte, l’amore, l’amicizia, l’arte[93]. Linea sulla quale, invece, si tratterebbe per Heidegger di insistere, di sostare, meditando il destino di quell’oblio dell’essere di cui l’attuale nichilismo non ne rappresenterebbe che il finale compimento, ma infine abbandonando a sé questa stessa storia, nella preparazione di un altro pensare[94].
Nichilismo storico, epocale, contemporaneo; nichilismo destinato, realizzatosi, a venire: linea continua della propria storia, linea conchiusa del suo contorno. Nichilismo che forse potrebbe assumere un tenore diverso, qualora si rinunciasse alla sua epocalizzazione per coglierlo, invece, come tratto essenziale dell’abitare. Non più come linea di confine, tra un passato irrecuperabile e un futuro imperscrutabile, non come limite che separerebbe il senso dal nulla, ma come soglia costitutiva dell’abitare stesso, lungo la quale di volta in volta accadrebbero, nell’unità della loro differenza, la necessità del senso e la sua contingenza, la sua imprescindibile determinatezza e la possibilità di essere altrimenti, la sua intrascendibilità e, al contempo, la sua irrevocabile transitorietà.
Una soglia in cui risiederebbe l’insita ambivalenza del senso e del suo abitare, e che, come tale, non condurrebbe né al preventivo dissolvimento di qualsivoglia struttura normativa né tantomeno all’imposizione univoca di definitivi principi, ma che consentirebbe di ricomprendere la necessità di tali strutture e con essa la possibilità di poter essere altrimenti, in un’apertura di senso che non coinciderebbe mai con tutto il senso possibile, ma che per questo non ne farebbe un nulla.
Una prospettiva nella quale le strutture fondamentali dell’esistenza, quali ad esempio l’amore, la morte, l’arte, l’amicizia, così come la famiglia, l’identità, la tradizione, la patria, nonché, più ampiamente, le categorie e i significati originati e tramandati da una tradizione storica non rappresenterebbero elementi obsoleti di un passato da superare o cancellare, né sarebbero ridotti a semplici oasi provvisorie dello spirito in direzione di un radicale superamento, bensì si rivelerebbero essere luoghi di senso ancora vitali, capaci di offrire direzione all’abitare. Non valori o principi immutabili, ma riferimenti che, seppure contingenti e storici, offrirebbero nondimeno una normatività capace di orientare l’esperienza, e che tuttavia necessiterebbe sempre di essere criticamente saggiata e riappropriata, in un significato che possa essere, per noi, oggi, sensato.
Abitare la soglia, dunque, piuttosto che perseguire la dissoluzione del senso. Quella soglia costitutiva dell’abitare da cui, in realtà, si sarebbe già sempre abitati, ma di cui ora, forse, sarebbe data la possibilità di un’etica consapevole[95]. Un luogo in cui finitezza e apertura, limite e possibilità, imposizione e appropriazione co-accadono, realizzandosi in un senso mondano, esistenziale e collettivo sempre determinato, ma mai definitivo, aperto a un possibile mai totalmente alieno alla realtà concreta.
[1] Come è stato fatto osservare, la riflessione sull’abitare rappresenterebbe in realtà una sorta di fil rouge dell’intera speculazione heideggeriana (cfr. V. Cesarone, Per una fenomenologia dell’abitare. Il pensiero di Martin Heidegger come oikosophia, Marietti, Genova-Milano 2008), raccogliendo in sé l’istanza tanto fenomenologica quanto etica della domanda sul «senso dell’essere» (Sinn von Sein) (cfr. A. Fabris, Heidegger e l’ethos dell’abitare, in Heidegger e gli orizzonti della filosofia pratica. Etica, estetica, politica, religione, a cura di A. Ardovino, Guerini e Associati, Milano 2003, pp. 111-126) e accompagnando la riflessione heideggeriana sia nella propria evoluzione topologica (cfr. J. Malpas, Heidegger's Topology. Being, Place, World, MIT Press, Cambridge-London 2006) come nei problematici risvolti politici (cfr. G. Gurisatti, Est/etica ontologica. L’uomo, l’arte, l’essere in Martin Heidegger, Morcelliana, Brescia 2020, pp. 299-364). Riflessione sull’abitare che, inoltre, avrebbe mostrato la sua fecondità anche in ambito architettonico (cfr. J. Malpas, Rethinking Dwelling. Heidegger, Place, Architecture, Bloomsbury, London 2021; C. Bonicco-Donato, Heidegger et la question de l'habiter. Une philosophie de l'architecture, Parenthèses, Marseille 2019).
[2] M. Heidegger, Essere e tempo (1927), tr. it. Longanesi, Milano 2015, pp. 74-75.
[3] Cfr. C. Sini, Il senso come aura del significato, in Le ragioni del senso, a cura di J. Benoist e G. Chiurazzi, Mimesis, Milano-Udine 2010, pp. 175-182.
[4] Cfr. R. Descartes, Discorso sul metodo (1637), tr. it. Laterza, Roma-Bari 1998, p. 3.
[5] Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1936), tr. it. Il Saggiatore, Milano 2015.
[6] G. Leopardi, Canti (1835), Mondadori, Milano 2013, p. 167.
[7] Cfr. Voltaire, Candido (1759), tr. it. Einaudi, Torino 2014.
[8] Cfr. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov (1880), vol. I, tr. it. Garzanti, Milano 2015, pp. 341-368.
[9] Cfr. B. Spinoza, Etica (1677), tr. it. Bompiani, Milano 2007.
[10] Cfr. A. Silesius, Il pellegrino cherubico (1675), Edizioni Paoline, Milano-Torino 1989.
[11] Tale accezione della Lichtung quale apertura complessiva di senso è ottimamente riscontrabile in M. Heidegger, Dell’essenza della verità, in Id., Segnavia (1967), Adelphi, Milano 2008, pp. 133-157. Sull’intrinseco e articolato rapporto tra senso e apertura veritativa nel pensiero di Heidegger, vedasi M. Wrathall, Heidegger and Unconcealment. Truth, Language, and History, Cambridge University Press, New York 2010, pp. 1-34.
[12] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 188.
[13] Ibid., p. 187.
[14] Cfr. J.-L. Marion, Réduction et donation. Recherches sur Husserl, Heidegger et la phénoménologie, PUF, Paris 1989, pp. 28-33.
[15] Cfr. E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva (1966), tr. it. La Scuola, Brescia 2016.
[16] Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro primo: Introduzione generale alla fenomenologia pura (1913), tr. it. Einaudi, Torino 2002, pp. 217-218.
[17] Cfr. ibid., pp. 222-337. In particolare, si consideri la significativa nota redatta intorno al 1923 (cfr. ibid., p. 222).
[18] Cfr. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro secondo: Ricerche fenomenologiche sopra la costituzione (1952), Einaudi, Torino 2002.
[19] Cfr. ibid., pp. 175-300.
[20] Oltre al secondo volume delle Idee, vedasi E. Husserl, Metodo fenomenologico statico e genetico, il Saggiatore, Milano 2003.
[21] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. Bompiani, Milano 2021, p. 386.
[22] Tale questione rappresenta un che di emblematico e tuttavia problematico nella riflessione heideggeriana. Se è vero, infatti, che la riflessione del cosiddetto “primo” Heidegger, proprio a partire dal proprio ground fenomenologico, metta in mostra lo statuto intrinsecamente olistico dell’esperienza (vedasi M. Heidegger, Essere e tempo, cit.), giacché l’incontro con l’ente si realizzerebbe sullo sfondo di una totalità di senso già sempre compresa dall’Esserci, una totalità mondana che, secondo la struttura del «rimando» (Verweisung), si articolerebbe nei rapporti di «appagatività» (Bewandtnis) e «significatività» (Bedeutsamkeit), i quali, a loro volta, sarebbero costituenti il significato dell’ente intramondano (Cfr. V. Costa, La verità del mondo. Giudizio e teoria del significato in Heidegger, Vita e Pensiero, Milano 2003, pp. 209-250; C. Romano, At the Heart of Reason, Northwestern University Press, Evanston 2015, pp. 372-402; M. Okrent, Heidegger's Pragmatism. Understanding, Being, and the Critique of Metaphysics, Cornell University Press, Ithaca, NY 1988), rimane tuttavia aperto il problema se tale concezione olistica dell’esperienza, anche e soprattutto in virtù degli elementi teorici introdotti nella seconda fase della speculazione heideggeriana, vada a corroborare o piuttosto a precludere la delineazione di una cosmologia fenomenologica, e con essa una concezione cosmologica dell’abitare (cfr. R. Terzi, Evento e genesi. Heidegger e il problema di una cosmologia fenomenologica, Mimesis, Milano-Udine 2016; F. Cassinari, Mondo, esistenza, verità: ontologia fondamentale e cosmologia fenomenologica nella riflessione di Martin Heidegger (1927-1930), La Città del Sole, Napoli 2001), la quale, ad esempio, può emblematicamente cogliersi nei celebri scritti raccolti in Vorträge und Aufsätze (cfr. M. Heidegger, Costruire abitare pensare, in Id., Saggi e discorsi, tr. it. Mursia, Milano 1991, pp. 96-108; Id., La cosa, in ibid., pp. 109-124; Id., «... Poeticamente abita l'uomo...», in ibid., pp. 125-138).
[23] C. Sini, Inizio, Jaca Book, Milano 2016, p. 62.
[24] Cfr. A. Fabris, Etica e ambiguità. Una filosofia della coerenza, Morcelliana, Brescia 2020.
[25] Cfr. J.-P. Sartre, Il muro, in Id., Il muro (1939), tr. it. Einaudi, Torino 2024, pp. 3-25.
[26] Cfr. J.-P. Sartre, L’intelligibilità della storia. Critica della ragione dialettica. Tomo II (1985), tr. it. Marinotti, Milano 2006, p. 406.
[27] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 95-100.
[28] Cfr. G. Harman, Tool-Being. Heidegger and the Metaphysics of Objects, Open Court, Chicago-La Salle 2003, pp. 44-49.
[29] Cfr. M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo - finitezza - solitudine (1983), tr. it. il melangolo, Genova 1992, pp. 105-220.
[30] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 225-233.
[31] Cfr. ibid., pp. 311-319.
[32] Cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla (1943), tr. it. il Saggiatore, Milano 2014, pp. 271-358.
[33] Cfr. F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere (1979), tr. it. Feltrinelli, Milano 1981.
[34] R. Schürmann, Le principe d’anarchie. Heidegger et la question de l’agir, Seuil, Paris 1982; ed. inglese riveduta a cura di C.-M. Gros, Heidegger on Being and Acting. From Principles to Anarchy, Indiana University Press, Bloomington 1986; tr. it. di G. Carchia, Dai principî all’anarchia. Essere e agire in Heidegger, il Mulino, Bologna 1995.
[35] Pur con le dovute distinzioni, è ampiamente riconosciuta l’affinità di fondo tra la lettura di Schürmann dell’opera heideggeriana e quella promossa negli stessi anni da Gianni Vattimo, come anche direttamente testimoniato da quest’ultimo (Cfr. G. Vattimo, Philosophy as Ontology of Actuality. A Biographical Theoretical Interview with Luca Savarino and Federico Vercellone, in «Iris: European Journal of Philosophy and Public Debate», I, 2, 2009, pp. 311-350). Al di là della questione emancipativa, degno di nota è inoltre il fatto che Schürmann abbia proposto una lettura «a rovescio» (R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., p. 41) del corpus heideggeriano, ovvero che muova dagli ultimi trattati in direzione della analitica esistenziale di Essere e tempo, con il fine di porre in luce la centralità della questione dell’agire all’interno del Denkweg, realizzando a suo modo quella stessa lettura a rovescio che qualche anno prima era stata realizzata da Vincenzo Vitiello, nel suo Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Metaphysik alla Daseinsanalyse, Argalia, Urbino 1976.
[36] Di cui, tra i vari luoghi della produzione heideggeriana, è data esplicita traccia in M. Heidegger, Nietzsche (1961), tr. it. Adelphi, Milano 2000.
[37] R. Schurmann, Des hégémonies brisées, Éditions T.E.R., Mauvezin 1996.
[38] R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., p. 27.
[39] Cfr. A. Martinengo, Un pensiero anarchico. Filosofia, azione e storia in Reiner Schürmann, Meltemi, Milano 2021.
[40] Molteplici sono i riferimenti spesso non celatamente polemici a essa (cfr. R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit.).
[41] Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo» (1947), tr. it. Adelphi, Milano 1995.
[42] R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit.
[43] Cfr. R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., p. 177. In particolare, essi sono attinti da M. Heidegger, La parola di Nietzsche «Dio è morto», in Id., Holzwege. Sentieri erranti nella selva (1950), tr. it. Bompiani, Milano 2014 p. 511.
[44] Cfr. R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., p. 98.
[45] Al di là della propria rilevanza nella riflessione di Schürmann, il concetto di economia sarebbe fondamentale per la comprensione del paradigma abitativo in generale (cfr. S. Petrosino, Capovolgimenti. La casa non è una tana, l’economia non è il business, Jaca Book, Milano 2007).
[46] Cfr. A. Ardovino, Raccogliere il mondo. Per una fenomenologia della Rete, Carocci, Roma 2011, pp. 105-125.
[47] R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., p. 163.
[48] Ibid., p. 65.
[49] Ibid., p. 68.
[50] Cfr. M. Heidegger, La locuzione di Anassimandro, in Id., Holzwege, cit., pp. 749-873.
[51] M. Heidegger, Il nichilismo europeo, in Id., Nietzsche, cit., p. 648.
[52] Ibid. Concetto fondamentale le cui sfaccettature sono rinvenibili in Vorträge und Aufsätze.
[53] Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, cit., pp. 5-27.
[54] Cfr. Platone, Fedro, tr. it. Bompiani, Milano 2018, pp. 43-51.
[55] Cfr. M. Heidegger, L'origine dell'opera d'arte, in Id., Holzwege, cit., pp. 5-173.
[56] Cfr. M. Heidegger, La cosa, in Saggi e discorsi, cit.
[57] Cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Id., Holzwege, cit., pp. 175-265.
[58] Cfr. M. Heidegger, La metafisica come storia dell'essere, in Id., Nietzsche, cit., pp. 863-910.
[59] Cfr. R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., p. 70.
[60] Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, cit.
[61] R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., p. 75. In particolare, Schürmann fa riferimento alla conferenza heideggeriana Die Kehre (cfr. M. Heidegger, La svolta, il melangolo, Genova 1990).
[62] Cfr. R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., pp. 451-580.
[63] La quale, sebbene realizzata nell’opera postuma Des hégémonies brisées, è in Dai principî all’anarchia che trova la sua effettiva formulazione teorica.
[64] La stessa che secondo Schürmann sarebbe stata realizzata dal Denkweg heideggeriano (Cfr. R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., pp. 131-155).
[65] Ibidem, p. 237.
[66] M. Heidegger, Tempo e essere, in Id., Tempo e essere (1927), tr. it. Longanesi, Milano 2007, p. 30.
[67] Cfr. ibid., pp. 3-31.
[68] Cfr. R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., pp. 237-298.
[69] Ibid., p. 468.
[70] Cfr. ibid., p. 527. In generale, per una mappatura e un’estesa analisi del nichilismo, vedasi C. Esposito (a cura di), Il nichilismo contemporaneo. Eredità, trasformazioni, problemi aperti, Studium, Roma 2024.
[71] F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-88, in Id., Opere complete, vol. VIII, tomo II, Adelphi, Milano 1971, p. 12.
[72] Cfr., R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., pp. 489-543.
[73] Cfr. ibid., pp. 514-523.
[74] Ibid., p. 538.
[75] Ibid., p. 541.
[76] Cfr. ibid., p. 547-580. Sul problematico antiumanismo del pensiero heideggeriano vedasi E. Mazzarella, Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Carocci, Roma 2021.
[77] R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., p. 497.
[78] Ibid., p. 510.
[79] Ibid., p. 526.
[80] Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», cit.
[81] Cfr. M. Heidegger, L’abbandono, il melangolo, Genova 1989.
[82] Cfr. M. Heidegger, Il principio di ragione (1957) tr. it. Adelphi, Milano 1991.
[83] Cfr. R. Schürmann, Maestro Eckhart o la gioia errante (1972), Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 212-231.
[84] Cfr. M. Heidegger, Il principio di ragione, cit.
[85] R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., p. 542.
[86] Ibid., p. 531.
[87] Emblematica sarebbe in tal senso la categoria di «liquidità» formulata da Zygmunt Bauman [cfr. Z. Bauman, Modernità liquida (1999), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2011; Id., La società sotto assedio (2002) tr. it. Laterza, Roma-Bari 2005; Id., Vita liquida (2005) tr. it. Laterza, Roma-Bari 2006].
[88] Cfr. F. Furedi, Why Borders Matter. Why Humanity Must Relearn the Art of Drawing Boundaries, Routledge, London-New York 2021.
[89] Cfr. A. Zhok, Il senso dei valori. Fenomenologia, etica e politica, Mimesis, Milano-Udine 2024, pp. 371-468.
[90] Come anche osservato dallo stesso Schürmann (cfr. R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., pp. 24-38).
[91] Cfr. A. Zhok, Critica della ragione liberale. Una filosofia della storia corrente, Meltemi, Milano 2020.
[92] R. Schürmann, Dai principî all’anarchia, cit., p. 73.
[93] Cfr. E. Jünger, Oltre la linea, in F. Volpi (a cura di), Oltre la linea, Adelphi, Milano 2014, pp. 47-106, in particolare pp. 96-100.
[94] Cfr. M. Heidegger, La questione dell’essere, in F. Volpi (a cura di), Oltre la linea, cit., pp. 107-168.
[95] Il riferimento al concetto di “soglia” è profondamente debitore della riflessione di Carlo Sini. Per un primo e complessivo inquadramento può vedersi C. Sini, L’ambiente umano, in Id. Intelligenza artificiale e altri scritti, Jaca Book, Milano 2024, pp. 55-82. Oltre alla sua rilevanza per la comprensione dell’antropogenesi dell’umano, delle sue pratiche e dei suoi saperi (cfr. C. Sini, Transito Verità, in Id., Opere, vol. V, Figure dell’enciclopedia filosofica, Jaca Book, Milano 2012), nel concetto di soglia sarebbe raccolta la possibilità di una nuova etica, un’«etica del pensiero» e della «scrittura» (cfr. C. Sini, Etica della scrittura, in Id., L’alfabeto e l’Occidente, in Id., Opere, vol. III/1, La scrittura e i saperi, Jaca Book, Milano 2016, pp. 15-193), un’etica «autobiografica» e del «discorso» (cfr. C. Sini, Idioma. La cura del discorso, Jaca Book, Milano 2021), un’etica che realizzerebbe scientemente in sé, come postura «transdisciplinare» (cfr. Il sapere dei saperi. Per una formazione transdisciplinare, a cura di F. Cambria, Jaca Book, Milano 2022), la soglia lungo la quale di volta in volta accadrebbero, nell’unità del differenziarsi, la vita del sapere e il sapere della vita.